§ Contro le tentazioni dirigistiche

Recessione per la ripresa




Innocenzo Cipolletta



Che l'Italia fosse in recessione da oltre due anni lo sapevano tutti coloro che non hanno voluto coprirsi gli occhi per ragioni personali o di schieramento politico. Perché allora tanto clamore e tanta meraviglia, se costatiamo che la recessione prolungata sta distruggendo posti di lavoro e sta rendendo più difficile l'accesso all'occupazione dei giovani?
Certo, la lettura di cifre e la drammatizzazione di alcuni istituti di ricerca possono aver convertito anche i più votati all'ottimismo a oltranza, ma la resipiscenza tardiva può essere tanto dannosa quanto la cecità stolida del passato.
In effetti l'Italia sta provando nel 1993 una seconda recessione, dopo la prima verificatasi nel 1991 e che sembrava terminare nel corso del 1992. Le due recessioni sono del tutto diverse. La prima è stata una recessione subìta dalla nostra economia per errori di politica economica: tale recessione non è stata accompagnata da alcun riequilibrio del sistema economico, anzi è stata caratterizzata da un aumento del processo inflazionistico e da squilibri nei conti con l'estero. Quella recessione trovò le sue origini in una politica di cambio stabile accompagnata da interventi inflazionistici: sono da ricordare le pressioni del ministro del Lavoro di allora per chiudere contratti del lavoro con incrementi assurdamente elevati (nelle banche, nel settore industriale, ecc.); gli aumenti di stipendio concessi agli statali, dalla scuola alla sanità, al pubblico impiego; gli aumenti fiscali a pioggia per coprire una spesa pubblica crescente.
Le imprese, strette tra un cambio stabile e un'inflazione interna crescente, cominciarono a perdere quote di mercato all'interno e all'estero, contrassero gli investimenti, chiusero molte unità produttive e trasferirono all'estero talune capacità produttive. L'Italia subì una recessione annunciata, ma senza il beneficio che deriva da una recessione: quello di una riduzione dell'inflazione e di un miglioramento nei conti con l'estero.
La seconda recessione - quella attuale - è invece in qualche misura una recessione voluta; ossia una recessione che deriva da un processo di aggiustamento il cui prezzo si paga anche, nel breve termine, sotto forma di minore domanda interna e di minor reddito e occupazione. Il blocco degli stipendi nel pubblico impiego, la riforma delle pensioni e della sanità, i primi timidi processi di privatizzazione, assieme al consolidamento della pressione fiscale, hanno arginato la crescita del disavanzo pubblico, riducendo le risorse della domanda interna. La fine della scala mobile e l'accordo del luglio '92 hanno fermato la spirale inflazionistica. La svalutazione della lira ha contribuito a ridurre la domanda interna, mentre ha aperto spazio alle esportazioni. In definitiva, la recessione attuale, pur nei suoi connotati negativi, sarà accompagnata da un processo di riequilibrio (meno inflazione, miglioramento nei conti con l'estero e - forse - contenimento del disavanzo pubblico) che la rende affatto diversa da quella del '91. Una recessione che contiene in sé anche i germi di una ripresa, ravvisabili nella capacità di crescita delle esportazioni e nella minore spinta inflattiva che non vanificherà, come nel passato, i miglioramenti di competitività acquisiti in questi tempi.
In queste condizioni, se non si tiene a mente una corretta analisi della congiuntura, il legittimo allarme sulle condizioni dell'occupazione rischia di condurre a risultati dannosi. Tale allarme deve condurre alla condanna delle disastrose politiche che avevano provocato la prima recessione e non deve costituire l'alibi con cui qualcuno può pensare di interrompere l'attuale processo di aggiustamento.
Chi condivide questa analisi deve guardare con un certo sospetto gli allarmismi avanzati da quanti sono stati i detrattori della manovra di aggiustamento, quelli che pretendono di giustificare il disagio occupazionale di oggi con il fallimento delle misure adottate nell'autunno del '92 - quasi ci possa essere un legame che la stessa breve distanza temporale nega all'evidenza del buon senso - e che sostengono una politica di sacrifici fatta da prestiti forzosi e dirigismi di antica maniera. La credibilità del Paese e le uscite valutarie dell'estate '92 sono in larga parte da ascrivere ai velleitari interventi dirigistici del luglio '92: dal proclama sull'Efim, che è costato la credibilità internazionale del debito italiano, alla sciocca patrimoniale sui conti correnti (sei per mille) che ha fatto fuggire all'estero anche i pigri depositanti italiani, contribuendo perciò alla perdita delle riserve valutarie e alla svalutazione della lira.
Il giusto allarme sull'occupazione non deve essere la scusa per rinunciare all'aggiustamento dell'economia. La cura per l'occupazione è fatta da una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, da una spesa pubblica limitata, ma produttivamente efficiente, da alcuni ammortizzatori sociali volti a proteggere momentaneamente i redditi personali (non a creare posti di lavoro artificiali o a mantenere in vita quelli oggi non più validi), e soprattutto da un costo del denaro ben più basso di quello attuale.
Se sapremo superare questa crisi recessiva senza imboccare scorciatoie dirigistiche, allora è probabile che il nostro Paese sia in grado di crescere nel 1994 a ritmo sufficiente per ricreare condizioni di lavoro in un clima di maggiore stabilità dei prezzi.


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