§ Fra Salento e Firenze, in libertà di scrittura

Racconti inediti di Oreste Macrì / Simeone (III)




Gino Pisanò



A) Il paradosso dell'invarianza

Le prose di Simeone, che raccogliamo sotto l'estensiva definizione di 'racconti' per il loro carattere spesso fantastico o surreale, sembrano scritte ad impiego delle horae subsecivae, ossia dei ritagli di tempo nei quali la penna si riserva una libertà di scrittura tutta sua. In effetti l'autore reale (Macrì) prende le distanze da sé, deputando allo 'strologante' locutore (Simeone) il compito e la responsabilità di dissacrare, ironizzare, parodiare aspetti gravi del quotidiano che investono la condizione universale e, perciò, attengono a una sfera 'illustre' che spetta propriamente alla filosofia esplorare e problematizzare.
Abbiamo più volte fatto cenno, nelle precedenti puntate, al carattere lusorio, al di-vertissement che connota queste prose, sottolineando quanto la veste stilistica, al limite dello sperimentale, sia coerente con gli assunti strani, paradossali, inverosimili e, perciò, fiabeschi che Simeone sciorina, giocando con l'oggetto della sua riflessione e, ancor più, col lettore.
Da questa opzione dell'alterità, che gli permette di prendere le distanze dal mondo che lo circonda e di osservarlo con distaccata, eppure non asettica, prospettiva, procede un messaggio di saggezza travestita di follia o, se si vuole, di lecita schizofrenia, alla quale tutto si perdona con indulgente sorriso, dimenticando il tragico che in essa riposa. Allora, a distanziarsi dal narratore-fool, è l'accorto e savio lettore che, forte della sua saggezza, sorride di tanto 'concionare', non diversamente da quei giudici ateniesi di fronte al vecchio Sofocle. Saggezze-contro, dunque, o snobismo reciproco: da un lato l'imprevedibile, bizzarro, libero Simeone, che, celiando, somministra un potage di menzogne e verità, dall'altro il destinatario del suo messaggio, abituato a mettere sul serio vita, morte, storia, non escluse, di quest'ultima, le "magnifiche sorti e progressive".
Un duello a distanza fra l'impenitente, strumentale 'cinismo' (quasi una mèthode) del locutore e il suo lettore supposto (Wolff), presunto come troppo saggio o come troppo ingenuo (che fa lo stesso), senza il quale tanto affabulare sub specie litterarum rimarrebbe lettera morta. In questo scarto, si situa la strategia creativa dell'autore reale, con la sua consapevolezza critica circa i modi attraverso i quali si propone di costruire il suo linguaggio, sicché la "personalità dell'artista" non può essere scissa dalla "personalità dell'autore". Presupposto un siffatto lettore, ossia quello cui pensa l'autore reale nell'atto della scrittura, la narrativa di Macrì istituisce con esso un rapporto privilegiato. Al critico spetta solo un ruolo a latere: comporre, sulla scorta dei modelli inerenti alla propria cultura ed alle proprie tendenze, i disiecta membra di un discorso unitario e funzionale, al cui interno sia possibile cogliere un'anima che unifichi le schegge, apparentemente impazzite, di un 'logos' il quale non è altro se non la visione del mondo specifica dell'autore. E a chiamarla in causa, sotto la specie di riflessione filosofica parodica, è, nel racconto che presentiamo (Il complesso dell'ippopotamo e la talpa occidentale), un ritorno a Vico, vale a dire alle origini, mai rinnegate, della formazione di Macrì: punto di partenza l'ermeneusi dei miti greci proposta da Robert Graves.
Dello studioso inglese, a beneficio di quelle componenti extratestuali, inerenti alla genesi del testo in esame ed annunciate in esordio dal connotatore temporale ("quanto al complesso dell'ippopotamo lo appresi anni fa (1) da Robert Graves"), diremo brevemente che, all'iniziale attività di poeta, culminata nei Collected Poems (1927), Graves affiancò quella di memorialista (Goodbye to all thrat, 1929) impegnato a narrare la sua esperienza della prima guerra mondiale. Essa lasciò un segno profondo sul suo carattere e, fors'anche, sulle sue scelte culturali. Ma Graves è qui convocato in quanto interprete della mitologia greca e dei suoi simboli (The greek myths, 1955), come è dato rilevare dalla citazione bibliografica che rende reale e concreto il rapporto con un indice extratestuale ("nel suo libro I miti greci" etc.).
Vero è che Graves, attratto dalla psicologia del profondo, inizialmente seguì le orme di Freud, Abraham (Traum und Mythus, 1909), Ioung, per poi approdare, sulla scia di Frazer e Malinowski, alla social antropology ed al funzionalismo che, attraverso lo studio dei riti, indaga non la nascita, ma la funzione dell'antico mito. In virtù di questa teoria, i miti, intesi "come fondazioni vincolanti (charter myyths) di realtà sociali [ ... ], stabilivano l'appartenenza al gruppo, tanto quanto le regole del matrimonio, la spartizione delle terre ed il compimento dei rituali" (2). Graves, in realtà, desemantizza il mito, leggendolo in chiave etnologica e neopositivistica. Con lui, Frazer, cui si fa cenno nel testo, il mitologo che assegnò al mito la funzione di spiegare i riti religiosi incompresi, connessi alla propiziazione magica della fertilità (Prolegomena to the Study of Greek Religion, 1903).
Macrì, appropriandosi dell'humour di Simeone, ridisegna, invece, in chiave vichiana il carattere poetico del mito greco arcaico in quanto "muto additare le sostanze divine" (3), sicché, non appena il silenzio diventa linguaggio, nasce la poesia: il mito era la stessa lingua della prima epoca dell'umanità; sublime in quanto povera, affetta da inopia, epperò poetica come quella di Omero e di Dante, gestuale e poi fonosimbolica.
Attraverso una divertita lettura di Graves (si osservi l'immaginario "norvegese o finlandese" che allegorizza i modelli culturali nord-europei, in antitesi a quelli 'mediterranei'), Macrì torna a chiarire il punto centrale di tutta la sua metodica: la poetica della parola,

Gli uomini ferini del Vico "avvertitono" solamente il cielo tuonante [ ... ] e il loro conato fantastico si risolse e si concretò nella parola-mito (4)

ma, questa volta, in chiave giocosa ("il fidanzato eccitato dall'amata" etc.) Nella Nota del trascrittore, Macrì, fingendosi il trascrittore di Simeone, razionalizza l'assunto del suo "doppio" (Simeone non è uno pseudonimo, ma l'alter ego dell'autore) riprendendo l'enunciato iniziale ("la talpa occidentale non è mia, ma del dott. Macrì, mio trascrittore").
Ciò gli consente di entrare ed uscire dal personaggio Simeone (si noti l'inserto metanarrativo: "Simeone si compiace di questo razionalismo senile di Graves, verniciandolo vichianamente, ma egli stesso non è immune dall'analisi antropologica e archetipica [ ... ] da talpa occidentale") in un continuo gioco di specchi, attraverso il quale è la sua stessa identità ad essere relativizzata e messa in crisi.

(III - continua)


NOTE
1) Il corsivo è mio.
2) Cfr. F. GRAF, Il mito in Grecia, Bari, Laterza, 1988 (2), p. 34.
3) Ibidem, p. 14.
4) O. MACRI', La poetica della parola e Salvatore Quasimodo (1938) ora in ID., La poesia di Quasimodo, Palermo, Sellerio, 1986, p. 238.


B) Racconti inediti di Oreste Macrì/Simeone

Il complesso dell'ippopotamo e la talpa occidentale
Quanto al complesso dell'ippopotamo, lo appresi anni fa da Robert Graves nel suo libro I miti greci, tradotto da Elisa Morpurgo presso Longanesi, Milano 1979, p. 342. Da allora me lo sono fantasticato da vecchio vichiano per trovare qualche relazione, d'accordo o contrasto, tra filosofia della storia e psichiatria in senso lato, sul quesito delle origini civili-mentali o criminali-istintuali dell'umanità, in gioco il nostro Novecento, il più disgraziato dei secoli. La talpa occidentale non è mia, ma del dottor Macrì, mio trascrittore.
Ordunque, nella Grecia preellenica, "mediterranea", specificamente "anatolica", attigua all'Oriente, si compivano riti cruenti e orgiastici di carattere misterico, zeppa la mitologia, sotto la bella vernice "olimpica", di mostri, come l'Echidna e figli orrendi, Medusa, Minotauro, Circe, Erinni, Gorgoni, Sfinge, ecc. Ad es. il successore del re, fosse figlio o cugino o non figlio, ritualmente uccideva detto re, anzi nei primordi se lo mangiava.
Ritualmente significava nel contempo realmente e simbolicamente, confusi i due moventi significativi, dato che la simbolizzazione del sacrificio doveva essere reale in quanto simbolica, e viceversa. Un mistero concettuale finora indecifrato, almeno per mio conto. Magari, al posto del povero re si pose più tardi un coniglio o un maiale in rappresentanza, noi diciamo; ma effettivamente era considerato, quell'animale, anzi visto e assaporato, come il vero re. E qui il mistero si fa ancora più oscuro. Parimenti la Regina, possente animale donnesco e vitale in apparenza, uccideva i consorti suoi regali, via via che invecchiavano e non funzionavano; in effetti, ritrasmetteva il tipo regale di consorte in consorte; talora li affidava a donne "possedute" che li divoravano, giacché le budella erano luogo privilegiato di tali metamorfosi e costanti, dal cui plesso solare talora spirava il verbo oracolare.
Quando i nordici invasori (Elleni: Achei e Dori), gente razionale, virile, sobria, patriarcale, monogama, calarono in Grecia per conquistarla, ebbero a mescolarsi con tali popolazioni per nozze, tribunali ed are, ma serbando gli elementi costitutivi della regione, patriarcato, virilità, monogamia, ecc. E selezionarono, ricostituirono la parte "olimpica", come ho accennato, di quella mostruosa mitologia, detersa e vittoriosa sulla parte che essi consideravano sporca e delittuosa, che in tal guisa rimase, oggetto delle "fatiche" di Ercole, loro eroe privilegiato, nucleo solido e centrale del libro di Graves.
Essi nordici, pertanto, operarono giustamente, ancorché non spetti a me, piccolo Simeone, emanare un giudizio assoluto sulla grande sintesi accennata, da cui sorse la civiltà ellenica, detta greca scolasticamente. Certo, da un punto di vista femminista fu una catastrofe.
Ma riprendiamo il momento della prima conquista, quando essi rimasero inorriditi, assistendo sgomenti a tali pratiche e cerimonie magiche - religiose - orgiastiche - sanguinarie. Ed allora imposero in varia guisa una riduzione alla quota-parte meramente simbolica raffigurata in finzioni sostitutive più o meno analogiche e allegoriche. Insomma, dissero: "Fate quello che volete nei vostri spettacoli festivi, nuziali, giuridici, regali, ecc. purché non scorra nessun sangue né seme umano promiscuo o superfluo, né accadano mutilazioni né si consumi alcun pasto cannibalesco". E fu anche l'origine della retorica e della sofistica.
Tra quei guerrieri invasori non mancavano persone colte e sapute. Una di queste, della quale non ci sono stati trasmessi i connotati né il nome, rimase profondamente colpita da quei riti e speculò sui miti di quegli aborigeni; in particolare su quello di Edipo, il quale, come è noto, aveva ucciso il padre inconsapevolmente e aveva quindi sposato la madre più che inconsapevolmente. Fu questo dotto norvegese o finlandese un precursore di Freud, in quanto fraintese quel mito, opinando tra sé: "Questi selvaggi criminali contengono nei loro atti mitizzati la verità dell'uomo universale, sì che nel profondo noi siamo come loro, se grattiamo bene sotto le nostre maschere civili. Edipo, ad es., è ciascuno di noi umani, tutti, virtualmente, fin da bambini e poi rimbambiti, gelosi assassini del padre e cupidi della madre". Edipo, che vince la Sfinge, la quale si uccide, secondo Graves è forse il conquistatore di Tebe e soppressore dell'antico culto minoico matriarcale della dea-Luna alata: il nuovo re, che doveva ammazzare il vecchio re e ne sposava la vedova, fu interpretato erroneamente come parricidio e incesto. Plutarco, dice ancora il mitologo inglese, in Iside e Osiride narra che l'ippopotamo egizio "uccide il genitore e violenta subito dopo la madre", ma "non ne avrebbe mai dedotto che ogni uomo ha il complesso dell'ippopotamo".
Graves vuol dire che l'uomo, nel suo corso civile, simbolizza i dati materico-naturali; l'animale, in questo caso l'ippopotamo, no, con tutto il rispetto che è dovuto all'animale, mirabile creatura, che non ha bisogno di simbolizzare: se mangia, mangia e basta.
Vichianamente il mito era la stessa lingua della prima epoca dell'umanità: sublime in quanto povera, affetta da "inopia", epperò poetica, come quella di Omero e di Dante; gestuale e poi fonosimbolica. In detta cerimonia della successione, il figlio, che succedeva al padre ammazzandolo, compiva un gesto-parola materico, significante l'archetipo regale morto e risorto, un universale fantastico vichiano, non un complesso nevrotico, invecchiato. Il marito, ucciso o fatto uccidere dalla Regina, arrostito sul rogo e immortalato, significava la terra esausta. Nei primordi accadeva che il figlio uccidesse realmente il padre o la monarca il pàredro, ma d'una realtà contenente ed esprimente il simbolo, palese così a quelle barbare cotenne, le quali solo in tal drastica guisa riuscivano a capire, o meglio a vivere, l'archetipo regale interrotto e reso perenne. Il Vico spiega Dafne stanca inseguita da Apollo e che si trasforma in lauro, che è una pianta: essa si ferma come è fermo un albero. Infatti, a uno scocciatore, che ci diluvia di chiacchiere, gli gridiamo: "Piantala!". Deluso chi di tal mito contempli una bella scultura? Sarebbe un imbecille. Il fidanzato eccitato all'amata: "Come sei buona e bella! Ti mangerei viva!", e s'avventa. Pasolini, non ricordo in che film, presenta un tale che tenta di mangiarsi un avversario, che ama.
Tornando a Dafne, Robert Graves contesta un altro complesso inventato dai freudiani: di Dafne, blocco psichico, per il quale le vergini proverebbero istintivo orrore per l'atto sessuale. Consueta visione acrona e meccanico-biologica dell'umanità. E invece Dafne significa la sanguinaria, menade che frantumava bambini e animaletti o li avvelenava con cianuro di potassio estratto dal lauro, nel quale essa miticamente si trasforma. Tutti usi aboliti dagli Elleni (pp. 9-10).
I mancipia, schiavi, in origine erano prede di guerra, catturati con la forza: "manucapti", dice il Vico. Il vincitore si portava dietro il vinto fatto suo schiavo, così il creditore il suo debitore, a mezzo di una cordicella, legata ai rispettivi due polsi. In prosieguo di tempo, la cordicella si simbolizzò in un giuramento di fedeltà del vassallo al signore o in un atto notarile, data anche la scomodità di quella materiale trazione. Tempi ferocissimi di quei barbari bestioni, che faticosamente, da sé, s'incivilivano, imperando la sacralità religiosa e la fermezza dei patti giuridici: "consacravano i nemici agli dèi". Essi schiavi erano invece senza dei, ossia cose: "E i popoli arresi erano considerati uomini senza dei [ ... ] come cose inanimate, in lingua romana si dissero mancipia ed in romana giurisprudenza si tennero loco rerum "(La scienza nuova, Bari 1928, 1, p. 77).
Infine, atteniamoci al solo Vico, lasciando stare Robert Graves, pur utile per la sua interpretazione storica e razionale dei miti. Sul medesimo si guardi la nota del mio copista dottor Macrì; che ringrazio; a parte l'invenzione di quel finlandese.
La storia dell'umanità, costruita da Giambattista Vico nella sua opera siglata con il motto oraziano "Exegi monumentum aere perennius", nel suo complesso religioso, giuridico, linguistico e mitologico-poetico, resta lucida, cristallina e razionale, sul fondamento antistoico di progresso civile, dall'interno stesso, autonomo di essa umanità, in cui essa coltiva i semi divini del vero, del buono e del bello, con una sorta di immanente trascendenza. Immune da magia, stregoneria, negromanzia e varia pseudoscienza occulta d'astrazione psicologica, che fu la trappola in cui caddero etnologi, antropologi, folcloristi, psicanalisti, lasciando loro ogni merito nei limiti dei loro oggetti di ricerca, contestando soltanto le loro illazioni, oltre detti limiti, su tutta l'umanità.
La terza fase del dispiegamento della natura comune delle nazioni - degli universali fantastici che diventano concetti puri - ci svela che sono non meno razionali le due epoche anteriori, del gesto e della parola mitica. Infatti essa fase è detta dal Vico della "ragione tutta spiegata"! Graves purtroppo non nomina mai il Vico, ch'io sappia.
(Nota del trascrittore). Robert Graves (1895-1985) fu fecondissimo scrittore plurigenere, traduttore dai classici e dallo spagnolo di Alarcònz, pluriammogliato, fecondo altresì di prole, maiorchino d'adozione, grande poeta minore d'abbrivo "georgiano"; tradottissimo in italiano, notevole l'antologia poetica di Gualtieri presso l'immortale "Felice" guandiana; produsse i Greek Myths a relativamente tarda età, giacché pervenne a 90 anni, scrivendo ininterrottamente anche in viaggio e in guerra. S'interessò pure di miti ebraici...
L'ostilità, verso Freud, Jung, Frazer e compagni, fu tarda fase di rigetto, dato che al simbolismo antropologico e psicanalitico aveva ampiamente sacrificato in poesia e in narrativa; specialmente in ordine alla doppia Femmina crepuscolare (di tramonto e d'alba): della décadence e Dea Madre mediterranea. L'antologia citata, ben poco della sterminata produzione poetica, toglie il titolo dalla poesia Lamento di Pasifae; ivi anche si trovano Streghe, Leda, la dea Bianca, Madame, Sirena e draghi, demoni, ecc. Simeone si compiace di questo razionalismo senile di Graves verniciandolo vichianamente, ma egli stesso non è immune dall'analitica antropologica e archetipica, pur sempre nostalgico della ragione, da talpa occidentale, condizionato.
E' certo che con l'avvento dei Dori nel XIII a. C. la tradizione matrilincare (mito delle Amazzoni, ecc.) s'affievolì e la genealogia diventò patrilineare (vittoria di Teseo). Accadde che Robert Graves, a furia di vivere quei miti, scrostarli della bellurie olimpica, scoprirne la verità mostruosa e animalesca simbolizzata, si assimilò ad essi, specialmente al mito erculeo, e affini della immane fatica civilizzatrice. E poté farlo per diretta esperienza, specie durante la guerra, che considerò regressione alla barbarica criminalità. I due elementi dell'animalesco e dell'umano, mitizzati, sono il senso stesso della sua poesia. Così patriarcale ed ecologica era la sua vita a Maiorca come la descrive la Manicardi sua ospite: "imponente e trasandato che sovrintende in shorts e camiciola sbrindellata" ai festeggiamenti, nella "sua casa rustica", del suo compleanno, circondato da "ospiti, bambini, cani, gatti, pecore e un giardiniere", un Graves "terribile e accostabile, irascibile [ ... ] e indulgente [ ... ]", esecra le radioline e si porta l'acqua marina in cima alla roccia per estrarne qualche sale, ecc. Ci sembra quasi d'immaginare un ippopotamo feroce e buono...
Sulla fine del matriarcato mediterraneo e l'oscura reviviscenza, odierna, femminista di esso nel quadro generale della rivolta degli schiavi, discorro, specie in merito al genere grammaticale femminile, in uno studio, modestamente piacevole, intitolato Il ministro stanco andò a riposare con suo marito (cabaret psicolinguistico [ ... ] ), in "L'Albero", XXXIX, 73-74, 1985, pp. 59-811.
SIMEONE
(p.c.c. Oreste Macrì)


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