§ Che Italia fa

Se muore il Sud




Aldo Bello



Pochi dati sono sufficienti a radiografare la situazione italiana: sono stati spazzati dalla crisi 650 mila posti di lavoro; nel '94 se ne perderanno altri 100-200 mila; ciascun cittadino ha oltre 30 milioni di debito; se non si tiene sotto controllo l'inflazione e se non si protegge il ciclo virtuoso dei conti pubblici, si rischia il collasso.
In questo scenario a tinte oggettivamente fosche si inseriscono due dettagli contraddittori: nel '94 decollerà una "ripresina"; nello stesso 194 emergerà un sorprendente "Sud del Nord" che accrescerà la serie infinita di emergenze nazionali. Che cosa è accaduto? E soprattutto: quale lezione si può trarre per il futuro?
Vincenzo Viti cita un recente studio di Isaia Sales incentrato, fra l'altro, sul capovolgimento delle istanze classiche meridionali (che furono proprie del pensiero di Fortunato, di Salvemini, di Sturzo, di Nitti, di De Viti De Marco) che riguardavano i rapporti fra territorio e sfruttamento del mercato, fra regionalismo e separatismo, fra centralismo ed equità fiscale, e in ultima analisi fra interventi speciali, assistenzialismo e potentati clientelari. Il sistema italiano aveva retto "finché il compromesso fra capitalismo italiano e Stato ha consentito ampie tutele ai grandi interessi economici, oggettivamente alleati a quella miscela di velleitarie ipotesi di crescita e di domande di integrazione dei redditi e dei consumi che ha dominato la vita meridionale". L'equilibrio era saltato quando "il modello del "dualismo funzionale" (cioè della perfetta specularità fra gli interessi di un Nord produttivo e di un Sud sorretto dall'economia dei trasferimenti e alimentato dalla spesa pubblica) è saltato, favorendo l'insorgenza di un nordismo preoccupato dalla fragilità delle sue sicurezze e insidiato dai "costi" crescenti del sistema duale". Non si tratta, dunque, soltanto, di un Sud che dopo lo scossone della media (Enichem di Crotone, ad esempio) e il crollo della grande impresa (Ilva di Taranto, ad esempio) si è fatto cogliere privo di progetto. Si tratta anche dell'arretramento difensivistico del vecchio Nord assistito e assistenziale. Il leghismo a Nord nega la solidarietà e minaccia secessioni. Il Sudismo a Mezzogiorno ha esiliato il meridionalismo dal dibattito politico e lo ha ghettizzato nelle Università e nei Centri-studi. Le esperienze del passato sono guardate con sospetto, quando non sono viste come le cause prime dei disastri che hanno compromesso il Sud e il Paese; e ciò, sebbene la creazione di un organismo speciale di intervento pubblico (la Cassa per il Mezzogiorno), come scrisse Chinchino Compagna, segnava la fine del liberismo: ma non per questo venne risparmiato dagli opposti strali della destra e della sinistra. Esclusa la tentazione del ritorno di un passato irripetibile, resta il grigiore del presente. E il presente, diceva Benjamin, si tiene immobile sulla soglia del tempo.
Profeticamente aveva avvertito Claudio Napoleoni: è rischioso pensare di ottenere dall'industria nuovi posti di lavoro. Lo sviluppo dell'industria non garantisce più lo sviluppo dell'occupazione, anche se dal settore industriale non si può prescindere.
L'accusa esplicita: sul piano nazionale, la struttura industriale presenta deficienze gravi, in quanto l'innovazione è stata concentrata più nei processi che nei prodotti, e in settori vecchi, che debbono confrontarsi sui mercati internazionali con la concorrenza dei Paesi di nuova industrializzazione. Se poi - rincara la dose Vittore Fiore - nell'industria inglobiamo i settori dell'energia e dei trasporti, siamo ancor meno competitivi.
L'accusa implicita: nel Sud si è fatta più ingegneria sociale che economica; nel Nord si è fatta più ingegneria finanziaria che industriale. Le due distorsioni, sommate insieme, hanno portato al punto in cui siamo. Nota Giuseppe Turani: c'è una specie di morte gelida e, per ora, silenziosa nel Sud (dove si esporta pochissimo) e nel Nord-Ovest dell'Italia (Piemonte e Liguria). Mentre il Sud sta precipitando, dal punto di vista economico, in una specie di notte senza fine, il Nord-Ovest, patria della prima industrializzazione italiana e una volta motore dell'economia nazionale, si sta trasformando a sua volta in una sorta di Sud del Nord, di inedita area depressa. Eppure i segnali non erano mancati, gli avvisi ai naviganti erano stati chiari: un economista contro corrente, Mario Deaglio, aveva messo in guardia dalla tentazione ricorrente al Nord di "tagliare l'Italia in due" quando l'economia non va molto bene per difendere così i propri livelli di benessere. "E' una tentazione illusoria. Un Mezzogiorno più povero rende l'Italia meno ricca".
E' davvero abnorme che i due maggiori problemi del Mezzogiorno siano ancora oggi quelli che, centotrent'anni fa, avviarono la storia del brigantaggio: il lavoro e la criminalità organizzata. Fino a che il lavoro mancherà, sarà impossibile far politica moderna nel Sud. Fino a che la malavita durerà, non potrà aver luogo alcuno sviluppo concretamente moderno nel Sud. La nascita e l'espansione virulenta della cosiddetta "quarta mafia" in una regione a sviluppo fortemente sbilanciato, come la Puglia, ne sono una testimonianza lampante. E non si deve credere che si tratti soltanto di aggregazione di frange di lumpenproletariat. Dentro c'è gente che sa scrivere e amministrare, che manovra pacchetti di voti, che alimenta un sudismo arrogante e fuori tempo massimo. Lo stesso che fa il canto di sirena agli intellettuali stanchi dell'impegno caduto nel vuoto, o disatteso, o deluso; e che alle storie romanzate di Mario Monti sulle epopee brigantesche preferiscono i testi di Oscar de Poli, il quale - in De Naples à Palerme - scriveva: "25.000 elettori, secondo le cifre ufficiali, hanno votato l'annessione delle Due Sicilie al Regno di Sardegna. Ora, dopo quattro anni, diecimila napoletani sono stati fucilati o son caduti nelle file del brigantaggio, più di ottantamila persone gemono nelle segrete dei liberatori; diciassettemila sono emigrati a Roma, trentamila nel resto d'Europa, la quasi totalità dei soldati dell'antica armata del Regno hanno rifiutato d'arruolarsi sotto le bandiere dell'annessione. E' la voce del popolo, cioè della maggioranza, che si vuole ascoltare? Ebbene, ecco 250.000 voci circa che protestano dalla prigione, dall'esilio o dalla tomba contro la confisca dell'indipendenza. Che cosa rispondono a queste cifre gli organi del piemontesismo? Essi non rispondono affatto".
Riusciranno a parlarsi i "piemontesi" per la prima volta in crisi e il Sud da sempre in crisi? Forse sì, se invece della guerra fra localismi e centralismo si recupererà l'omogeneità dell'azione politico-economica e politico-sociale di tutto il Paese e se si supererà l'idea della "specialità" sia del Sud sia del Sud del Nord. Scrive Giuseppe Galasso: togliamo alla classe politica la tentazione e l'alibi di un Sud soddisfatto con fondi e agenzie. Lo stesso discorso deve valere per le "aree depresse" o "in fase di depressione" del Nord. Occorre procedere per grandi piani settoriali nazionali, per grandi accordi di programma nazionali, per grandi interventi nazionali. In questo modo chiuderemo il circolo vizioso della "sprogrammazione" che ha sganciato il Mezzogiorno dalla ripresa e ha creato sacche di povertà e di malessere anche nel Nord. E usiamo tutta la forza dello Stato per debellare i cartelli del crimine. Forse la strada sarà lunga. Ma è ormai l'unica che ci resta da percorrere.
Due dilemmi difficili sono di fronte ai responsabili della cosa pubblica. Il primo, del quale si scrive pochissimo, si può sintetizzare così: dobbiamo sacrificare gli interesse degli agricoltori sull'altare degli scambi internazionali, dicendo sì all'Uruguay Round e tagliando i sussidi? Il secondo, che è anche più angosciante: sarà possibile perseverare nelle manovre anti-inflazionistiche, oppure queste saranno travolte dall'indignazione pubblica per una disoccupazione che cresce oltre ogni livello di guardia?
Sul versante internazionale, la posizione dell'Italia, che ha avuto il maggior deprezzamento della valuta, mette l'economia in una situazione di vantaggio relativo, nel senso che i successi in campo estero non sono sufficienti a garantire una ripresa, ma solo a farci subire Una quota minore di recessione. Le cifre sono queste: da un lato, l'esportazione extra-Cee è cresciuta del 31 per cento e quella del mercato unico dell'11 per cento; ma, dall'altro, questi numeri non fanno che recuperare volumi di vendite già conosciuti, e ri-scoprire nicchie geografiche sulla cui durata nel tempo sarebbe azzardato scommettere. Nel lungo periodo, infatti, tempi difficili e contrasti aperti si preparano per il commercio internazionale. Un desiderio strisciante di protezionismo si sta diffondendo: in Europa, nell'ultimo anno, sono stati imposti a sorpresa dazi sull'acciaio sloveno, sul poliestere indiano e sulle mountain-bike cinesi. E sempre nel '92 in Europa hanno chiuso i battenti quattromila imprese, per lo più del settore manifatturiero.
In questo panorama desolante dell'economia dei Paesi industrializzati si inserisce la querelle dei Sud europei: di quelli fortemente sostenuti (Germania, Francia, ma anche Spagna e, fuori Cee, Austria) e di quelli che, come il nostro, cessata la "protezione speciale", si pongono come punti di riferimento un progetto operativo e uno di filosofia politica.
Il primo fa capo ai fondi strutturali che l'Europa destina alle aree depresse e che da qui al 1999, insieme con il cosiddetto "cofinanziamento" dello Stato, riverserà nelle regioni meridionali diecimila miliardi di lire all'anno. Altri interventi a pioggia? Una sorta di ombrello continentale, al modo della vecchia Cassa per il Mezzogiorno?
Niente illusioni. La musica è cambiata, dice Mariano D'Antonio: se finora comuni, province e regioni del Sud potevano snobbare i finanziamenti Cee perché i loro sgangherati progetti facevano ricorso al più disponibile intervento straordinario, ora debbono attrezzarsi subito e bene. L'Europa esige che i progetti siano attentamente vagliati. Si riducono, o spariscono, i margini di discrezionalità: mai più opere faraoniche, di dubbia utilità; e disco verde per unità produttive che risolvano problemi concretamente identificati.
Il secondo rade al suolo l'ideologia su cui si è attardato il pensiero meridionale: deve morire il meridionalismo archeologico, come debbono farsi memoria storica le rivendicazioni territoriali in nome di antiche spoliazioni. Occorre una vera e propria rivoluzione culturale. E' un momento nodale. Oggi si discute sulla capacità del capitalismo di produrre democrazia, oltre che benessere e consumo di merci, e si riscoprono Tocqueville e Schumpeter sul rapporto fra etica ed economia. Allora, com'è pensabile un'etica pubblica per una nazione in declino come il Mezzogiorno d'Italia? Se lo chiede Sebastiano Maffettone, secondo il quale è necessario partire da un'ipotesi fondamentale: i problemi di cui si discute sono di natura distributiva, e non semplicemente allocativa o produttiva. Se si ricorre alla consueta metafora della torta, dice Maffettone, si deve guardare prima di tutto a chi prende quale fetta, e solo dopo a chi produce la torta stessa. Ci si accorgerà così che la crisi del Sud dipende anche da un colossale ingorgo distributivo, e cioè "da stratificazioni sociali stantie e inefficienti, nello stesso tempo capaci di conservare un potere di contrattazione, o forse addirittura di ricatto, notevole". Ciò significa che c'è troppa gente pronta a tagliarsi una fetta troppo grande della torta sociale, senza preoccuparsi di quale contributo dia alla costruzione complessiva.
Realizzare una rivoluzione culturale, allora, vuol dire prendere sul serio i valori per pensare e aderire a un progetto moderno e, come diceva Kant, "per uscire dalla minorità". E dal momento che nessun valore o principio si acquista gratis, la terapia impone rinunce dolorose che, per i meridionali non pentiti, possono avere legami con la tradizione e col passato: "Dobbiamo realizzare un distacco da tutta quella antropologia primitiva, cui nonostante tutto siamo affezionati, per accettare che essa ci conduca di fronte a rischi e umiliazioni. Questo implica, a sua volta, una nuova etica della virtù, con il perseguimento di virtù meno eroiche e magari più modeste, ma più adatte all'inveramento del progetto moderno". Bisogna vivere i giorni del disincanto, come diceva Max Weber. E se proprio vogliamo dirci tutto, dobbiamo lasciare molto sullo sfondo i grandi spiriti solitari, crocianamente intesi, che pure sono stati pietre miliari della storia, cioè della "questione" del Sud; e riflettere sui modi, i tempi e i soggetti sociali che possono realizzare il cambiamento. Ma riflettere con una forte dose di realismo. Vincenzo Cuoco inneggiò agli intellettuali del '99 che salivano sui patiboli, ma ammonì anche sui pericoli dell'astrattismo rivoluzionario: non dimenticava che, mentre i politici napoletani disegnavano un volto costituzionale per la giovane Repubblica, i Borboni distribuivano la terra ai contadini. E' la storia della Vandea meridionale.
Quali sono gli elementi di rottura? Per Maffettone, l'irruzione del mercato concorrenziale, l'unico in grado di spezzare i vincoli tradizionalistici. Per Chiaromonte, la sconfitta del blocco di potere interclassista fondato sul controllo e sulla gestione della spesa pubblica e su punti di contatto col cartello del crimine. Giorgio Ruffolo ritiene che come l'intervento straordinario ha rappresentato la versione assistenzialistica del welfare, così il regionalismo italiano ha costituito la parcellizzazione del centralismo intermediatore, cioè distributore: le regioni come calcografie del potere centrale, come sottoprodotti delle amministrazioni centrali e sottodistributrici di risorse. E ciò ha perpetuato la "questione" del Sud e ha creato anche una "questione" del Nord: nel senso che in pochi decenni vi è stata in Italia una moltiplicazione della ricchezza materiale velocissima, sconosciuta nell'Occidente; ma tutto questo è avvenuto senza che nelle regioni favorite si sia sviluppata e consolidata una società civile capace di governare e regolare le spinte, gli egoismi e gli interessi che l'arricchimento provocava, per mancanza di un reale autogoverno. Occorre allora rileggere correttamente Cattaneo, il cui federalismo rappresenta la dimensione politica di una teoria della complessità. Cattaneo accettava le "repubblichette", ma all'interno del "repubblicone", un sistema federale che ha una forte articolazione, ma anche una densissima capacità del centro di accogliere e mediare le spinte e controspinte del sistema stesso. Come in Germania o negli Stati Uniti. Vittore Fiore invoca l'eliminazione dei divari regionali di produttività, delle residue inefficienze e disomogeneità e il rafforzamento della soggettività del ceto dirigente, il miglioramento dell'utilizzo delle istituzioni e delle condizioni ambientali, il superamento dei localismi. Forse, nota Raffaele La Capria, una volta ammesso che fummo tutti (al Nord e al Sud) inadeguati al compito che ci spettava e tutti indegni di considerarci nazione, dovremmo voltar pagina e abbandonare i vecchi schemi per inventarci un nuovo linguaggio meno soggetto alle rispettive "mentalità" e più aperto a un nuovo modo di considerare le cose. E forse un'altra maniera di stare insieme.
Tristezze di un intellettuale di Magna Grecia? Nullismo cartaceo di economisti? O non piuttosto, nella crisi che ci coinvolge tutti, spinta propositiva a preparare il moderno e a non subire più una storia dal cuore viola? Potrebbero non essere vane parole, dice La Capria: i fatti si imporranno.
I più sciocco luogo comune sul Mezzogiorno è quello secondo il quale in quarant'anni di intervento straordinario il Sud sia rimasto immobile. La trasformazione c'è stata, eccome! Nel medioevo foggiano del 1950 nelle bare dei bambini morti di fame si mettevano ancora dodici confetti, simbolo dell'indigenza; in quello catanzarese le raccoglitrici di olive andavano al lavoro con la museruola; in quello metapontino i mietitori lavoravano da sole a sole e potevano bere acqua una sola volta al giorno. E nell'infernale "boom" degli anni Sessanta emigrava al Nord o all'estero un meridionale ogni minuto primo. A quel punto meridionalismo di Stato e compromesso tra sistema industriale del Nord e sistema politico del Sud rilanciarono alla grande la loro azione e il Mezzogiorno passò direttamente dall'agricoltura alla politica, dal bracciantato delle campagne alle sovvenzioni e all'assistenzialismo pubblico, dal traino all'utilitaria, senza transitare realmente attraverso l'industrializzazione. Noi vivemmo il mito della "frontiera degli anni Ottanta" come un'illusione ottico-fisica collettiva. In realtà il motore di quel mito fu ancora una volta la spesa pubblica, matrice di una trasformazione distorta, senza qualità, letale.
Alla crisi delle società industriali, e in particolare alla crisi delle società duali, oggi si aggiungono due elementi cresciuti a dismisura che configurano una situazione, del tutto nuova, che non può essere affrontata con i vecchi ferri del mestiere. Il primo: c'è stata un'enorme avanzata tecnologica che si è tradotta in un impetuoso aumento di produttività. Gianni Mattioli sostiene che il ritmo è stato così accelerato, che non è stato possibile riassorbire quell'aumento con gli usuali meccanismi di espansione, di diversificazione e di induzione di nuovi consumi. E' accaduto esattamente il contrario di quel che si verificò nell'Impero spagnolo, sul quale non tramontava mai il sole: il gigantesco drenaggio dell'argento (e in parte dell'oro) dal Nuovo Mondo procurò ricchezze diffuse, immense e non spendibili perché la tecnica del tempo non metteva a disposizione nuovi beni di consumo. Oggi nel villaggio globale circolano quantità di merci e di prodotti d'ogni tipo e prezzo, continuamente rinnovati e perfezionati, ma le borse degli individui e delle famiglie sono a secco e i consumi ristagnano anche in regimi di accanita concorrenza.
Il secondo elemento coinvolge la disponibilità delle risorse e del territorio, e in ultima analisi la capacità dell'ecosistema di reagire agli squilibri e alle perturbazioni apportate dall'uomo, dagli agenti chimici e fisici, dalle attività produttive, dall'inurbamento. Nel momento in cui l'aumento quasi esponenziale della produttività richiederebbe una analoga espansione di ateliers industriali, cala la scure ambientale e la rotta di collisione rende precaria ogni strategia di rilancio. Il "nuovo", dunque, deve puntare soprattutto sulla qualità della vita di tutti e, simultaneamente, sulla rimozione delle condizioni di sofferenza delle economie arretrate. Dice Mattioli: questo significa porre mano a grandi progetti che riguardano le produzioni industriali, l'agricoltura, gli assetti urbani, così come la tutela della salute, dell'ambiente e la valorizzazione dell'inestimabile patrimonio storico, artistico e culturale del Paese, senza peraltro arrecare ulteriori danni all'ambiente e al territorio. Un progetto complessivo di questo tipo potrebbe creare finalmente nel Sud una società sostenibile.
Se, nel Mezzogiorno, alcuni Sud in questi decenni sono andati avanti autonomamente, è stato grazie al fatto che alcuni uomini, singoli o associati, hanno discusso meno di cultura locale e più di economia e di finanza, di colture pregiate, di scarpe, di macchine utensili. Quegli uomini e quei gruppi non caddero nel vizio illuminista, così in voga tra gli anni 150-170, che portava molti ad affermare che, se non si fosse posto mano a un Sud della cultura, il Mezzogiorno sarebbe rimasto sganciato dall'Italia e dall'Europa. L'Italia e l'Europa però sono andate avanti lo stesso. Allora l'interrogativo al quale è necessario dare una risposta intellettualmente onesta è se il Sud (senza rinunciare alla sua identità culturale, ma anche senza spacciarla come superiore patrimonio o retaggio unilaterale del Paese) non debba avere come nuovo fondamento un linguaggio economico-tecnico. Del resto, scrive Massimo Cacciari, quale altro linguaggio possiede l'Europa contemporanea se non quello della tecnica in senso lato? Si pone la questione dell'Europa delle culture, delle tradizioni, magari anche delle religioni, ma c'è da chiedersi quale sia il senso vero, oggi, di un'Europa dei popoli. Il linguaggio universale che ora parla l'Europa è forse un linguaggio religioso? E' forse un linguaggio ideale o culturale? E' puramente e semplicemente un linguaggio di interesse economico: non dei governanti europei, ma dei popoli europei. Il linguaggio della cultura meridionale non ha senso se estrapolato dall'ecumene mediterranea. Quello dell'economia e della tecnica ha diritto di cittadinanza planetaria. Abbiamo speso lunghe stagioni contrapponendo le culture di un Nord con prevalenza scientifica (Romagnosi-Cattaneo-Scuola positivista) e di un Sud con alternanze spiritualistiche e materialistiche (Spaventa-Labriola, Croce-Gramsci); e altre stagioni confrontando la linea nordista Gadda-Beckett-Borges alla linea sudista Silone-Faulkner-Caldwell. Col risultato, avrebbe detto McLuhan, d'essere arretrati nel futuro, vivendo un'era della simulazione, ruminando la rassicurante cultura del ricordo. Siamo stati rigattieri di identità ormai vuote, come denunciava Foucault: abbiamo avuto paura dell'instabilità, fingendo di non sapere che, voltandosi indietro, la società meridionale (come ogni società) rischiava di restare impietrita, come la moglie di Lot.
Si può creare il metalinguaggio che porti il Sud verso la nuova frontiera? Non c'è dubbio, se questo Sud avrà la spregiudicatezza di ripensare se stesso alla radice, con uno scavo intellettuale radicale e impietoso; e se, di conseguenza, in questa fase di ripensamento adotterà una condotta pragmatica al più alto livello. E per cominciare, è necessario perdersi un po' d'anima, riconoscendo la nostra corresponsabilità nel male generale, senza abusare del trasferimento freudiano della colpa. Ci sarà pure una ragione se la legge 44 per la creazione di imprese fra i giovani del Mezzogiorno è stata studiata con interesse dal sindaco di Chivasso, dall'Ocse, dall'Onu, dagli esperti del Brasile, dell'Argentina, della Grecia, della Polonia, del Venezuela e dell'Albania; ma ci sarà anche una ragione se oltre il 70 per cento dei progetti è stato abbattuto perché vi emergevano inadeguatezze e approssimazioni, perché si prevedeva la loro nascita in aree non attrezzate, perché certe zone del Sud non hanno manodopera qualificata. Allora si ha il diritto di chiedere dove siano stati finora enti locali, scuole, università meridionali; perché nel Mezzogiorno non sia stato finanziato dagli imprenditori un Politecnico; perché infine i giovani si orientino ancora in massa verso le facoltà umanistiche, che sono fabbriche di "braccia appese", che non inducono imprese e posti di lavoro, ma pensioni di invalidità, cioè clientele politiche.
Per averlo di fronte, il futuro che oggi abbiamo alle spalle, dobbiamo riequilibrare il nostro rapporto e il nostro confronto con lo Stato e col mercato: dobbiamo creare, promossa la formazione di imprenditori, strutture funzionali alla valorizzazione delle risorse e dell'ambiente, piuttosto che infrastrutture capaci di colpire l'immaginazione e di fruttare voti di scambio. Un reticolo industriale moderno deve colmare i vuoti economici e culturali; promuovere un automatismo responsabile, sobrio e solidale; separare l'assistenza delle clientele e la politica dagli affari; deve organizzare, dice Corrado Stajano, una civiltà minima garantita.
Un'ultima notazione: negli anni '50 prese corpo l'esigenza di sbloccare la "questione" meridionale dagli involucri tradizionali. Va rilevato che il meridionalismo aveva avuto le sue origini e interpretazioni più salienti in coloro che vedevano, in una certa evoluzione storica che andava sempre più distanziando le regioni italiane, la conferma ad imposizioni volte a mettere in causa le strutture politiche: dalla visione rivoluzionaria di Gramsci alle strategie riformiste di Salvemini e di Dorso. Oggi, mentre il Mezzogiorno in sé ha perduto buona parte del suo potere di contestazione, quelle impostazioni sono un nuovo "vento del Nord" che non spira più dalla "sponda di sinistra". Sono state fatte proprie, ma ribaltate, dalla Lega, o dalle Leghe che dir si voglia. E poiché, al di là delle esasperazioni secessioniste, che presumiamo solo strumentali, è nei fatti un protagonismo propositivo delle regioni e dei territori, è salutare acquisire il principio che ogni rivoluzione -culturale, economica, sociale - deve muovere dall'interno e con forze autonome. Un ceto politico o imprenditoriale, cioè una nuova borghesia meridionale inadempiente, significherebbe abbandono dell'impegno civile: allora il disancoraggio dalla storia sarebbe definitivo e il nostro più grande passato, come diceva Nietzsche, sarebbe soltanto il nostro umiliante presente.


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