§ Fra Salento e Iroshima: due nostri poeti

Nel paese universale




Nicola Carducci



Apre con buoni auspici la "collana di poesia", diretta da Nicola G. De Donno per le edizioni Congedo di Galatina. Ne vedono la luce i primi due volumi: Maria Rita Bozzetti, Polvere di giorni, con prefazione dello stesso De Donno, e Franco Ventura, Scrivi poeta il Sud, con prefazione di Gino Pisanò, il quale ultimo, fra l'altro, osserva - ed io sono con lui - che oggi circolano più poeti che lettori. Non facile è, dunque, il lavoro di cernita, che, comunque, va fatto o almeno tentato, e ne è prova la "collana" in parola.
L'ispirazione di Ventura, che esercita anche l'attività di pittore con meritata fortuna, è radicata nel nostro Sud salentino, che però, ci pare di capire, legge e traduce, in immagini e fantasmi, in chiave più estensivamente sincronica che topicamente diacronica. La sua Musa dispone e non è un caso frequente di un duplice registro espressivo, senza che l'uno detragga di incisività all'altro. Parola e colore si arricchiscono e stimolano reciprocamente, come attesta la struttura del libro, con la sua intersezione di tavole a colore e figure in bianco e nero tra un manipoletto e l'altro di testi poetici. Una simbiosi che rende più gradevole la lettura, opportunamente pausata. Il Sud del poeta e del pittore è la terra di suo padre, di sua madre, di suo nonno, figure antiche e intensamente emblematiche di una antica "sofferenza silenziosa`; ma i tratti che marcatamente la connotano ne universalizzano la dimensione. Quella "sofferenza silenziosa", che Ventura avverte anche nelle sue stesse carni (il poeta e il pittore), è la Stimmung esistenziale di tutti i paria della terra. Il Sud, è qui, come in Scotellaro, come in Carlo Levi, più una categoria etnologica di assenza dalla storia che una semplice delimitazione geografica. Si muove sempre da un io empirico, da un punto del meridiano o del parallelo, da un'esperienza direttamente o indirettamente vissuta, per risalire e spaziare in orizzonti affini più vasti. Altrimenti si resta inguaribilmente nel folklore.


Ricordo incidentalmente che, a proposito dei "dannati della terra" di Frantz Fanon, Sartre ebbe a denunciare, con parole di fuoco, "lo streap-tease del nostro umanesimo", guasto di eurocentrismo, ideologia bugiarda che giustifica il saccheggio dell'altrui persona, oltre che dei suoi radicali bisogni di sostentamento. Confesso di non riuscire ad accostarmi con animo diverso a questo Ventura, come a Scotellaro, come a Levi, ma anche come all'Orfeo nero, Léopold Senghor, a Pablo Neruda, a Garcìa Marquez, senza ovviamente equipararne i relativi valori estetici.
Ecco la nota sentenza, "parla del tuo paese, e sii universale", ed il linguaggio più appropriato a tale scopo rimane sempre quello delle cose. A livelli diversi, se ne garantisce la globalità della visione umana.
Riportiamo ora qualche scampolo, rinviando, per l'analisi stilistico-linguistica, alle fini rilevazioni di Pisanò: "I vecchi seduti / sulle ginocchia della storia / non si curano della loro / che si avvia al capolinea / e si infilano nei giorni / con le visiere sugli occhi / e le spalle sui muri di tufo / che strapparono alle cave / con le loro mani giovani" ("Gli anni della memoria") Le emozioni di cui si nutre l'ispirazione di Ventura sono "a fil d'inchiostro", ma egualmente incancellabili; e allora la sua poesia tramanda la memoria storica delle "lunghe carestie", del silenzio che puntella i muri "dalle crepe aperte", del "dolore mai urlato / in faccia alla malasorte / per chi non tornò dal fronte", del "lamento per i figli / cresciuti a pane e stenti", che non "s'udì mai fra queste porte" ("Emozione a fil d'inchiostro"); o della figura della vecchia, che l'accende un lume ad olio / ... ogni sera / in faccia alla foto / del figlio caduto sul fronte a vent'anni, / e vive e non vive spiccioli di rammendi e rosari / masticati in fretta / ai santi scoloriti / nella campana di vetro" ("Scrivi poeta il Sud").
Ventura è particolarmente felice nel toccare le corde della pietas e dell'improbus labor temi antichi (si pensi almeno a Virgilio), ma dal Ventura risentiti con una immediatezza che nulla concede alla mediazione letteraria. Coinvolgente è "Notte d'addio", con quella immagine del padre in agonia straziante, che pare quasi assurdo debba venir meno, non esserci più: "E bruciò improvviso nella carne / come taglio di lama / l'abbraccio caldo dei tuoi occhi / che vedemmo spegnersi, padre, / obbedienti alla Sua chiamata". E ancora di più lo è "Se vuoi", con quel vegliare del figlio incredulo, che pietosamente si offre a ripassare col padre i luoghi e le cose a lui più familiari, quasi a restituirlo ad una impossibile nuova esistenza: "Ti aiuto a contare le ore / fino all'alba che scioglierà / questa tua lunga angoscia di sonde. / Se vuoi, parleremo dei nostri / ulivi stanotte, del maestrale che li strazia, dell'urlo chiomato / che si spegne / nell'eco dei tuoi lamenti. / Parleremo dei luoghi d'una volta / dove migrano i nostri spogli pensieri; / ... della nostra terra stanca di seppellire bestemmie, /... e di mia madre anche / delle sue notti insonni / per questo tuo male".
Si vorrebbe qui poter continuare, nel sussurro dei polimetri di Ventura, ma non possiamo chiudere senza almeno un cenno a "Giuochi avversi della sorte", lirica inquietante che ci rigetta nelle ancor più crudeli sciagure dei nostri giorni e dei figli del nuovo Sud, con il loro "vocabolario di tritolo": "Pietra levigata dai tuoi delitti / è il giaciglio degli oscuri anfratti / dove è più duro il sonno che / ... nascondi perfino a chi / con grave affanno / ti portò nel grembo / che pure ti nutrì d'amore. / Mai gli occhi del sole / ... vedranno scolpite rughe di rimorsi / sulla tua fronte assassina". E la storia si ripete con più cupe variazioni.
Con Polvere di giorni della Bozzetti ci ritroviamo su un altro versante di poesia, che non definirci intimista, come pure sembrerebbe; è piuttosto specchio screziato di un'inquietudine che attraversa più che in passato questo "fine secolo"; inquietudine che soltanto la sensibilità dell'artista riesce ad interiorizzare compiutamente e restituirci in immagini.
Lo stile di un autore è il suo stesso modo di conoscere le cose, ammoniva Gianfranco Contini, e il mondo poetico della Bozzetti (professionalmente specializzata in ematologia e primario del laboratorio d'analisi nell'ospedale di Galatina) è tanto più autentico e schietto quanto più apparentemente dimesso. Presiede una visione del mondo che scende sino al cuore delle cose e degli atteggiamenti umani, con trepidazione e con fiducia insieme.
L'enfer ce lo risentiamo tutt'intorno, giorno dopo giorno, ma dipende da noi non lasciarcene sgomentare e scoraggiare; che non è un invito da poco, e rivolto senza enfasi. Del resto, è lo scotto inevitabile dell'esistere nel tempo. Donde anche una non sgradita funzione consolatoria della Musa domestica della Bozzetti, che però non indulge a spifferi crepuscolari, non sgradita, oggi come oggi, nel lezzo diffuso che esala dalle nostrane stalle di Augia. Montalianamente un amuleto, quel suo rincorrere e adagiarsi e posarsi nel tepore degli affetti più umani? Perché, a riflettere bene, il futuro deve preservare il cuore antico, se si vuole far fronte risoluto agli assalti del rinvigorito Maligno storico (o metafisico)?
La sezione d'apertura è dedicata al Potere (con l'iniziale maiuscola); potere che è tanto più insidioso e subdolo e aggressivo quanto è meno sociologicamente decifrabile. Esso si identifica con la più sottile e pervasiva industria clandestina della coscienza: incubo e sofferenza insieme, libido dominandi e voluptas dolendi, in un intrico perverso che soggioga e al quale soltanto il "pensiero", il "nosse" coniugato al "velle", è in grado di porre rimedio: "Il Potere è vestito di grigio, / con la cravatta, / senza note d'allegria. / Il Potere non conosce / volti, / non sa ascoltare parole; / comunica solo nomi". Questo potere mi ricorda la metafora del "padrone" di Goffredo Parise, indeterminato e tuttavia ingombrante segugio di atti e di comportamenti altrui; la sua "sicurezza" si accampa nella "paura" dell'altro, è suo facile "bersaglio" la "solitudine", "la tua gentilezza è la pausa / che gli dà fiato / per divorare di te anche l'anima".


Nel componimento intitolato "Poeta", la Bozzetti chiarisce la sua idea della poesia e, per dir così, l'impegno di tipo nuovo del poeta: "Poeta è colui / che mangia ogni giorno / il pane dell'inquietudine / e del rifiuto, / che ascolta l'urlo / condannato a lenta /agonia / dei suoi pensieri. / Poeta è colui che è morto / a ciò che il mondo ama far vivere, / e vive / per ciò che il mondo / non vorrà mai conoscere". Non siamo a un ideale di poesia come utopia, che si avvale della lezione della storia, per ipotizzare soluzioni alternative al cumulo dei suoi mali? il poeta non riconosce la fattualità dell'esistente, non si adegua al conformismo dei suoi feticci, non celebra l'effimero; si ostina a credere proprio in ciò che la universalità degli uomini rifiuta. E' fin troppo esplicito il rigetto della Bozzetti di ogni forma di massificazione, di manipolazione, di alienazione, d'inquinamento delle ragioni più profonde dell'essere e del sentirsi umani. Si legga, e si rilegga, "La mia vittoria", che significativamente vien subito dietro a "Poeta".
Intanto, sussistono sempre motivi, che la poesia non deve rimuovere, per non seppellire nell'oblio la tragedia di Hiroshima, cui la Bozzetti dedica una lirica, vibrante nella essenzialità dei suoi dati storici e psicologici, e nel contempo accorata per quanto è irreversibilmente perduto, che dunque segna un agghiacciante rigurgito di nuova barbarie: "Da una polvere senz'anima / una morte è nata, / di volto mostruoso. / ... Inutili ombre di morti / cercano nelle nubi del tuo cielo / l'alito di vento che scopra / la pietra delle loro tombe: / un silenzio di persone e di cose / cammina lungo i tuoi sentieri, / e uccide anche lo straniero / ...La tua paura / spaventa il mio futuro". Siamo con "L'uomo del mio tempo" di Quasimodo: "Sei ancora quello della pietra e della fionda".
E' che - teme fondatamente la Bozzetti - "l'alfabeto della vita" ha perso ormai il suo risalto nella coscienza collettiva, e "le sue risposte sono / diafane immagini / con il senso del nulla" ("Preghiera").
Nasce da qui la ricerca di ancoraggi più sicuri, nel lento franamento dei giorni e delle opere, e allora, giocare "a carte scoperte" (con il titolo di un'altra sua lirica), nel labirinto dei rapporti umani, "con gli occhi diretti al vero", senza iattanza: "Alle mie violente accuse / al mondo / dona uno specchio, / perché io riconosca la mia trave e sforzi il mio cuore / che ritorni puro". Ma sono anche da leggere "Dio" e "Sapore di vita", almeno, e rintracciarvi i segni di un'alterità, nella trama dell'esistenza intersoggettiva, che consiste nel "ritrovare un sorriso, / incontrato e perduto / nella fuggente immagine / di una folla senza volto", nel "rischiare l'illusione di una favola, / imbiancando / gli anfratti dei ricordi" ("Sapore di vita").
O, meglio ancora, nel lasciarsi "trascinare nell'irrazionale" della trascendenza, di contro al proliferante "gioco di compromessi" del "razionale umano".
E concludo con un rilievo di De Donno: "Certo non è casuale che l'autrice abbia posto in lirica Un Angelo a chiusura del libro, come non è casuale che abbia posto in apertura le poesie sul Potere".
Perché i poli di osservazione della Bozzetti sono la fenomenicità e la interiorità, l'angustia del Dasein e l'anelito dell'Eterno, "che ridimensiona il presente / e piccolo fa ogni grande / problema" ("Un Angelo").


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