A)
Il paradosso dell'invarianza
Le prose di Simeone,
che raccogliamo sotto l'estensiva definizione di 'racconti' per il
loro carattere spesso fantastico o surreale, sembrano scritte ad impiego
delle horae subsecivae, ossia dei ritagli di tempo nei quali la penna
si riserva una libertà di scrittura tutta sua. In effetti l'autore
reale (Macrì) prende le distanze da sé, deputando allo
'strologante' locutore (Simeone) il compito e la responsabilità
di dissacrare, ironizzare, parodiare aspetti gravi del quotidiano
che investono la condizione universale e, perciò, attengono
a una sfera 'illustre' che spetta propriamente alla filosofia esplorare
e problematizzare.
Abbiamo più volte fatto cenno, nelle precedenti puntate, al
carattere lusorio, al di-vertissement che connota queste prose, sottolineando
quanto la veste stilistica, al limite dello sperimentale, sia coerente
con gli assunti strani, paradossali, inverosimili e, perciò,
fiabeschi che Simeone sciorina, giocando con l'oggetto della sua riflessione
e, ancor più, col lettore.
Da questa opzione dell'alterità, che gli permette di prendere
le distanze dal mondo che lo circonda e di osservarlo con distaccata,
eppure non asettica, prospettiva, procede un messaggio di saggezza
travestita di follia o, se si vuole, di lecita schizofrenia, alla
quale tutto si perdona con indulgente sorriso, dimenticando il tragico
che in essa riposa. Allora, a distanziarsi dal narratore-fool, è
l'accorto e savio lettore che, forte della sua saggezza, sorride di
tanto 'concionare', non diversamente da quei giudici ateniesi di fronte
al vecchio Sofocle. Saggezze-contro, dunque, o snobismo reciproco:
da un lato l'imprevedibile, bizzarro, libero Simeone, che, celiando,
somministra un potage di menzogne e verità, dall'altro il destinatario
del suo messaggio, abituato a mettere sul serio vita, morte, storia,
non escluse, di quest'ultima, le "magnifiche sorti e progressive".
Un duello a distanza fra l'impenitente, strumentale 'cinismo' (quasi
una mèthode) del locutore e il suo lettore supposto (Wolff),
presunto come troppo saggio o come troppo ingenuo (che fa lo stesso),
senza il quale tanto affabulare sub specie litterarum rimarrebbe lettera
morta. In questo scarto, si situa la strategia creativa dell'autore
reale, con la sua consapevolezza critica circa i modi attraverso i
quali si propone di costruire il suo linguaggio, sicché la
"personalità dell'artista" non può essere
scissa dalla "personalità dell'autore". Presupposto
un siffatto lettore, ossia quello cui pensa l'autore reale nell'atto
della scrittura, la narrativa di Macrì istituisce con esso
un rapporto privilegiato. Al critico spetta solo un ruolo a latere:
comporre, sulla scorta dei modelli inerenti alla propria cultura ed
alle proprie tendenze, i disiecta membra di un discorso unitario e
funzionale, al cui interno sia possibile cogliere un'anima che unifichi
le schegge, apparentemente impazzite, di un 'logos' il quale non è
altro se non la visione del mondo specifica dell'autore. E a chiamarla
in causa, sotto la specie di riflessione filosofica parodica, è,
nel racconto che presentiamo (Il complesso dell'ippopotamo e la talpa
occidentale), un ritorno a Vico, vale a dire alle origini, mai rinnegate,
della formazione di Macrì: punto di partenza l'ermeneusi dei
miti greci proposta da Robert Graves.
Dello studioso inglese, a beneficio di quelle componenti extratestuali,
inerenti alla genesi del testo in esame ed annunciate in esordio dal
connotatore temporale ("quanto al complesso dell'ippopotamo lo
appresi anni fa (1) da Robert Graves"), diremo brevemente che,
all'iniziale attività di poeta, culminata nei Collected Poems
(1927), Graves affiancò quella di memorialista (Goodbye to
all thrat, 1929) impegnato a narrare la sua esperienza della prima
guerra mondiale. Essa lasciò un segno profondo sul suo carattere
e, fors'anche, sulle sue scelte culturali. Ma Graves è qui
convocato in quanto interprete della mitologia greca e dei suoi simboli
(The greek myths, 1955), come è dato rilevare dalla citazione
bibliografica che rende reale e concreto il rapporto con un indice
extratestuale ("nel suo libro I miti greci" etc.).
Vero è che Graves, attratto dalla psicologia del profondo,
inizialmente seguì le orme di Freud, Abraham (Traum und Mythus,
1909), Ioung, per poi approdare, sulla scia di Frazer e Malinowski,
alla social antropology ed al funzionalismo che, attraverso lo studio
dei riti, indaga non la nascita, ma la funzione dell'antico mito.
In virtù di questa teoria, i miti, intesi "come fondazioni
vincolanti (charter myyths) di realtà sociali [ ... ], stabilivano
l'appartenenza al gruppo, tanto quanto le regole del matrimonio, la
spartizione delle terre ed il compimento dei rituali" (2). Graves,
in realtà, desemantizza il mito, leggendolo in chiave etnologica
e neopositivistica. Con lui, Frazer, cui si fa cenno nel testo, il
mitologo che assegnò al mito la funzione di spiegare i riti
religiosi incompresi, connessi alla propiziazione magica della fertilità
(Prolegomena to the Study of Greek Religion, 1903).
Macrì, appropriandosi dell'humour di Simeone, ridisegna, invece,
in chiave vichiana il carattere poetico del mito greco arcaico in
quanto "muto additare le sostanze divine" (3), sicché,
non appena il silenzio diventa linguaggio, nasce la poesia: il mito
era la stessa lingua della prima epoca dell'umanità; sublime
in quanto povera, affetta da inopia, epperò poetica come quella
di Omero e di Dante, gestuale e poi fonosimbolica.
Attraverso una divertita lettura di Graves (si osservi l'immaginario
"norvegese o finlandese" che allegorizza i modelli culturali
nord-europei, in antitesi a quelli 'mediterranei'), Macrì torna
a chiarire il punto centrale di tutta la sua metodica: la poetica
della parola,
Gli uomini ferini
del Vico "avvertitono" solamente il cielo tuonante [ ...
] e il loro conato fantastico si risolse e si concretò nella
parola-mito (4)
ma, questa volta,
in chiave giocosa ("il fidanzato eccitato dall'amata" etc.)
Nella Nota del trascrittore, Macrì, fingendosi il trascrittore
di Simeone, razionalizza l'assunto del suo "doppio" (Simeone
non è uno pseudonimo, ma l'alter ego dell'autore) riprendendo
l'enunciato iniziale ("la talpa occidentale non è mia,
ma del dott. Macrì, mio trascrittore").
Ciò gli consente di entrare ed uscire dal personaggio Simeone
(si noti l'inserto metanarrativo: "Simeone si compiace di questo
razionalismo senile di Graves, verniciandolo vichianamente, ma egli
stesso non è immune dall'analisi antropologica e archetipica
[ ... ] da talpa occidentale") in un continuo gioco di specchi,
attraverso il quale è la sua stessa identità ad essere
relativizzata e messa in crisi.
(III - continua)
NOTE
1) Il corsivo è mio.
2) Cfr. F. GRAF, Il mito in Grecia, Bari, Laterza, 1988 (2), p. 34.
3) Ibidem, p. 14.
4) O. MACRI', La poetica della parola e Salvatore Quasimodo (1938)
ora in ID., La poesia di Quasimodo, Palermo, Sellerio, 1986, p. 238.
B) Racconti inediti di Oreste Macrì/Simeone
Il complesso
dell'ippopotamo e la talpa occidentale
Quanto al complesso dell'ippopotamo, lo appresi anni fa da Robert
Graves nel suo libro I miti greci, tradotto da Elisa Morpurgo presso
Longanesi, Milano 1979, p. 342. Da allora me lo sono fantasticato
da vecchio vichiano per trovare qualche relazione, d'accordo o contrasto,
tra filosofia della storia e psichiatria in senso lato, sul quesito
delle origini civili-mentali o criminali-istintuali dell'umanità,
in gioco il nostro Novecento, il più disgraziato dei secoli.
La talpa occidentale non è mia, ma del dottor Macrì,
mio trascrittore.
Ordunque, nella Grecia preellenica, "mediterranea", specificamente
"anatolica", attigua all'Oriente, si compivano riti cruenti
e orgiastici di carattere misterico, zeppa la mitologia, sotto la
bella vernice "olimpica", di mostri, come l'Echidna e figli
orrendi, Medusa, Minotauro, Circe, Erinni, Gorgoni, Sfinge, ecc. Ad
es. il successore del re, fosse figlio o cugino o non figlio, ritualmente
uccideva detto re, anzi nei primordi se lo mangiava.
Ritualmente significava nel contempo realmente e simbolicamente, confusi
i due moventi significativi, dato che la simbolizzazione del sacrificio
doveva essere reale in quanto simbolica, e viceversa. Un mistero concettuale
finora indecifrato, almeno per mio conto. Magari, al posto del povero
re si pose più tardi un coniglio o un maiale in rappresentanza,
noi diciamo; ma effettivamente era considerato, quell'animale, anzi
visto e assaporato, come il vero re. E qui il mistero si fa ancora
più oscuro. Parimenti la Regina, possente animale donnesco
e vitale in apparenza, uccideva i consorti suoi regali, via via che
invecchiavano e non funzionavano; in effetti, ritrasmetteva il tipo
regale di consorte in consorte; talora li affidava a donne "possedute"
che li divoravano, giacché le budella erano luogo privilegiato
di tali metamorfosi e costanti, dal cui plesso solare talora spirava
il verbo oracolare.
Quando i nordici invasori (Elleni: Achei e Dori), gente razionale,
virile, sobria, patriarcale, monogama, calarono in Grecia per conquistarla,
ebbero a mescolarsi con tali popolazioni per nozze, tribunali ed are,
ma serbando gli elementi costitutivi della regione, patriarcato, virilità,
monogamia, ecc. E selezionarono, ricostituirono la parte "olimpica",
come ho accennato, di quella mostruosa mitologia, detersa e vittoriosa
sulla parte che essi consideravano sporca e delittuosa, che in tal
guisa rimase, oggetto delle "fatiche" di Ercole, loro eroe
privilegiato, nucleo solido e centrale del libro di Graves.
Essi nordici, pertanto, operarono giustamente, ancorché non
spetti a me, piccolo Simeone, emanare un giudizio assoluto sulla grande
sintesi accennata, da cui sorse la civiltà ellenica, detta
greca scolasticamente. Certo, da un punto di vista femminista fu una
catastrofe.
Ma riprendiamo il momento della prima conquista, quando essi rimasero
inorriditi, assistendo sgomenti a tali pratiche e cerimonie magiche
- religiose - orgiastiche - sanguinarie. Ed allora imposero in varia
guisa una riduzione alla quota-parte meramente simbolica raffigurata
in finzioni sostitutive più o meno analogiche e allegoriche.
Insomma, dissero: "Fate quello che volete nei vostri spettacoli
festivi, nuziali, giuridici, regali, ecc. purché non scorra
nessun sangue né seme umano promiscuo o superfluo, né
accadano mutilazioni né si consumi alcun pasto cannibalesco".
E fu anche l'origine della retorica e della sofistica.
Tra quei guerrieri invasori non mancavano persone colte e sapute.
Una di queste, della quale non ci sono stati trasmessi i connotati
né il nome, rimase profondamente colpita da quei riti e speculò
sui miti di quegli aborigeni; in particolare su quello di Edipo, il
quale, come è noto, aveva ucciso il padre inconsapevolmente
e aveva quindi sposato la madre più che inconsapevolmente.
Fu questo dotto norvegese o finlandese un precursore di Freud, in
quanto fraintese quel mito, opinando tra sé: "Questi selvaggi
criminali contengono nei loro atti mitizzati la verità dell'uomo
universale, sì che nel profondo noi siamo come loro, se grattiamo
bene sotto le nostre maschere civili. Edipo, ad es., è ciascuno
di noi umani, tutti, virtualmente, fin da bambini e poi rimbambiti,
gelosi assassini del padre e cupidi della madre". Edipo, che
vince la Sfinge, la quale si uccide, secondo Graves è forse
il conquistatore di Tebe e soppressore dell'antico culto minoico matriarcale
della dea-Luna alata: il nuovo re, che doveva ammazzare il vecchio
re e ne sposava la vedova, fu interpretato erroneamente come parricidio
e incesto. Plutarco, dice ancora il mitologo inglese, in Iside e Osiride
narra che l'ippopotamo egizio "uccide il genitore e violenta
subito dopo la madre", ma "non ne avrebbe mai dedotto che
ogni uomo ha il complesso dell'ippopotamo".
Graves vuol dire che l'uomo, nel suo corso civile, simbolizza i dati
materico-naturali; l'animale, in questo caso l'ippopotamo, no, con
tutto il rispetto che è dovuto all'animale, mirabile creatura,
che non ha bisogno di simbolizzare: se mangia, mangia e basta.
Vichianamente il mito era la stessa lingua della prima epoca dell'umanità:
sublime in quanto povera, affetta da "inopia", epperò
poetica, come quella di Omero e di Dante; gestuale e poi fonosimbolica.
In detta cerimonia della successione, il figlio, che succedeva al
padre ammazzandolo, compiva un gesto-parola materico, significante
l'archetipo regale morto e risorto, un universale fantastico vichiano,
non un complesso nevrotico, invecchiato. Il marito, ucciso o fatto
uccidere dalla Regina, arrostito sul rogo e immortalato, significava
la terra esausta. Nei primordi accadeva che il figlio uccidesse realmente
il padre o la monarca il pàredro, ma d'una realtà contenente
ed esprimente il simbolo, palese così a quelle barbare cotenne,
le quali solo in tal drastica guisa riuscivano a capire, o meglio
a vivere, l'archetipo regale interrotto e reso perenne. Il Vico spiega
Dafne stanca inseguita da Apollo e che si trasforma in lauro, che
è una pianta: essa si ferma come è fermo un albero.
Infatti, a uno scocciatore, che ci diluvia di chiacchiere, gli gridiamo:
"Piantala!". Deluso chi di tal mito contempli una bella
scultura? Sarebbe un imbecille. Il fidanzato eccitato all'amata: "Come
sei buona e bella! Ti mangerei viva!", e s'avventa. Pasolini,
non ricordo in che film, presenta un tale che tenta di mangiarsi un
avversario, che ama.
Tornando a Dafne, Robert Graves contesta un altro complesso inventato
dai freudiani: di Dafne, blocco psichico, per il quale le vergini
proverebbero istintivo orrore per l'atto sessuale. Consueta visione
acrona e meccanico-biologica dell'umanità. E invece Dafne significa
la sanguinaria, menade che frantumava bambini e animaletti o li avvelenava
con cianuro di potassio estratto dal lauro, nel quale essa miticamente
si trasforma. Tutti usi aboliti dagli Elleni (pp. 9-10).
I mancipia, schiavi, in origine erano prede di guerra, catturati con
la forza: "manucapti", dice il Vico. Il vincitore si portava
dietro il vinto fatto suo schiavo, così il creditore il suo
debitore, a mezzo di una cordicella, legata ai rispettivi due polsi.
In prosieguo di tempo, la cordicella si simbolizzò in un giuramento
di fedeltà del vassallo al signore o in un atto notarile, data
anche la scomodità di quella materiale trazione. Tempi ferocissimi
di quei barbari bestioni, che faticosamente, da sé, s'incivilivano,
imperando la sacralità religiosa e la fermezza dei patti giuridici:
"consacravano i nemici agli dèi". Essi schiavi erano
invece senza dei, ossia cose: "E i popoli arresi erano considerati
uomini senza dei [ ... ] come cose inanimate, in lingua romana si
dissero mancipia ed in romana giurisprudenza si tennero loco rerum
"(La scienza nuova, Bari 1928, 1, p. 77).
Infine, atteniamoci al solo Vico, lasciando stare Robert Graves, pur
utile per la sua interpretazione storica e razionale dei miti. Sul
medesimo si guardi la nota del mio copista dottor Macrì; che
ringrazio; a parte l'invenzione di quel finlandese.
La storia dell'umanità, costruita da Giambattista Vico nella
sua opera siglata con il motto oraziano "Exegi monumentum aere
perennius", nel suo complesso religioso, giuridico, linguistico
e mitologico-poetico, resta lucida, cristallina e razionale, sul fondamento
antistoico di progresso civile, dall'interno stesso, autonomo di essa
umanità, in cui essa coltiva i semi divini del vero, del buono
e del bello, con una sorta di immanente trascendenza. Immune da magia,
stregoneria, negromanzia e varia pseudoscienza occulta d'astrazione
psicologica, che fu la trappola in cui caddero etnologi, antropologi,
folcloristi, psicanalisti, lasciando loro ogni merito nei limiti dei
loro oggetti di ricerca, contestando soltanto le loro illazioni, oltre
detti limiti, su tutta l'umanità.
La terza fase del dispiegamento della natura comune delle nazioni
- degli universali fantastici che diventano concetti puri - ci svela
che sono non meno razionali le due epoche anteriori, del gesto e della
parola mitica. Infatti essa fase è detta dal Vico della "ragione
tutta spiegata"! Graves purtroppo non nomina mai il Vico, ch'io
sappia.
(Nota del trascrittore). Robert Graves (1895-1985) fu fecondissimo
scrittore plurigenere, traduttore dai classici e dallo spagnolo di
Alarcònz, pluriammogliato, fecondo altresì di prole,
maiorchino d'adozione, grande poeta minore d'abbrivo "georgiano";
tradottissimo in italiano, notevole l'antologia poetica di Gualtieri
presso l'immortale "Felice" guandiana; produsse i Greek
Myths a relativamente tarda età, giacché pervenne a
90 anni, scrivendo ininterrottamente anche in viaggio e in guerra.
S'interessò pure di miti ebraici...
L'ostilità, verso Freud, Jung, Frazer e compagni, fu tarda
fase di rigetto, dato che al simbolismo antropologico e psicanalitico
aveva ampiamente sacrificato in poesia e in narrativa; specialmente
in ordine alla doppia Femmina crepuscolare (di tramonto e d'alba):
della décadence e Dea Madre mediterranea. L'antologia citata,
ben poco della sterminata produzione poetica, toglie il titolo dalla
poesia Lamento di Pasifae; ivi anche si trovano Streghe, Leda, la
dea Bianca, Madame, Sirena e draghi, demoni, ecc. Simeone si compiace
di questo razionalismo senile di Graves verniciandolo vichianamente,
ma egli stesso non è immune dall'analitica antropologica e
archetipica, pur sempre nostalgico della ragione, da talpa occidentale,
condizionato.
E' certo che con l'avvento dei Dori nel XIII a. C. la tradizione matrilincare
(mito delle Amazzoni, ecc.) s'affievolì e la genealogia diventò
patrilineare (vittoria di Teseo). Accadde che Robert Graves, a furia
di vivere quei miti, scrostarli della bellurie olimpica, scoprirne
la verità mostruosa e animalesca simbolizzata, si assimilò
ad essi, specialmente al mito erculeo, e affini della immane fatica
civilizzatrice. E poté farlo per diretta esperienza, specie
durante la guerra, che considerò regressione alla barbarica
criminalità. I due elementi dell'animalesco e dell'umano, mitizzati,
sono il senso stesso della sua poesia. Così patriarcale ed
ecologica era la sua vita a Maiorca come la descrive la Manicardi
sua ospite: "imponente e trasandato che sovrintende in shorts
e camiciola sbrindellata" ai festeggiamenti, nella "sua
casa rustica", del suo compleanno, circondato da "ospiti,
bambini, cani, gatti, pecore e un giardiniere", un Graves "terribile
e accostabile, irascibile [ ... ] e indulgente [ ... ]", esecra
le radioline e si porta l'acqua marina in cima alla roccia per estrarne
qualche sale, ecc. Ci sembra quasi d'immaginare un ippopotamo feroce
e buono...
Sulla fine del matriarcato mediterraneo e l'oscura reviviscenza, odierna,
femminista di esso nel quadro generale della rivolta degli schiavi,
discorro, specie in merito al genere grammaticale femminile, in uno
studio, modestamente piacevole, intitolato Il ministro stanco andò
a riposare con suo marito (cabaret psicolinguistico [ ... ] ), in
"L'Albero", XXXIX, 73-74, 1985, pp. 59-811.
SIMEONE
(p.c.c. Oreste Macrì)