Che
cosa era a quei tempi la Confindustria, che, dopo la parentesi della
liberazione di Roma e poi dell'Italia tutta intera, si rifondava e riprendeva
il suo nuovo cammino?
Occupata nel giugno del '44 la sua sede di Piazza Venezia da parte delle
autorità statunitensi, e per esse dal colonnello Poletti la nuova
Confindustria si trasferiva nel non lontano Palazzo Grazioli, in via
del Plebiscito, durante il Ventennio sede del Dopolavoro della burocrazia
industriale. In questa nuova sede prima un esponente degli industriali
romani e poi gli industriali del Nord, che avevano espresso come esponente
Angelo Costa, un industriale genovese dai tanti interessi imprenditoriali,
dettero inizio al nuovo corso della Confindustria.
Era anche per questa il vento del Nord che si era fatto e si faceva
sentire, in un clima tanto più rinnovatore quanto più
doveva reinventare tutto: nella concezione stessa dell'impresa, nelle
relazioni industriali, nello stesso modo di essere dell'habitat civile
e politico, nella pratica del mercato.
In questo clima nascente Angelo Costa ha certamente un posto preminente.
Lo ha per l'esperienza, per la sua cultura, per la stessa concezione
di vita ricca di valori e di studio, per l'ampiezza delle visuali imprenditoriali,
per la costante ricerca ed operatività dei mezzi necessari all'incontro
ed alla collaborazione fra capitale e lavoro.
Nell'habitat di cui ho parlato c'erano figure come De Gasperi o Einaudi,
in quest'orbita particolare oltre a Costa, anche Di Vittorio, con una
CGIL che a quei tempi era unitaria, pur avendo una più o meno
autonoma corrente socialista ed una componente democristiana. Il 1946
fu l'anno dell'approccio fra imprese e sindacati. Essi si confrontavano
fra l'altro sulle possibili nuove basi contrattuali, scardinate dagli
appiattimenti, dirette alla ricerca di nuovi sbocchi, fra i quali allora
dominante il problema dei consigli di gestione e della determinazione
di quella scala mobile, la cui storia è cominciata proprio allora
in un'inventiva e progettualità che proprio in Costa trovarono
iniziativa e spinta.
Quel mese di agosto fu quanto mai ricco di fermenti, così che
le conferenze stampa di Costa, allora tutt'altro che ricorrenti, divennero
addirittura settimanali ed a me occorse di doverle organizzare, con
un'attivazione molto maggiore di quella oggi occorrente. Fra i colleghi
di allora c'erano per L'Unità il nipote del Pavolini dell'ultima
raffica, per la Rai Lello Bersani, allora lontano dal richiamo cinematografico,
Alberto Luna per il Popolo, Vittorio Gorresio per La Stampa, e così
via.
Io, cui era stata affidata la direzione de L'Organizzazione Industriale,
settimanale degli industriali italiani durante il Ventennio e gestito
da un'editoriale della Confindustria, ma acquisito con una propria società
privata da chi prima era stato amministratore di quella gestione, mi
trovai a sostituire chi Costa aveva portato con sé da Genova
come capo ufficio stampa, e cioè un collega indimenticabile:
Giacomo Guiglia. Questi, già direttore del quotidiano di Genova,
collaboratore economico de Il Popolo d'Italia, volontario in Africa
Orientale, capo dei servizi informazioni delle nostre forze armate in
Libia, prendendo spunto da una ricorrenza familiare celebrava fuori
Roma le proprie nozze. E così mi passò questa patata bollente,
di cui sto parlando; e ne sto parlando perché sono vicende che
mi appartengono e delle quali gli archivi confindustriali sono tutt'altro
che ricchi. Microfilm e computers ne sanno poco di queste cose.
Mentre gli industriali del Nord cominciavano ad allargare la propria
presenza nella capitale, da Valletta a Falk, da Borletti a Borasio,
da De Micheli di Milano al De Micheli di Firenze, da Barbieri e Pelloni
di Bologna a Valeri Manera di Venezia, mentre si allargavano anche le
presenze del Sud, fra l'altro con il liberale calabrese già ministro
del governo Badoglio, Quinto Quintieri, con Chiavegatti di Chieti, con
Resta di Taranto, e così via, la Confindustria riconquistava
la sua anima.
Nel passato aveva avuto emblemi, tuttora insuperati: Ginori Conti, Alberto
Pirelli, Giovanni Agnelli, Donegani, Marinotti e così via; ora
c'era da fare con la terza generazione dell'imprenditoria, che ha pure
la sua storia minore. La preferenza per il Grand Hotel di Roma, il ricorso
alle manicure, il bisogno di un rifugio nella Confindustria soprattutto
da parte degli industriali minori (e ne ricordo pure qualcuno esule,
come Luxardo, privato della sua distilleria di Zara), le crisi direttive
che si annunciavano sempre minacciose, che si concludevano però
con un pranzo dal quale risultava che era confermato quello che già
c'era.
Ma in questa storia c'è anche una burocrazia che soprattutto
per questi anni ha da dire la sua.
E' la burocrazia che ha avuto a che fare con Olivetti, con Balella,
con Morelli, come espressione dei propri vertici, e con industriali
come Pirelli, Volpi di Misurata, quali Presidenti, e con tanti altri
di una grande imprenditoria che aveva come punti di riferimento l'auto,
la chimica, il settore tessile, la meccanica, la siderurgia, le costruzioni.
Forse la maggiore continuità della tradizione e dell'identità
di questa Confindustria è stata assicurata proprio da questa
burocrazia. E ciò non solo a livello nazionale, ma anche nell'ambito
delle stesse province. Perché, bisogna ricordarlo, fra i primi
promotori delle nuove organizzazioni imprenditoriali si sono sempre
trovati i loro semplici segretari, talora segretari generali.
E qui mi piace ricordare il vice segretario generale fino alla sua andata
in pensione, però ad 80 anni vissuti con un'intelligenza e con
spontanee autolimitazioni per lo meno esemplari. Ho avuto il privilegio
di conoscerlo e di ammirarlo nel 1937 - quando gli davo fastidio sulla
stampa perché pensavo che le Compagnie industriali per l'Africa
orientale dovessero essere sottoposte alla legislazione sui consorzi
industriali -e poi ho diviso l'intera successiva vita di lavoro con
lui. Era un sardo, di modeste origini, di una capacità selettiva
eccezionale, distinto fino all'insolito uso del monocolo, capace di
alternare il ricorso alle mense dell'Onarmo con quello ai ristoranti
più prestigiosi, per la semplice ragione che dei soldi non gliene
importava nulla. Talvolta quando riceveva contributi associativi per
decine di milioni di allora li poneva in una cartella della propria
scrivania, facendo dopo fatica a ritrovarli. Lo stipendio lo metteva
nella tasca dei pantaloni e non sapeva mai in quanto consistesse, perché
doveva solo bastargli. Siamo nel 1993 e sto parlando degli anni '70.
Io non dico niente, perché ho un esempio che rivive in me, ma
cosa pensa chi eventualmente mi legge? Quanto mi piacerebbe saperlo!
Ma c'è un altro tratto di questa persona che mi piace ricordare.
Ad un certo momento ho dovuto anch'io risolvere il mio rapporto di lavoro
con la Confindustria. C'erano di mezzo nientemeno che quasi 40 anni
di anzianità. Ebbene, egli al quale chiesi consiglio, mi predispose
- data la mia complessità dei rapporti con la Confindustria -
ben cinque soluzioni contabili possibili. Tutte alternativamente favorevoli
all'una o all'altra parte. Fu come al solito assolutamente imparziale.
Ma a me ha insegnato molto di più di quanto alla fine ho incassato.
Lui, che mi aveva detto all'indomani della liberazione "tu non
ti fai vedere?" (ed essermi fatto vedere può significare
per me o un meglio o un peggio rispetto a quanto diversamente sarei
riuscito a fare o non fare), ha visto come mai tutti gli altri nella
Confindustria l'unica famiglia possibile per il suo lavoro. Ha convissuto
da celibe con la madre fino alla morte di questa. Ma dietro il suo tavolo
stava più della metà della giornata, pronto a parlare,
interrompendo ogni discorso o pratica, se vedeva un volto che gli ricordava
il passato. Mi ha fatto pure, nell'intera sua vita di relazione con
me, un complimento: ma tu hai fatto scherma, perché subito replichi?
Quando nel lontano 1949 morii mio padre e la mia casa paterna fu smobilitata,
gli regalai una tavola del 1500 con un Cristo. Lui mi disse che era
l'unica opera di valore che avesse e potesse tramandare. Ora è
nella testata del letto della nipote, e speriamo che ne sia degna.
Ma c'è anche un altro capostipite della burocrazia del finire
degli anni Quaranta e degli anni Sessanta: Mario Morelli. Faceva parte
della Confindustria fascista, ai tempi di Balella agli uffici economici,
ma evidentemente non gli piaceva il capo di questi, pur ritenuto bravo,
come pure non gli piacevano i due capi degli uffici del personale, che
del resto non recepì nei nuovi organici.
A lui si devono molte cose, ed io ho la fortuna di averlo conosciuto
negli anni in Cui contava e nella sopravvenuta amicizia, senza rapporti
di lavoro di mezzo, fino a 15 giorni prima della sua morte.
Sono l'unico dei superstiti della Confindustria che sia stato l'ultimo
a vederlo e praticarlo. E me ne vanto perché, oltre tutto, ho
dimostrato rispetto a me stesso. L'unico timore che ho avuto è
quello di apparire uno dei cosiddetti Fedeli di Vitorchiano: quelli
cioè che in costume scortano il sindaco di Roma. Io però
non ho scortato mai nessuno, anche se non sono mai mancato quando dovevo
esserci. E Morelli è fra quelli che ha difeso la casa della Confindustria,
fino ad andarsene quando ha capito che alle cose si voleva imprimere
un altro corso. C'è il famoso rapporto Pirelli, c'è l'intento
di surrogare Costa nuovo sopravvenuto Presidente, ma non con la stessa
grinta del Costa precedente, ci sono le impazienze dei cosiddetti giovani
industriali con Altissimo loro presidente, del quale molto di più
si saprà dopo. Ma io di questi giovani industriali ebbi a dire,
e lo penso tuttora, che il loro vero problema, e pure per le attese
degli altri, è quello di crescere.
Lo ha detto certo con maggiore validità Benedetto Croce per i
giovani. Ma io lo ho sempre ripetuto, con facile civetteria, sia per
i giovani industriali, che per la piccola industria, i primi con le
pretese generazionali giustificate e non, la seconda con la motivazione
dimensionale, che poi è proprio quella che ci porta ad accrescerla.
E c'è un terzo addendo di questa burocrazia di vertice, che ha
fatto la Confindustria della mia generazione, ed anche di quanti credono
di essere esponenti, spesso inconsapevoli, di quella che le è
sopravvenuta. Parlo di Franco Mattei. Proveniva dalla Montedison e probabilmente
da questa segnalato a Costa per la condotta degli affari economici,
prima vice segretario generale con Morelli, poi direttore generale con
Lombardi e con Agnelli presidenti, dimissionario perché non era
stato avvertito dallo stesso Agnelli della designazione da parte sua
di Carli a successore della presidenza confederale. Poi Mattei è
stato nominato presidente della Gemina, e ciò significa cosa
egli sia stato ed io mi vanto di essere fra quanti l'avevano capito.
Allorché venne in Confindustria, non mi risultò simpatico.
Mi dava l'impressione di ritenersi distaccato e superiore. Gli fui presentato
almeno tre volte e lui mi dava l'impressione che mi vedesse sempre per
la prima volta. Poi molti anni dopo ci siamo capiti. Lui ha capito me
e mi ha scritto che gli piacevo per quanto facevo ed è stato
- come mi è stato detto dopo - fra i miei elettori, quando si
trattava di prescegliere qualcuno per incarichi importanti; ed io avevo
capito lui quando gli dicevo che era sprecato - sì, sprecato
- per la Confindustria, perché poteva e doveva essere più
innanzi.
Con questi personaggi la Confindustria, come sede, come spirito, come
casa, era più particolare, forse più stilizzata della
Farnesina o di Palazzo Chigi. Aveva un arredamento da fare invidia a
quello britannico dello scorso secolo, aveva uscieri che ti ricordavano
gli scomparsi maggiordomi, il cui stile era non di rado migliore di
quello di alcuni funzionari - ed io ero tino di quelli cui piaceva rilevarlo,
più o meno ironicamente. Siamo negli anni di una nuova Piazza
Venezia, senza il Palazzo Venezia di Mussolini, ma di un'Italia che
era da poco uscita dalla monarchia e dalla Costituente e stava per entrare
nel '48.
Ma quale era il bagaglio ideologico di questa imprenditoria post fascista?
Avendo conosciuto anche quella del Ventennio, distinguerci due caratteristiche
essenziali. L'una prevalentemente formale ed esteriore e l'altra sostanziale:
contingente la prima, e immutevole la seconda, in quanto espressione
di una permanente cultura e filosofia del mercato e dell'impresa.
Nel Ventennio con il corporativismo si è avuto in stabilità
e validità di principii più quanto si annunciava che non
quanto effettivamente si realizzasse. C'era la cosiddetta rivoluzione
continua, che più che altro era una minaccia. C'erano i cosiddetti
angolini da ripulire, e questi nell'occasione potevano essere anche
grandi e talvolta lo divenivano. C'era un bellicismo che alternava momenti
di sopore con altri di enfasi pure esagitata. C'era in campo economico
la priorità per l'agricoltura cui si affiancavano decisionismi
politici ora di sospetto, ora di sostegno per gli altri settori, e cioè
industria e commercio. C'era una socialità da far valere, ma
per questa non sono state mai precise le definizioni di regime. C'erano
gli impegni monetari, che però si irrigidivano in certi momenti
ed in altri si affievolivano.
Ed a questi fini c'erano i comportamenti correttivi o per lo meno non
di rado espliciti, anche se inoffensivi, degli imprenditori.
Ma di questi imprenditori c'era pure in quel periodo una precisa ed
inconfondibile allocazione, che puntava sulla difesa dell'impresa e
sulla conformità per lo sviluppo dell'habitat relativo.
E' da qui che è partita la nuova Confindustria, in una continuità
ideale con le sue origini e pure con quanto era riuscita a difendere
e a far sopravvivere sia nel Ventennio che durante e dopo la seconda
guerra mondiale. Di questa fase la salvaguardia degli impianti industriali
non colpiti dai bombardamenti ne sa qualcosa, nel fecondo reciproco
sforzo di imprenditori e di lavoratori.
Lo sbocco di tutto ciò è stata la ricostruzione, che ha
significato e comportava uno Stato nuovo, dello sviluppo e dell'efficienza,
di riconoscimento del diritto della proprietà non disgiunto da
condizioni di equità sociale da rispettare, dall'ampliamento
della base di partecipazione democratica, da una reale efficienza dei
pubblici servizi e dei compiti della magistratura, della burocrazia
e così via.
Sono questi gli obiettivi che la comunità nazionale di oggi chiede
siano perseguiti nell'attuale momento di cambiamento, di transizione,
come si dice, da una prima Repubblica alla seconda. (E naturalmente
per queste classificazioni valgono anche per me quelle riserve professate
da tanti fra cui Spadolini, per il quale la Repubblica è una,
pur nell'alternarsi dei tempi). D'altra parte, in quale libro di diritto
costituzionale esiste il termine "traghettatore"?
C'è invece la parola "rivoluzione", se veramente c'è
stata.
E perciò che chiedevano le imprese? Quanto sostanzialmente domandano
oggi, rianimando quanto imprenditori e noi stessi giornalisti economici
di allora sollecitavamo. E cioè la liberazione delle imprese
dai mille vincoli che ne intralciavano l'attività, la libera
disponibilità di quanto legittimamente possiedono, la liberazione
dalla sopportazione di spese improduttive, l'incentivazione della formazione
e degli impieghi di capitali per gli investimenti interessanti soprattutto
le trasformazioni tecniche, lo smobilizzo delle bardature, la razionalizzazione
e sostenibilità fiscale, e così via. Si può dire
che la difesa di tutto ciò sia stata la premessa della posizione
assunta dall'imprenditoria in genere nel 1948.
Essa per iniziativa di Angelo Costa, sul finire del 1946, dava anche
l'avvio alla pubblicazione di un settimanale dal titolo Gazzetta per
i Lavoratori, che aveva lo scopo di illustrare appunto ai lavoratori
non solo le posizioni industriali sui problemi e sulle prospettive di
reciproco interesse, ma anche di fornire loro strumenti conoscitivi
di varia natura, fra cui quelli inerenti la loro formazione professionale.
La direzione di questo settimanale fu affidata a me, che l'ho mantenuta
per vari anni, insieme a quella del settimanale della Confindustria,
in ciò stando a significare che nessuna mimetizzazione di origini
e di fini si intendeva fare.
Angelo Costa, sin dai primi tempi, suggerì di scrivere al Segretario
Generale della CGIL, Giuseppe di Vittorio, per proporgli uno scambio
di spazio fra questo settimanale e quello dei lavoratori, in modo da
consentire la conoscenza alternata dei rispettivi punti di vista. Io
non credetti a questa possibilità di scambio nell'atmosfera di
allora e perciò non inviai la lettera. Questa fu invece inviata
a firma del segretario generale della Confindustria, ma rimase senza
risposta, con la conferma della netta contrapposizione di allora fra
due concezioni.
Contrapposizione che ha avvito poi la verifica delle elezioni del 1948,
con un attivismo della Confindustria come di tutte le altre organizzazioni
di datori di lavoro, della prevalente maggioranza degli italiani, e
con una conforme posizione di questa Gazzetta, mobilitata pur essa nella
difesa di questi valori.
Ma all'indomani del voto, dopo questa parentesi determinante per la
caratterizzazione occidentale del nostro Paese e per la sua continuità,
questa Gazzetta pubblicava un articolo di fondo dal titolo: "Ritorno
alla normalità", che voleva solo significare che tutti ci
dovevamo rimboccare le maniche.
In sostanza, l'obiettivo di ieri come quello di oggi.
Nei tanti anni
de "Il Sole-24 Ore", molti appartengono anche a me.
Ma in questa mia esperienza confindustriale, altre tappe personali
si inseriscono.
vi è quella de Il Sole, che inizia dal 1953 e si conclude nel
1965, all'atto della sua fusione, in coincidenza con il suo centenario,
con 24 Ore. Di questo Sole sono stato prima corrispondente da Roma
fino all'aprile del 162 e poi direttore, ed uno dei curatori editoriali
e redazionali della fusione.
L'assunzione della responsabilità di corrispondente mi fu richiesta
dal suo direttore di allora, Mario Bersellini, discendente del fondatore
del giornale, e dal presidente del Consiglio d'Amministrazione dello
stesso, on. Mario Dosi. Allora fare il corrispondente da Roma significava
competere con i servizi dalla capitale con il concorrente 24 Ore,
del quale si occupava il vigilissimo Colombi. E naturalmente cercai
di fare del mio meglio, anche quando il direttore del giornale diventava
per iniziativa di Dosi il giornalista Italo Minunni, precedente corrispondente
dalla capitale di 24 Ore.
La cronaca che si riferisce alle varie fasi dei due giornali economici
è riassunta in un grosso volume dovuto per Il Sole al defunto
prof. Piero Bairati, docente di Storia economica presso la facoltà
di scienze economiche dell'Università di Torino, e per 24 Ore
al suo attuale direttore, Salvatore Carrubba. Nel libro vengo ringraziato
insieme ad altri che hanno "accompagnato il lavoro di ricerca
e stesura" dell'opera.
Purtroppo però in questo libro, per il periodo che conosco
e che fra l'altro mi ha visto in varia misura, da Roma prima e da
Milano poi, fra i responsabili qualificati del giornale, vi sono molte
inesattezze, molte pregiudiziali ideologiche e forse pure partitiche
del prof. Bairati. A lui mi spiace di aver vivacemente contestato
tanti suoi rilievi, e ciò purtroppo avveniva a mezzo telefonico,
ignorando io le sue condizioni di salute che qualche mese dopo lo
portavano alla morte. Comunque, la parte che di questo libro personalmente
mi riguarda offre un giudizio sostanzialmente positivo per l'aspetto
tecnico della mia partecipazione al giornale, ma critiche e riserve
che riguardano l'orientamento politico del giornale, in contestazione
della linea della Confindustria. Ma queste critiche e riserve sono
pregiudizialmente e chiaramente di parte, fra l'altro con giudizi
conclusivi sulla vita separata prima della fusione dei due giornali,
definita "eutanasia di due quotidiani economicamente alla deriva,
naturalmente senescenti e politicamente inutili".
Ma qui ci sarebbe da risuscitare una polemica, che per quanto mi riguarda
è cancellata dal tempo e deve avere qualche traccia negli archivi
della Confindustria, presieduta allora da Pinin Farina che mi dette
atto della scrupolosità delle mie confutazioni (e questo termine,
scrupolosità, mi piacque perché consentiva a chi lo
esprimeva giudizi molto più positivi di chi meno trasparentemente
riteneva per dovere di carica manifestarli), e dello stesso Il Sole-24
Ore di oggi. Ma su questo libro, sempre per la parte riguardante Il
Sole, c'è da rilevare la costante ormai di ogni storia, anche
con origini o pretese scientifiche, che non è mai rappresentativa
della realtà come ciascuno o molti l'hanno vissuta e perciò
la conoscono, ma è sempre ridefinita ed interpretata in una
certa maniera. E' questa la sorte del resto anche delle stesse fotografie,
maggiormente delle statistiche, ecc. che, ritenute rappresentazioni
inconfutabili della realtà, vengono sempre interpretate da
angolazioni o addirittura momenti contraddittori fra loro. Forse è
vero che a dirci la verità è solo la geografia (ma quale
poi?) ed in alcuni casi la matematica (per la quale due e due fanno
quattro), ma quali due e quali quattro? Il che significa, e ci si
scusi questa filosofia spicciola, che le verifiche sono come gli esami
di De Filippo, non devono finire mai. E necessariamente pure la polemica,
che invece penso sia meglio si esaurisca nell'attualità.
Ma eccomi, comunque, alla mia direzione de Il Sole. La mia designazione
risale - e non è poco - a quasi due anni dalla sua concretizzazione.
Sono i cosiddetti "tempi" lunghi, che riguardano da tempo
ed anche da allora le nostre cose. Talvolta arrivano pure in anticipo,
ma se non vogliamo che avvengano le attribuiamo alla sfortuna, ed
invece, se arrivano, diciamo semplicemente che le abbiamo meritate
e che anzi ne eravamo convinti. Del resto, si sa, l'ipocrisia ce la
facciamo da noi.
Orbene, il mio presidente, Dosi, cominciò a farmi capire che
"seminavo bene". Seminare, e non più. Ma io capii
o pensai di più.
Nel frattempo, si verificava uno dei pochi periodi veramente particolari
della mia vita. Siamo sul finire del primo semestre del '60, ed io
ero contemporaneamente direttore de L'0rganizzazione Industriale,
de La Gazzetta per i Lavoratori, direttore dell'Agenzia giornalistica
AGA della Confindustria e corrispondente da Roma de Il Sole, oltre
che vice capo dell'Ufficio Stampa della Confindustria e collaboratore
economico di quotidiani e riviste.
Ho cercato sempre di fare insieme tante cose, che mi tenevano occupato,
nonostante la famiglia dalla quale, sono orgoglioso di poter dire
anche per merito di mia moglie, non sono stato mai assente. E queste
cose mi tenevano occupato non solo per guadagno, pur per me importante,
ma perché facendo un lavoro già mi ritenevo distante
da esso considerato provvisorio, perché ne avevo subito un
altro dietro l'angolo da soddisfare e sul quale anche contare.
In questa realtà si inserisce per me la possibilità
di recarmi negli Stati Uniti, come invitato del Dipartimento di Stato
degli USA. Allora fra questi invitati vi erano anche dei giornalisti,
fra cui anch'io, cui gli USA hanno sempre detto qualcosa. Anche durante
il Ventennio, il cui capo niente sapeva di quella realtà, della
quale gustava solo i films comici di Oliver Hardy e Stan Laurel. Per
il duce quanto sapevano produrre gli USA era soltanto questo e lui
ne rideva, perché invece immaginava che dalla sua parte vi
fossero otto milioni di baionette. Quali poi?
Orbene, ebbi l'ufficiale comunicazione di essere invitato dal Dipartimento
di Stato ad andare negli Stati Uniti. E, a differenza di tanti altri,
che per loro sfortuna pensano solo a se stessi, ritenni che dovessi
avere al mio fianco, ed a mie sole spese naturalmente, mia moglie
e mio figlio.
Le cose non erano semplici, perché siamo nel giugno del 1960.
Che c'era allora? Che era la nostra Italia? Che eravamo noi stessi
giornalisti, che pure sempre ci siamo creduti di essere o di dover
stare più avanti degli altri?
Le cose non erano semplici, abbiamo detto. E non lo erano perché
le stesse procedure d'ingresso negli USA erano complicate da questionari
estremamente rigidi da completare, a garanzia della sicurezza stessa
e della invulnerabilità USA dall'esterno: questa pure d'ordine
propagandistico ed antispionistico, addirittura.
C'era la guerra fredda, come c'era per quanto riguarda il nostro Paese
la particolare attenzione che era rivolta ai rapporti fra il nostro
pur forte Partito comunista e l'URSS. L'Italia, pur ancorata nella
sua rappresentativa maggioranza ai partiti che avevano a caposaldo
l'alleanza atlantica, manifestava segni abbastanza vasti di instabilità,
che erano determinati dalla correntocrazia così insistente
soprattutto nel partito di maggioranza relativa.
Dal partito di centro che guarda a sinistra di De Gasperi si stava
slittando verso il centro sinistra, con il tanto di incognite che
preparava, con i prezzi da pagare in termini politici ed economici
(perché quanto a quelli sociali questi in gran parte più
che essere affrontati venivano chiamati in causa principalmente come
alibi).
Questo panorama manteneva tesa l'attenzione degli USA, che a loro
volta volevano pure farsi meglio conoscere da noi, come soggetti partecipi
di un'alleanza che si voleva attivizzata al massimo.
Da qui lo sguardo attento anche a noi giornalisti. Ed io allora oltre
al compito di corrispondente romano de Il Sole, da circa un quinquennio
disimpegnavo -come ho detto prima - la responsabilità di un'Agenzia
di oltre 20 quotidiani gravitanti nelle Associazioni industriali.
Si trattava di un complesso di quotidiani che andavano da L'Arena
di Verona a La Provincia di Como, dall'Alto Adige di Bolzano al Corriere
Padano, dalla Gazzetta di Parma e dal Giornale di Bergamo al Giornale
dell'Emilia, ecc.
Era un'Agenzia che era nata alla vigilia degli anni '50 e che sul
finire del primo quinquennio del decennio successivo mi veniva affidata
per il suo rilancio. A dirigere questi giornali vi erano colleghi
come Michele Intaglietta, Ugo Questa, Baldassarre Molossi e numerosi
altri, taluni dei quali hanno negli anni successivi impresso una identità
ancora più valida alle loro testate. Io dal centro li ho aiutati
in questo loro sforzo, con servizi che venivano disimpegnati da colleghi,
come Orefice, Lupinacci, Segala, Zingarelli, Giovannini (entrambi
gli Alberti, uno ex ministro liberale e l'altro editorialista de Il
Tempo), Panfilo Gentile, Secreti, Saibante, ecc. L'Agenzia così
veniva a rivestire e disimpegnare funzioni di particolare rilevanza
qualitativa, nella linea politica dei grandi giornali del tempo, editorialmente
indipendenti dai partiti.
Avendo come compito nel mio viaggio negli USA anche quello di riferire
ai giornali di cui mi occupavo e fra l'altro pure alla Rivista Esteri,
che rientrava nell'orbita della Farnesina, agli inizi dell'agosto
del '60 partii per New York, con il mio interesse per la stampa quotidiana,
grande e minore; per le strutture bancarie e borsistiche; per le organizzazioni
industriali; per le collettività più rappresentative.
Il Dipartimento di Stato predispose il relativo programma, assicurandomi
anche un assistente. Il viaggio poteva durare anche tre mesi, ma dovetti
ridurlo a 40 giorni, durante i quali il mio calendario fu esclusivamente
di lavoro, con la sola sosta festiva. Altri miei colleghi in altre
distinte missioni, cui è stato detto, non si sono sottratti
ai richiami di altre divagazioni. Uno di questi, ad esempio, era più
che altro attratto dalla musica jazzistica, pur essendo un noto ed
importante politologo. E ciò evidentemente a smentita che la
musica della politica sia sempre la stessa, e per contro a conferma
che va ricercata ed ascoltata - quale che diventi - con inesausto
interesse.
Gli USA nella
seconda metà del secolo.
Il primo contatto con gli USA è un'esperienza che non si dimentica.
Per me ed i miei ha comportato la prima salita su di un aereo. E si
è trattato nientemeno di una trasvolata atlantica, durata poco
meno di dieci ore, con apparecchi DC6 dell'Alitalia, guidati da piloti
che solo poche settimane prima avevano concluso negli USA i loro corsi
di addestramento sui nuovi jets.
Prima di partire facemmo la comunione nella chiesa di San Camillo
in via Piemonte, angolo via Sallustiana. E poco discosto da noi Vera
inginocchiato anche l'on. Antonio Segni, allora ministro degli Esteri,
che in quella chiesa per la comunione era andato, a due passi da casa
sua. Facile è immaginare la serie anche scherzosa di riferimenti
a questa coincidenza.
Partimmo da Ciampino, perché di Fiumicino allora neppure si
parlava. Ed arrivammo a New York in una sera particolarmente calda,
con l'affollamento di Broadway, che non ci piacque e minacciò
un giudizio nostro molto differente da quello cui eravamo abituati
per Londra o Parigi.
Sennonché il successivo richiamo della Quinta Strada e delle
altre limitrofe strade ci collocò in un ben diverso panorama
ed in una realtà che sono quelli che tutti ammiriamo, dandoci
fra l'altro la sensazione di una dinamica così accelerata da
non consentire mai soste o repentine frenate.
E così si sono susseguite le nostre soste a Washington, con
i contatti al Dipartimento di Stato nelle sezioni interessate agli
affari italiani, alla grandiosa biblioteca nei cui schedari mi è
occorso anche di scovare un mio libro sull'economia dell'Africa Orientale
di 25 anni prima, con le visite in case di connazionali, con la frequentazione
di parchi nei quali prevalente era la presenza di famiglie di colore,
tutte dotate di enormi radio mobili e così via.
Nell'itinerario erano anche comprese visite a San Francisco, percorsi
ferroviari su treni come quelli che si vedevano nei films con il cameriere
negro e la scaletta per salire, sui vagoni, che ci conducevano a Chicago
o Denver, colazioni di lavoro con capi di grosse banche ubicate nei
"tops", poi imitati anche in Italia, con esponenti di associazioni
industriali, con grandi giornalisti, a cominciare dal redattore capo
del New York Times. Di lui ricordo soprattutto quest'affermazione:
"Il nostro contratto di lavoro ci consente di cumulare periodi
di ferie, provocando anche nostre assenze di tre-quattro mesi, ma
io lo stesso al rientro riprendo tranquillamente il mio lavoro, perché
so che non è successo nulla di veramente nuovo, in una continuità
che solo noi enfatizziamo". Sono passati oltre 30 anni da allora
e le cose sono certamente mutate nella stessa strumentazione informativa,
ma qualcosa in quel senso tuttora sopravvive con il bene ed anche
con il male che fa nell'interpretazione e nella classifica di quello
che accade.
Ma tre altre notazioni mi piace conclusivamente richiamare in merito
a questo viaggio. La prima concerne la pratica calorosa dell'accoglienza
verso gli ospiti fino ad allora sconosciuti, ma subito considerati
amici, pur sapendo che subito dopo poco o nulla avrebbero avuto a
che fare con loro.
Mi era stato detto che nelle varie città americane esistevano
comitati di accoglienza, con aderenti che si ritenevano impegnati
in un vero e proprio servizio civile, mettendo a disposizione auto,
facendo ricevimenti nelle loro case e nei loro clubs, accompagnandoti
o ricevendoti agli aeroporti. Sono anche questi ricordi vivissimi,
certo esemplari quando si richiama la valenza o l'assenza di certi
valori che salgono fino in alto. Le società, le culture, il
progresso vivono anche così, con queste tante, semplici pregiudiziali
e premesse, da cui discende tutto il resto, e che non si esauriscono
nel folklore.
La seconda notazione riguarda questa nostra italianità, della
quale una fonte importante è la nostra emigrazione. Gli italiani
d'America si contano a decine di milioni, come si sa. .Sono quelli
delle cento lire chieste alla madre perché in America si voleva
andare; sono quelli che hanno costruito le prime strade ferrate; sono
quelli che si avventuravano nelle grandi costruzioni e nei grattacieli
che a vederli non si sapeva a quale altezza sarebbero giunti; sono
quelli che per sopravvivere raccoglievano la cicoria; sono quelli
che cominciavano a dar vita a quei negozietti alimentari che oggi
riescono a sopravvivere rispetto ai sopravvenuti supermarkets.
Ma sono anche quelli che hanno dato sindaci e governatori a New York,
che sono divenuti grossi banchieri come Giannini, che hanno fondato
e diretto giornali; che hanno dato vita a grossi sindacati, che ci
sono stati contesi da università, laboratori di ricerca, ecc.
e che a noi certo molto hanno insegnato, ma cui molto anche noi abbiamo
dato.
Anche come emigranti di oggi, e come continuatori di italiani che
stanno negli Stati Uniti da generazioni, si sentono tuttora italiani
forse pur non conoscendo più la nostra lingua.
C'è la Little Italy da celebrare ed è ricorrente e perciò
pure facile. C'è una grande Avenue da ricordare a Chicago:
è quella dedicata al trasvolatore Balbo, mai neppure durante
la seconda guerra mondiale cancellata.
C'è l'aeroporto, oggi secondario, ma sempre movimentato, "Fiorello
La Guardia".
Ci sono tanti italiani, che vanno alla chiesa di San Patrizio a New
York, come noi ci rechiamo a San Pietro; e tutti molto spesso riusciamo
meglio a stare insieme all'estero, anziché nei nostri Paesi
d'origine o di adozione.
Sempre in questa notazione rientrano i miei ricordi per Providence,
che il Dipartimento di Stato statunitense inserì nel mio programma
di viaggio, in quanto ritenuto particolarmente rappresentativo dell'italianità
degli USA, che - ricordiamolo - nel suo riconoscimento non è
un favore reso all'Italia, ma solo conferma di quella che è
l'identità, pur razzialmente differenziata, degli stessi Stati
Uniti.
Orbene, a Providence c'era da una parte un banchiere, siciliano d'origine,
e dall'altra un imprenditore di nascita della provincia di Salerno.
Il primo era riuscito a divenire l'emblema della collettività,
ma era rimasto pur sempre un siciliano. C'è pure, dunque, una
sicilianità nella banca da ricordare: una sicilianità
senza la mafia; una sicilianità, come quella oggi di Cuccia.
E questo banchiere certamente, proprio perché al vertice, preferiva
più quelli che erano avanti allo sportello che non quanti,
a cominciare da se stesso, ne erano dietro.
Ma sempre a Providence c'era un emigrato delle cento lire, quello
che aveva cominciato con il raccogliere cicoria, che era stato non
da visitatore sulle strade ferrate, che aveva fatto tutto quanto riteneva
dovesse essere fatto per acquistare ad un certo momento della sua
vita una grossa villa con piscina e mobili eclatanti per me orribili,
che era appartenuta al produttore alternativo dell'Alka Seltzer (ma
non ne ricordo il nome).
Acquistò la villa, mi disse che vi era compresa anche l'argenteria,
aveva lasciato tutte le cose come stavano perché per lui tutte
erano belle, mi invitò ad una colazione, ma il citofono prima
che qualcuno rispondesse a me e a chi mi accompagnava era rimasto
inesorabilmente muto, ma poi poteva cominciare la colazione promessa:
con enormi polpette di carne, con una pasta di cui non ricordo i connotati,
con il cosiddetto salvietto, posto a scivolo da parte dell'anfitrione;
con l'io rinunciatario rispetto al pasto, e con mia moglie incuriosita
ed in un certo senso impegnata in quello che succedeva.
Ma l'importante per me, nel ricordo, non è solo questo pranzo,
ma il succedersi degli avvenimenti che avevano condotto il mio anfitrione
in questa villa, cinematograficamente macabra ed allettante nello
stesso tempo, emblema cioè della Hollywood rinascente e di
Viale del Tramonto già aperto. Bensì è il rapporto
che subito dopo, questo improvvisato, ma volitivo magnate, aveva con
i suoi managers. E fra questi vi erano chi si occupava degli impianti
di distribuzione di benzina, chi provvedeva alla fabbricazione e distribuzione
del ghiaccio in colonne e chi doveva rispondere di come funzionavano
certi negozietti alimentari, e così via. Perché l'elenco
era lungo ed io non lo ricordo. Ricordo invece che lui non solo era
presente, ma assillante. Certi conti allora per chi se ne avvantaggiava
erano migliori per chi li ascoltava, che oggi per quanti li vedono
scritti, e sanno che se vogliono giustizia devono far ricorso, con
o senza preliminari tangenti, ad altra sede indagatoria o decisionale.
Ed eccomi infine alla terza notazione, che certamente non ha avuto
importanza secondaria nella mia vita. E ciò per due ragioni:
ma forse la prima di esse, la frequentazione e collaborazione con
un personaggio, che secondo me ha riscontro con almeno metà
di questo secolo, e cioè Raoul Chiodelli, creatore della radiodiffusione
in Italia.
Orbene, a Wall Street ebbi occasione di vedere funzionanti alcune
telescriventi, che registravano le quotazioni di Borsa, e quindi pensai
che qualcosa di simile dovesse essere fatto anche in Italia. Naturalmente,
per averne un vantaggio economico, e questa è la seconda ragione
di cui prima ho detto. Ne parlai appunto a Chiodelli, con il quale
ero in rapporti per Radio Stampa da lui presieduta, sia per Il Sole
che per l'AGA di cui ho prima detto, e Chiodelli capì subito.
Dopo un paio di mesi dal mio rientro dagli USA, Teleborsa iniziò
la sua vita: ed ora stanno trascorrendo sette lustri dalla sua nascita.
C'è oggi la televisione che scherza in merito alla ricopiatura
di modelli giapponesi per certa sua attualità di oggi, ma riconosciamo
quanto abbiamo copiato dagli altri, solo sperando oggi che chi copia
da noi faccia meglio di noi. Forse per ricopiare a nostra volta.
Non so se con questo mio bagaglio certo più ricco io abbia
acquisito maggiori titoli per la mia nomina a direttore de Il Sole,
avvenuta nell'aprile del 1962. Prima la mia designazione era stata
fatta dall'on. Dosi, presidente del consiglio di amministrazione e
da Alighiero De Micheli, presidente della Confindustria ed era stata
approvata. Sennonché il discorso venne ritenuto maturo solo
in coincidenza con altre mutazioni nelle direzioni degli altri quotidiani
di proprietà della Confindustria.
Ed è da qui che ricomincerà il nostro prossimo discorso.
(6 - continua)
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