§ Dibattiti aperti

Il principio di "separatezza" nel rapporto banca-impresa




Pietro Sambati



1. Il riequilibrio della struttura finanziaria delle imprese.
Il dibattito sul rapporto banca-impresa oscilla periodicamente - a cicli grosso modo decennali - tra i due estremi della partecipazione delle banche al capitale delle imprese e, viceversa, di quella delle imprese nel capitale delle banche. Il ruolo attivo viene assunto da chi, pro-tempore, presenta il bilancio più florido.
I risultati delle banche risultano spesso sfalsati rispetto a quelli delle imprese: sono pingui in virtù di tassi più elevati proprio nei periodi di avversa congiuntura per le imprese. Così negli anni Settanta la situazione manifestava analogie con quella dei primi anni Novanta: l'impresa, fortemente indebitata nei confronti della banca, vedeva in questa un possibile partecipante al capitale. La situazione appare speculare a quella vissuta nella seconda metà degli anni Ottanta, allorché la favorevole situazione economica e finanziaria dell'impresa postulava una possibile partecipazione di questa al capitale della banca (1).
Un passaggio importante nel dibattito in corso sul problema del riequilibrio della struttura finanziaria delle imprese è rinvenibile a mio avviso in un saggio, che risale al 1968, dell'economista belga Alexandre Lamfalussy. Il lavoro, Les marchés financiers en Europe, evidenziava - allora come ora - la debolezza dei bilanci delle imprese, conseguenza della loro relativamente ridotta capacità di autofinanziamento e, data la crescente preferenza delle famiglie per forme di investimento diverse dalle azioni, l'impossibilità per le imprese di finanziarsi nella misura necessaria tramite emissioni azionarie. Rimaneva l'indebitamento.
Aggiungeva Lamfalussy: poiché le banche "sono reticenti a concedere prestiti a termine quando i fondi propri risultano insufficienti", "se si vuole evitare una brusca frenata degli investimenti delle imprese europee, occorre suscitare una sostanziale corrente di acquisti delle loro azioni".
Considerando non modificabile in tempo utile il sistema di preferenza delle famiglie, si poneva quale problema centrale la trasformazione dei prestiti bancari in capitale di rischio. Lamfalussy propose la creazione di società di investimento a capitale fisso, o a capitale periodicamente variabile, le cui risorse fossero fornite dalle banche, dalle casse di risparmio ed eventualmente dagli istituti di credito specializzati.
Tali società avrebbero dovuto costituire un'entità giuridica, contabile e direzionale completamente distinta dagli intermediari finanziari proprietari e fornitori delle risorse. Ciò per realizzare "uno schermo tra gli uomini responsabili della gestione di un portafoglio di azioni e i dirigenti degli intermediari finanziari", garantendo così ai primi una reale autonomia operativa.
Lamfalussy si pose dunque il problema del passivo delle imprese, ma del pari quello dell'attivo delle banche, in particolare del rischio derivante da un grado eccessivo di immobilizzo, riaffermando con forza il principio della "separatezza" nelle relazioni banca-industria, che già nel nostro Paese era a fondamento della legislazione bancaria degli anni Trenta.
Il lavoro dei Lamfalussy ha suscitato anche in Italia un dibattito fecondo di contributi e proposte. Due interventi, in particolare, hanno espresso la contrapposizione tra due diverse "filosofie" del rapporto banca-impresa e ancora oggi riassumono bene i "poli" del dibattito.
Provengono entrambi dal vertice della Banca centrale: il primo è di Carli, il secondo di Baffi. Nelle "Considerazioni finali" del 1975, l'allora Governatore della Banca d'Italia, Guido Carli, lanciò la proposta, considerata provocatoria, di convertire una parte dei crediti vantati dal sistema bancario verso le imprese industriali in "quote di capitale (di rischio) attraverso la intermediazione degli istituti speciali di credito". Carli invitò in sostanza a prendere atto del dato di fatto esistente, accettando che all'entità del rischio di impresa sopportato dagli intermediari corrispondesse una loro maggiore corresponsabilizzazione nella gestione: se la banca entra nella direzione dell'azienda, può accrescere la efficacia dell'azione di gestione e di controllo del rischio.
Sul fronte opposto, aderenti allo spirito della proposta Lamfalussy, le Considerazioni finali del 1977 e del 1978 del Governatore Paolo Baffi consideravano la banca quale giudice esterno dell'azienda. Baffi propose di mantenere il principio della separatezza fra Banca e Industria: non confondere i ruoli consentirebbe inoltre di identificare i diversi interessi di cui sono rispettivamente portatrici.
Di conseguenza, "l'intervento degli istituti di credito speciale e delle aziende di credito dovrebbe avvenire in forme che pongano comunque un diaframma tra la gestione degli intermediari creditizi e quella delle imprese produttive, evitando rapporti diretti tra singole imprese e singoli istituti; per questi ultimi, dovranno valere il limite dei mezzi propri nell'acquisizione complessiva dei capitali azionari e i limiti alla concentrazione dei rischi".
Vi era dunque perfetta continuità tra la lezione di Lamfalussy ed il pensiero di Baffi: invece che di schermo, si parlava di "diaframma", ma la sostanza era la stessa.
Passando alle proposte operative, Baffi suggerì la costituzione di consorzi, anche sotto forma societaria, per la sottoscrizione delle azioni delle imprese destinatarie del capitale di rischio. La proposta si concretizzò nella legge n. 787 del 5.12.1978, che consentì appunto la costituzione di società consortili per il finanziamento delle imprese in crisi, schermo tra la banca e l'impresa. Come è stato di recente osservato, il limite principale della legge 787 fu di essere stata concepita come provvedimento straordinario non inserito nell'ambito di strumenti permanenti di risanamento e riallocazione di aziende in crisi (Boccuzzi G.-Cercone R., Temi di discussione n. 204, Banca d'Italia 1993, pp. 75-76). Quale ne fosse la forma, Baffi riteneva indispensabile che gli interventi fossero temporanei, volontari e condizionati; ciò "per la stabilità del sistema creditizio che è necessaria alla stabilità finanziaria del sistema delle imprese. La condizionalità è anche il presupposto di una corretta individuazione delle imprese nei confronti delle quali gli interventi avverrebbero: una garanzia che questi siano limitati ai casi nei quali a un tempo sussistono l'effettivo stato di bisogno e siano assicurati i presupposti per vigilare sull'attuazione del piano di risanamento produttivo, dovrebbe trovarsi nel temporaneo obbligo dell'impresa a specifici adempimenti".
Nelle società consortili Baffi individuò peraltro solo uno strumento, non la soluzione di generale validità. E' nel metodo, invece, che scrisse il codice di comportamento della banca e dell'impresa, individuandone le relative competenze nella visione d'insieme del sistema economico: "non sta alle banche risolvere i problemi industriali, come non sta alla Banca d'Italia effettuare una politica industriale, ma sta alle banche essere di stimolo alla soluzione di quei problemi e contribuire alla definizione dei loro aspetti finanziari, come sta alla Banca centrale favorire siffatte azioni, lasciando ai singoli operatori la responsabilità delle scelte, e al tempo stesso evitare che il maggior impegno che ne deriva alle banche possa eccedere i necessari limiti di prudenza".
La storia recente risente profondamente di tale dibattito. In una fase di crescente disintermediazione bancaria e di accentuata concorrenza da parte di nuovi intermediari, l'Organo di Vigilanza assecondò negli anni Ottanta la tendenza delle aziende di credito ad ampliare la gamma dei servizi offerti alla clientela, ponendo peraltro particolare attenzione sui possibili rischi di instabilità derivanti alle istituzioni creditizie dall'espansione della struttura partecipativa.
L'ingresso degli enti creditizi fu infatti dapprima consentito - con la delibera CICR del 1981 - nei settori del leasing e del factoring, che presentavano caratteristiche di affinità alla tradizionale attività bancaria.
Negli anni successivi sono stati realizzati continui adattamenti della normativa emanata nel 1981, riconoscendo alle banche la possibilità di entrare in nuovi settori operativi, sviluppando le attività c.d. "parabancarie".
La tendenza è sintetizzata dal Governatore Ciampi nella Relazione del 1991: "nella realtà italiana, la parte preponderante delle attività finanziarie è intermediata direttamente o indirettamente dalle banche. Il contributo che da esse si attende, per irrobustire il mercato azionario, consiste nel dare maggior peso al rafforzamento patrimoniale delle imprese nel vaglio delle richieste di credito, nel sostenere le imprese stesse, specie quelle medie e piccole attraverso attività di merchant banking".
Come annunciato dal Governatore Fazio nella Relazione sul 1992, lo spazio per l'assistenza finanziaria è stato ora ampliato, con il recepimento della normativa comunitaria e con l'obiettivo di favorire la crescita del mercato dei capitali privato, consentendo alle banche l'acquisizione diretta di quote di capitale di imprese non finanziarie.
Gli istituti di credito possono intraprendere il difficile compito di entrare nel capitale delle società industriali, dove peraltro non sempre sono di oggettiva determinazione le prospettive di effettiva redditività prospettica, condizione, come si vedrà, ritenuta di norma pregiudiziale per l'Organo di Vigilanza. Prima di interrogarsi su eventuali elementi di criticità che possono derivare dal diverso ruolo che le banche sono destinate ad assumere nell'economia italiana, sembra pertanto opportuno sintetizzare i termini della nuova normativa emanata dalla Banca centrale.

2. L'evoluzione nella normativa di Vigilanza.
All'avvio del mercato unico europeo, l'armonizzazione comunitaria si è arricchita di nuove norme e di nuovi strumenti di vigilanza prudenziale.
Il d. lgs. 14 dicembre 1992 n. 481 ha dato attuazione in Italia alla seconda direttiva CEE di coordinamento bancario, che si pone l'obiettivo della tendenziale convergenza degli ordinamenti, al fine di promuovere condizioni di parità concorrenziale per gli enti creditizi che operano nel mercato unico.
Il testo unico, elaborato in attuazione della delega contenuta nella legge comunitaria per il 1991, ha poi portato a compimento il complessivo riordino della disciplina del settore del credito.
All'interno del nuovo quadro normativo, la disciplina sulle partecipazioni delle banche prevede, tra l'altro (si approfondisce in questa sede solo il primo dei due insiemi - partecipazioni in imprese non finanziarie e partecipazioni in banche, società finanziarie e strumentali, e in imprese di assicurazione - nei quali si suddivide la disciplina delle partecipazioni delle banche), la possibilità di acquisire interessenze in imprese industriali nel rispetto di tre ordini di limiti quantitativi, il limite complessivo, quello di concentrazione e quello di separatezza:
- nel loro complesso, le partecipazioni non finanziarie non possono superare il 15% del patrimonio di vigilanza della banca;
- per contenere la concentrazione del rischio, la singola partecipazione non può superare il 3% del cennato patrimonio;
- a tutela della "separatezza" tra banca e industria, gli investimenti in società non finanziarie non possono superare il 15% del capitale della società partecipata (2).
La normativa disciplina in via normale l'ipotesi fisiologica della partecipazione dettata dal ritorno economico, al netto del rischio assunto; il banchiere seleziona le imprese in base alla loro capacità imprenditoriale e sceglie tra queste le più meritevoli.
Attengono invece alla patologia del rapporto banca-impresa sia la conversione di crediti in partecipazioni sia la sottoscrizione di azioni nei confronti di imprese in difficoltà finanziaria: in questi casi la convenienza economica deve essere legata all'esistenza di ragionevoli prospettive di riequilibrio di medio periodo. L'accertamento della temporaneità della crisi deve avvenire nell'ambito di una procedura delineata nelle istruzioni di vigilanza, volta a far emergere i punti di criticità e le possibili soluzioni alle difficoltà dell'impresa affidata. Così dovranno essere subordinate al requisito della temporaneità le partecipazioni acquisite per recupero crediti, da smobilizzare alla prima favorevole occasione. Sull'assunto che lo sviluppo dell'economia, il pieno impiego delle risorse umane e materiali riposano anche sull'operatività di mercati dei capitali efficienti, a servizio della finanza d'impresa, la Banca d'Italia ha così dato attuazione alle deliberazioni del Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio e del Ministro del Tesoro in materia di partecipazioni, completando la gamma delle funzioni che le banche possono svolgere nella finanza di impresa.
L'assunzione di partecipazioni nel comparto delle imprese non finanziarie è quindi da considerare una facoltà - e non un obbligo - data alle banche che possono arricchire la gamma degli strumenti di finanziamento dell'impresa. Per società con buone prospettive economiche e di sviluppo si apre una nuova opportunità di rafforzamento patrimoniale e di affermazione nel mercato mobiliare.

3. Una possibile lettura critica.
L'analisi costi-benefici dell'istituto delle partecipazioni induce a valutare positivamente la disponibilità di un ulteriore strumento di finanziamento per le imprese industriali.
Per le banche si pone un obiettivo a monte rispetto a quello di una presenza diretta nell'impresa; il perseguimento di tale obiettivo richiede un'azione volta a promuovere la crescita dell'industria attraverso lo sviluppo di servizi e attività di consulenza oltre che di finanziamento.
Limitando l'analisi ai possibili ritorni per le banche, punti di criticità nella "equazione di convenienza" sono individuabili sotto la duplice combinazione rischio-rendimento e rischio-controllo. Sotto il primo profilo, una combinazione di rango inferiore rispetto alle altre forme tipiche di finanziamento conseguirebbe a due ordini di fattori:
1. il rimborso dei diritti patrimoniali avviene in via residuale rispetto ai creditori ordinari, per cui la posizione di creditore sarebbe preferibile a quella di azionista;
2. le fluttuazioni cui è esposto il valore delle azioni dell'impresa potrebbero determinare un minor rendimento della partecipazione in rapporto a quello del prestito.
Quanto al secondo aspetto, la Vigilanza invita le banche a dotarsi di strutture e procedure "interne" idonee a presidiare adeguatamente i rischi insiti in tale forma di finanza di impresa. A tale proposito mi sembrano rilevanti due ordini di osservazioni:
1. la tutela giuridica dell'azionista contro il rischio della partecipazione appare particolarmente inadeguata nell'ipotesi di socio bancario, protetto, in quanto minoritario, da eventuali irregolarità degli amministratori, ma non dalla loro incompetenza strategico-imprenditoriale-gestionale (Motti-ira P., Il rischio resta sotto controllo solo col banchiere nel consiglio, Il Sole 24-Ore, 28 luglio 1993, p. 20);
2. l'efficacia degli strumenti per il controllo della partecipazione dipende dalla possibilità di influire sui processi decisionali e gestionali che determinano livello e variabilità dei rischi di impresa; l'ingresso del banchiere-investitore nel consiglio di amministrazione dell'impresa partecipata consegue ovviamente alla dimensione della partecipazione ed appare soluzione "esterna" più idonea di eventuali interventi "interni" all'ente creditizio.
Le osservazioni formulate indurrebbero a ritenere conveniente la soluzione del "banchiere-amministratore", che postula la significatività dell'interessenza per garantire il livello di efficacia del controllo e quindi conseguire una accettabile combinazione rischio-rendimento.
Quando all'attività di finanziamento si associa lo sviluppo di servizi e la consulenza finanziaria fino ad arrivare alla partecipazione nel capitale ed alla presenza nel consiglio di amministrazione dell'impresa affidata, si impone comunque Una riconsiderazione del ruolo della banca nei confronti dell'impresa ed una valutazione delle implicazioni che ne derivano negli assetti proprietari e funzionali.
La soluzione del "banchiere nel consiglio" presuppone infatti una sostanziale modifica nello stato presente delle relazioni banca-impresa, che devono evolvere da un modello dialettico, concorrenziale e talora conflittuale, nel quale la banca si pone quale giudice possibilmente imparziale del merito di fido, verso un modello collaborativo, fortemente orientato al servizio dell'impresa, nel quale l'ente creditizio si avvicina al ruolo di "banca di famiglia".
In presenza di una crescita sostenuta dell'impresa o di rilevanti condizionamenti di natura finanziaria, è inoltre plausibile che si modifichino le capacità direzionali richieste per la sua gestione: se l'allocazione del controllo risulta inefficiente, si pone per l'impresa il problema del ricambio del "cavaliere" e per la banca l'opportunità di un ruolo più attivo (Barca E-Ferri G., Temi di discussione n. 203, Banca d'Italia, 1993, pp- 10-12).
Quale che sia la tesi prescelta, mi sembra di poter sostenere che non si può stabilire a priori se il banchiere sia soggetto più adatto ad effettuare le scelte imprenditoriali; se infatti non sempre le imprese sono in mano agli imprenditori "giusti" occorre del pari chiedersi se lo siano i banchieri.
Nei casi di riallocazione del controllo a favore della banca si dovrà dunque verificare in concreto, "sul campo", la idoneità del banchiere ad esercitare appropriatamente la funzione di amministratore, la sua capacità nel sollecitare e promuovere la crescita dell'impresa partecipata.

4. Una sintesi e una proposta.
In presenza di un cambio stabile, almeno fino a settembre 1992, l'aumento dei costi unitari variabili ha determinato la flessione dei margini di profitto e quindi del contributo derivante dall'autofinanziamento al processo di accumulazione.
Una delle conseguenze del crescente indebitamento delle imprese - dal 1987 le imprese industriali hanno utilizzato più intensamente il credito degli intermediari - che ha caratterizzato l'evoluzione recente del rapporto banca-impresa, è stata il diverso e più importante ruolo assunto dall'aspetto finanziario del processo produttivo all'interno della gestione dell'impresa.
Come si è detto, la situazione dei primi anni novanta ripropone, sia pure con minor grado di criticità, i segnali di allarme per la capacità competitiva e le prospettive di sviluppo del sistema economico italiano (per una rassegna della letteratura recente si rinvia a Barca F., Temi di discussione n. 194, Banca d'Italia, 1993, p. 7 e ss.) che già si erano manifestati verso la metà degli anni Settanta. In particolare dal 1976, essenzialmente per la crescita non proporzionale dei costi e dei prezzi, diminuirono i profitti e quindi la fonte principale di autofinanziamento, per cui l'espansione degli investimenti richiese in misura crescente il sostegno di finanziamenti esterni, soprattutto del credito bancario, data la modestia in Italia dei mercati azionario e obbligazionario.
I problemi dell'oggi hanno dunque radici lontane nei limiti, mai del tutto superati, del risanamento dell'impresa.
In prospettiva, perché il crescente contributo dell'indebitamento non determini un ulteriore deterioramento nella struttura finanziaria dell'impresa, dovrà crescere l'apporto del mercato azionario. Ciò sarà particolarmente vero per le piccole e medie imprese, che non hanno partecipato negli anni ottanta alla ripresa della raccolta di capitale di rischio ed hanno registrato uno sviluppo troppo spesso legato al patrimonio personale dei proprietari.
Mercati locali dei capitali efficienti possono svolgere un ruolo importante nel dischiudere una via preziosa per l'alimentazione del capitale di rischio soprattutto per le imprese di dimensioni minori. In particolare, l'ingresso delle banche nel capitale delle imprese potrebbe determinare, oltre ad un maggiore equilibrio tra indebitamento e mezzi propri, un atteggiamento imprenditoriale nuovo, tendente a massimizzare il profitto d'impresa, al di là del ritorno economico necessario per servire il debito. D'altro canto, occorre controllare il rischio di un eccessivo dirigismo finanziario derivante dall'elevato livello di partecipazione della banca nell'industria, verificando che la finanza svolga la funzione propria di mezzo di promozione della produzione "sana".


NOTE
1) In questo lavoro si limita l'analisi alle partecipazioni delle banche (aggiornamento del 23 giugno 1993 alla circolare n. 4 del 29 marzo 1988) e non si esamina la materia delle partecipazioni al capitale delle banche (aggiornamento del 16 agosto 1993 alla citata circolare).
2) Tali limiti sono elevabili per le banche "abilitate" e "specializzate" (v. Istruzioni di Vigilanza).


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