1.
Il riequilibrio della struttura finanziaria delle imprese.
Il dibattito sul rapporto banca-impresa oscilla periodicamente - a cicli
grosso modo decennali - tra i due estremi della partecipazione delle
banche al capitale delle imprese e, viceversa, di quella delle imprese
nel capitale delle banche. Il ruolo attivo viene assunto da chi, pro-tempore,
presenta il bilancio più florido.
I risultati delle banche risultano spesso sfalsati rispetto a quelli
delle imprese: sono pingui in virtù di tassi più elevati
proprio nei periodi di avversa congiuntura per le imprese. Così
negli anni Settanta la situazione manifestava analogie con quella dei
primi anni Novanta: l'impresa, fortemente indebitata nei confronti della
banca, vedeva in questa un possibile partecipante al capitale. La situazione
appare speculare a quella vissuta nella seconda metà degli anni
Ottanta, allorché la favorevole situazione economica e finanziaria
dell'impresa postulava una possibile partecipazione di questa al capitale
della banca (1).
Un passaggio importante nel dibattito in corso sul problema del riequilibrio
della struttura finanziaria delle imprese è rinvenibile a mio
avviso in un saggio, che risale al 1968, dell'economista belga Alexandre
Lamfalussy. Il lavoro, Les marchés financiers en Europe, evidenziava
- allora come ora - la debolezza dei bilanci delle imprese, conseguenza
della loro relativamente ridotta capacità di autofinanziamento
e, data la crescente preferenza delle famiglie per forme di investimento
diverse dalle azioni, l'impossibilità per le imprese di finanziarsi
nella misura necessaria tramite emissioni azionarie. Rimaneva l'indebitamento.
Aggiungeva Lamfalussy: poiché le banche "sono reticenti
a concedere prestiti a termine quando i fondi propri risultano insufficienti",
"se si vuole evitare una brusca frenata degli investimenti delle
imprese europee, occorre suscitare una sostanziale corrente di acquisti
delle loro azioni".
Considerando non modificabile in tempo utile il sistema di preferenza
delle famiglie, si poneva quale problema centrale la trasformazione
dei prestiti bancari in capitale di rischio. Lamfalussy propose la creazione
di società di investimento a capitale fisso, o a capitale periodicamente
variabile, le cui risorse fossero fornite dalle banche, dalle casse
di risparmio ed eventualmente dagli istituti di credito specializzati.
Tali società avrebbero dovuto costituire un'entità giuridica,
contabile e direzionale completamente distinta dagli intermediari finanziari
proprietari e fornitori delle risorse. Ciò per realizzare "uno
schermo tra gli uomini responsabili della gestione di un portafoglio
di azioni e i dirigenti degli intermediari finanziari", garantendo
così ai primi una reale autonomia operativa.
Lamfalussy si pose dunque il problema del passivo delle imprese, ma
del pari quello dell'attivo delle banche, in particolare del rischio
derivante da un grado eccessivo di immobilizzo, riaffermando con forza
il principio della "separatezza" nelle relazioni banca-industria,
che già nel nostro Paese era a fondamento della legislazione
bancaria degli anni Trenta.
Il lavoro dei Lamfalussy ha suscitato anche in Italia un dibattito fecondo
di contributi e proposte. Due interventi, in particolare, hanno espresso
la contrapposizione tra due diverse "filosofie" del rapporto
banca-impresa e ancora oggi riassumono bene i "poli" del dibattito.
Provengono entrambi dal vertice della Banca centrale: il primo è
di Carli, il secondo di Baffi. Nelle "Considerazioni finali"
del 1975, l'allora Governatore della Banca d'Italia, Guido Carli, lanciò
la proposta, considerata provocatoria, di convertire una parte dei crediti
vantati dal sistema bancario verso le imprese industriali in "quote
di capitale (di rischio) attraverso la intermediazione degli istituti
speciali di credito". Carli invitò in sostanza a prendere
atto del dato di fatto esistente, accettando che all'entità del
rischio di impresa sopportato dagli intermediari corrispondesse una
loro maggiore corresponsabilizzazione nella gestione: se la banca entra
nella direzione dell'azienda, può accrescere la efficacia dell'azione
di gestione e di controllo del rischio.
Sul fronte opposto, aderenti allo spirito della proposta Lamfalussy,
le Considerazioni finali del 1977 e del 1978 del Governatore Paolo Baffi
consideravano la banca quale giudice esterno dell'azienda. Baffi propose
di mantenere il principio della separatezza fra Banca e Industria: non
confondere i ruoli consentirebbe inoltre di identificare i diversi interessi
di cui sono rispettivamente portatrici.
Di conseguenza, "l'intervento degli istituti di credito speciale
e delle aziende di credito dovrebbe avvenire in forme che pongano comunque
un diaframma tra la gestione degli intermediari creditizi e quella delle
imprese produttive, evitando rapporti diretti tra singole imprese e
singoli istituti; per questi ultimi, dovranno valere il limite dei mezzi
propri nell'acquisizione complessiva dei capitali azionari e i limiti
alla concentrazione dei rischi".
Vi era dunque perfetta continuità tra la lezione di Lamfalussy
ed il pensiero di Baffi: invece che di schermo, si parlava di "diaframma",
ma la sostanza era la stessa.
Passando alle proposte operative, Baffi suggerì la costituzione
di consorzi, anche sotto forma societaria, per la sottoscrizione delle
azioni delle imprese destinatarie del capitale di rischio. La proposta
si concretizzò nella legge n. 787 del 5.12.1978, che consentì
appunto la costituzione di società consortili per il finanziamento
delle imprese in crisi, schermo tra la banca e l'impresa. Come è
stato di recente osservato, il limite principale della legge 787 fu
di essere stata concepita come provvedimento straordinario non inserito
nell'ambito di strumenti permanenti di risanamento e riallocazione di
aziende in crisi (Boccuzzi G.-Cercone R., Temi di discussione n. 204,
Banca d'Italia 1993, pp. 75-76). Quale ne fosse la forma, Baffi riteneva
indispensabile che gli interventi fossero temporanei, volontari e condizionati;
ciò "per la stabilità del sistema creditizio che
è necessaria alla stabilità finanziaria del sistema delle
imprese. La condizionalità è anche il presupposto di una
corretta individuazione delle imprese nei confronti delle quali gli
interventi avverrebbero: una garanzia che questi siano limitati ai casi
nei quali a un tempo sussistono l'effettivo stato di bisogno e siano
assicurati i presupposti per vigilare sull'attuazione del piano di risanamento
produttivo, dovrebbe trovarsi nel temporaneo obbligo dell'impresa a
specifici adempimenti".
Nelle società consortili Baffi individuò peraltro solo
uno strumento, non la soluzione di generale validità. E' nel
metodo, invece, che scrisse il codice di comportamento della banca e
dell'impresa, individuandone le relative competenze nella visione d'insieme
del sistema economico: "non sta alle banche risolvere i problemi
industriali, come non sta alla Banca d'Italia effettuare una politica
industriale, ma sta alle banche essere di stimolo alla soluzione di
quei problemi e contribuire alla definizione dei loro aspetti finanziari,
come sta alla Banca centrale favorire siffatte azioni, lasciando ai
singoli operatori la responsabilità delle scelte, e al tempo
stesso evitare che il maggior impegno che ne deriva alle banche possa
eccedere i necessari limiti di prudenza".
La storia recente risente profondamente di tale dibattito. In una fase
di crescente disintermediazione bancaria e di accentuata concorrenza
da parte di nuovi intermediari, l'Organo di Vigilanza assecondò
negli anni Ottanta la tendenza delle aziende di credito ad ampliare
la gamma dei servizi offerti alla clientela, ponendo peraltro particolare
attenzione sui possibili rischi di instabilità derivanti alle
istituzioni creditizie dall'espansione della struttura partecipativa.
L'ingresso degli enti creditizi fu infatti dapprima consentito - con
la delibera CICR del 1981 - nei settori del leasing e del factoring,
che presentavano caratteristiche di affinità alla tradizionale
attività bancaria.
Negli anni successivi sono stati realizzati continui adattamenti della
normativa emanata nel 1981, riconoscendo alle banche la possibilità
di entrare in nuovi settori operativi, sviluppando le attività
c.d. "parabancarie".
La tendenza è sintetizzata dal Governatore Ciampi nella Relazione
del 1991: "nella realtà italiana, la parte preponderante
delle attività finanziarie è intermediata direttamente
o indirettamente dalle banche. Il contributo che da esse si attende,
per irrobustire il mercato azionario, consiste nel dare maggior peso
al rafforzamento patrimoniale delle imprese nel vaglio delle richieste
di credito, nel sostenere le imprese stesse, specie quelle medie e piccole
attraverso attività di merchant banking".
Come annunciato dal Governatore Fazio nella Relazione sul 1992, lo spazio
per l'assistenza finanziaria è stato ora ampliato, con il recepimento
della normativa comunitaria e con l'obiettivo di favorire la crescita
del mercato dei capitali privato, consentendo alle banche l'acquisizione
diretta di quote di capitale di imprese non finanziarie.
Gli istituti di credito possono intraprendere il difficile compito di
entrare nel capitale delle società industriali, dove peraltro
non sempre sono di oggettiva determinazione le prospettive di effettiva
redditività prospettica, condizione, come si vedrà, ritenuta
di norma pregiudiziale per l'Organo di Vigilanza. Prima di interrogarsi
su eventuali elementi di criticità che possono derivare dal diverso
ruolo che le banche sono destinate ad assumere nell'economia italiana,
sembra pertanto opportuno sintetizzare i termini della nuova normativa
emanata dalla Banca centrale.
2. L'evoluzione
nella normativa di Vigilanza.
All'avvio del mercato unico europeo, l'armonizzazione comunitaria
si è arricchita di nuove norme e di nuovi strumenti di vigilanza
prudenziale.
Il d. lgs. 14 dicembre 1992 n. 481 ha dato attuazione in Italia alla
seconda direttiva CEE di coordinamento bancario, che si pone l'obiettivo
della tendenziale convergenza degli ordinamenti, al fine di promuovere
condizioni di parità concorrenziale per gli enti creditizi
che operano nel mercato unico.
Il testo unico, elaborato in attuazione della delega contenuta nella
legge comunitaria per il 1991, ha poi portato a compimento il complessivo
riordino della disciplina del settore del credito.
All'interno del nuovo quadro normativo, la disciplina sulle partecipazioni
delle banche prevede, tra l'altro (si approfondisce in questa sede
solo il primo dei due insiemi - partecipazioni in imprese non finanziarie
e partecipazioni in banche, società finanziarie e strumentali,
e in imprese di assicurazione - nei quali si suddivide la disciplina
delle partecipazioni delle banche), la possibilità di acquisire
interessenze in imprese industriali nel rispetto di tre ordini di
limiti quantitativi, il limite complessivo, quello di concentrazione
e quello di separatezza:
- nel loro complesso, le partecipazioni non finanziarie non possono
superare il 15% del patrimonio di vigilanza della banca;
- per contenere la concentrazione del rischio, la singola partecipazione
non può superare il 3% del cennato patrimonio;
- a tutela della "separatezza" tra banca e industria, gli
investimenti in società non finanziarie non possono superare
il 15% del capitale della società partecipata (2).
La normativa disciplina in via normale l'ipotesi fisiologica della
partecipazione dettata dal ritorno economico, al netto del rischio
assunto; il banchiere seleziona le imprese in base alla loro capacità
imprenditoriale e sceglie tra queste le più meritevoli.
Attengono invece alla patologia del rapporto banca-impresa sia la
conversione di crediti in partecipazioni sia la sottoscrizione di
azioni nei confronti di imprese in difficoltà finanziaria:
in questi casi la convenienza economica deve essere legata all'esistenza
di ragionevoli prospettive di riequilibrio di medio periodo. L'accertamento
della temporaneità della crisi deve avvenire nell'ambito di
una procedura delineata nelle istruzioni di vigilanza, volta a far
emergere i punti di criticità e le possibili soluzioni alle
difficoltà dell'impresa affidata. Così dovranno essere
subordinate al requisito della temporaneità le partecipazioni
acquisite per recupero crediti, da smobilizzare alla prima favorevole
occasione. Sull'assunto che lo sviluppo dell'economia, il pieno impiego
delle risorse umane e materiali riposano anche sull'operatività
di mercati dei capitali efficienti, a servizio della finanza d'impresa,
la Banca d'Italia ha così dato attuazione alle deliberazioni
del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio e del
Ministro del Tesoro in materia di partecipazioni, completando la gamma
delle funzioni che le banche possono svolgere nella finanza di impresa.
L'assunzione di partecipazioni nel comparto delle imprese non finanziarie
è quindi da considerare una facoltà - e non un obbligo
- data alle banche che possono arricchire la gamma degli strumenti
di finanziamento dell'impresa. Per società con buone prospettive
economiche e di sviluppo si apre una nuova opportunità di rafforzamento
patrimoniale e di affermazione nel mercato mobiliare.
3. Una possibile
lettura critica.
L'analisi costi-benefici dell'istituto delle partecipazioni induce
a valutare positivamente la disponibilità di un ulteriore strumento
di finanziamento per le imprese industriali.
Per le banche si pone un obiettivo a monte rispetto a quello di una
presenza diretta nell'impresa; il perseguimento di tale obiettivo
richiede un'azione volta a promuovere la crescita dell'industria attraverso
lo sviluppo di servizi e attività di consulenza oltre che di
finanziamento.
Limitando l'analisi ai possibili ritorni per le banche, punti di criticità
nella "equazione di convenienza" sono individuabili sotto
la duplice combinazione rischio-rendimento e rischio-controllo. Sotto
il primo profilo, una combinazione di rango inferiore rispetto alle
altre forme tipiche di finanziamento conseguirebbe a due ordini di
fattori:
1. il rimborso dei diritti patrimoniali avviene in via residuale rispetto
ai creditori ordinari, per cui la posizione di creditore sarebbe preferibile
a quella di azionista;
2. le fluttuazioni cui è esposto il valore delle azioni dell'impresa
potrebbero determinare un minor rendimento della partecipazione in
rapporto a quello del prestito.
Quanto al secondo aspetto, la Vigilanza invita le banche a dotarsi
di strutture e procedure "interne" idonee a presidiare adeguatamente
i rischi insiti in tale forma di finanza di impresa. A tale proposito
mi sembrano rilevanti due ordini di osservazioni:
1. la tutela giuridica dell'azionista contro il rischio della partecipazione
appare particolarmente inadeguata nell'ipotesi di socio bancario,
protetto, in quanto minoritario, da eventuali irregolarità
degli amministratori, ma non dalla loro incompetenza strategico-imprenditoriale-gestionale
(Motti-ira P., Il rischio resta sotto controllo solo col banchiere
nel consiglio, Il Sole 24-Ore, 28 luglio 1993, p. 20);
2. l'efficacia degli strumenti per il controllo della partecipazione
dipende dalla possibilità di influire sui processi decisionali
e gestionali che determinano livello e variabilità dei rischi
di impresa; l'ingresso del banchiere-investitore nel consiglio di
amministrazione dell'impresa partecipata consegue ovviamente alla
dimensione della partecipazione ed appare soluzione "esterna"
più idonea di eventuali interventi "interni" all'ente
creditizio.
Le osservazioni formulate indurrebbero a ritenere conveniente la soluzione
del "banchiere-amministratore", che postula la significatività
dell'interessenza per garantire il livello di efficacia del controllo
e quindi conseguire una accettabile combinazione rischio-rendimento.
Quando all'attività di finanziamento si associa lo sviluppo
di servizi e la consulenza finanziaria fino ad arrivare alla partecipazione
nel capitale ed alla presenza nel consiglio di amministrazione dell'impresa
affidata, si impone comunque Una riconsiderazione del ruolo della
banca nei confronti dell'impresa ed una valutazione delle implicazioni
che ne derivano negli assetti proprietari e funzionali.
La soluzione del "banchiere nel consiglio" presuppone infatti
una sostanziale modifica nello stato presente delle relazioni banca-impresa,
che devono evolvere da un modello dialettico, concorrenziale e talora
conflittuale, nel quale la banca si pone quale giudice possibilmente
imparziale del merito di fido, verso un modello collaborativo, fortemente
orientato al servizio dell'impresa, nel quale l'ente creditizio si
avvicina al ruolo di "banca di famiglia".
In presenza di una crescita sostenuta dell'impresa o di rilevanti
condizionamenti di natura finanziaria, è inoltre plausibile
che si modifichino le capacità direzionali richieste per la
sua gestione: se l'allocazione del controllo risulta inefficiente,
si pone per l'impresa il problema del ricambio del "cavaliere"
e per la banca l'opportunità di un ruolo più attivo
(Barca E-Ferri G., Temi di discussione n. 203, Banca d'Italia, 1993,
pp- 10-12).
Quale che sia la tesi prescelta, mi sembra di poter sostenere che
non si può stabilire a priori se il banchiere sia soggetto
più adatto ad effettuare le scelte imprenditoriali; se infatti
non sempre le imprese sono in mano agli imprenditori "giusti"
occorre del pari chiedersi se lo siano i banchieri.
Nei casi di riallocazione del controllo a favore della banca si dovrà
dunque verificare in concreto, "sul campo", la idoneità
del banchiere ad esercitare appropriatamente la funzione di amministratore,
la sua capacità nel sollecitare e promuovere la crescita dell'impresa
partecipata.
4. Una sintesi
e una proposta.
In presenza di un cambio stabile, almeno fino a settembre 1992, l'aumento
dei costi unitari variabili ha determinato la flessione dei margini
di profitto e quindi del contributo derivante dall'autofinanziamento
al processo di accumulazione.
Una delle conseguenze del crescente indebitamento delle imprese -
dal 1987 le imprese industriali hanno utilizzato più intensamente
il credito degli intermediari - che ha caratterizzato l'evoluzione
recente del rapporto banca-impresa, è stata il diverso e più
importante ruolo assunto dall'aspetto finanziario del processo produttivo
all'interno della gestione dell'impresa.
Come si è detto, la situazione dei primi anni novanta ripropone,
sia pure con minor grado di criticità, i segnali di allarme
per la capacità competitiva e le prospettive di sviluppo del
sistema economico italiano (per una rassegna della letteratura recente
si rinvia a Barca F., Temi di discussione n. 194, Banca d'Italia,
1993, p. 7 e ss.) che già si erano manifestati verso la metà
degli anni Settanta. In particolare dal 1976, essenzialmente per la
crescita non proporzionale dei costi e dei prezzi, diminuirono i profitti
e quindi la fonte principale di autofinanziamento, per cui l'espansione
degli investimenti richiese in misura crescente il sostegno di finanziamenti
esterni, soprattutto del credito bancario, data la modestia in Italia
dei mercati azionario e obbligazionario.
I problemi dell'oggi hanno dunque radici lontane nei limiti, mai del
tutto superati, del risanamento dell'impresa.
In prospettiva, perché il crescente contributo dell'indebitamento
non determini un ulteriore deterioramento nella struttura finanziaria
dell'impresa, dovrà crescere l'apporto del mercato azionario.
Ciò sarà particolarmente vero per le piccole e medie
imprese, che non hanno partecipato negli anni ottanta alla ripresa
della raccolta di capitale di rischio ed hanno registrato uno sviluppo
troppo spesso legato al patrimonio personale dei proprietari.
Mercati locali dei capitali efficienti possono svolgere un ruolo importante
nel dischiudere una via preziosa per l'alimentazione del capitale
di rischio soprattutto per le imprese di dimensioni minori. In particolare,
l'ingresso delle banche nel capitale delle imprese potrebbe determinare,
oltre ad un maggiore equilibrio tra indebitamento e mezzi propri,
un atteggiamento imprenditoriale nuovo, tendente a massimizzare il
profitto d'impresa, al di là del ritorno economico necessario
per servire il debito. D'altro canto, occorre controllare il rischio
di un eccessivo dirigismo finanziario derivante dall'elevato livello
di partecipazione della banca nell'industria, verificando che la finanza
svolga la funzione propria di mezzo di promozione della produzione
"sana".
NOTE
1) In questo lavoro si limita l'analisi alle partecipazioni delle
banche (aggiornamento del 23 giugno 1993 alla circolare n. 4 del 29
marzo 1988) e non si esamina la materia delle partecipazioni al capitale
delle banche (aggiornamento del 16 agosto 1993 alla citata circolare).
2) Tali limiti sono elevabili per le banche "abilitate"
e "specializzate" (v. Istruzioni di Vigilanza).
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