§ Gli anni della grande occasione

Due consigli per l'Italia




Franco Modigliani
Premio Nobel per l'Economia



Il 1993 è stato, per l'Italia, l'anno della grande occasione. Non solo la riforma del sistema politico è venuta al pettine, ma la coincidenza di una serie di circostanze, quale si ripete raramente nella storia di un Paese, ha reso possibile cominciare a curare in un colpo solo i quattro mali cronici dell'economia: alta inflazione, forte disoccupazione, conti pubblici dissestati e squilibri nei conti con l'estero. Ciò potrà essere completato a patto che il Paese e il governo si attengano alle due prescrizioni che illustrerò.
La prima delle circostanze eccezionali è lo storico accordo salariale del luglio 1992 fra governo, imprese e sindacati. Questo ha abolito la scala mobile che già quindici anni fa, in un articolo scritto con l'attuale vicedirettore della Banca d'Italia, Tommaso Padoa-Schioppa, avevo identificato come la causa principale, insieme alle eccessive richieste salariali di un sindacato aggressivo, dell'inevitabile oscillazione del pendolo italiano fra il percorso ad alta inflazione degli anni '70 e la via disinflazionistica a bassa crescita, disoccupazione crescente e alto deficit esterno, intrapresa negli anni '80 con l'entrata nel Sistema monetario europeo, che implicava l'adozione di un cambio semifisso. Quell'accordo fissa inoltre i salari in termini nominali (concedendo Solo Un aumento dell'1%, oltre all'effetto di trascinamento dei contratti in vigore) fino alla fine di quest'anno. Tale accordo rivela la maturazione dei sindacati, rispetto ai tempi in cui consideravano il salario una "variabile indipendente" dell'economia, e una consapevolezza dell'interesse nazionale e una lungimiranza che meritano la più alta ammirazione.
La seconda e altrettanto eccezionale circostanza è rappresentata dalla libera fluttuazione della lira dopo le turbolenze sui mercati valutari del settembre '92. La sopravvalutazione della lira, generata dal cambio fisso e dal persistente differenziale d'inflazione, ha alla fine inevitabilmente condotto all'abbandono della parità fissa del cambio. Quello che è accaduto dopo dà ragione al parere espresso dal mio collega del Mit, Rudi Dornbusch. Questi sostenne, in contrasto con l'opinione prevalente, che l'Italia si era finalmente liberata dal giogo della Bundesbank e dagli alti tassi d'interesse imposti da questa e che avrebbe dovuto usare tale libertà per un taglio netto ai tassi d'interesse e una svalutazione fino al 30 per cento. L'Italia aveva bisogno di una svalutazione di queste proporzioni apparentemente enormi per riportare in equilibrio le partite correnti della bilancia dei pagamenti, ridare fiato alla crescita e alla creazione di occupazione e compensare gli effetti di contrazione determinati da una riduzione del deficit pubblico dell'ordine del 2-3% del Pil. Quel che è avvenuto, a dire il vero anche senza che le autorità lo abbiano "voluto", è press'a poco quello che Dornbusch aveva previsto: i tassi sui Bot sono scesi da oltre il 15% dell'estate '92 al 10% circa di oggi, mentre la svalutazione ha raggiunto il 30% (anche se si è leggermente ridotta di recente).
La terza circostanza favorevole è che la svalutazione è avvenuta in un momento in cui la domanda era estremamente debole, il che ha contribuito a tener bassa l'inflazione importata. Ciò è quello che chiamerei il fattore stellone d'Italia. La moderazione dell'inflazione, che è continuata a scendere fino a toccare il minimo dall'87, è naturalmente una conseguenza anche del virtuale congelamento dei salari nominali.
Si è prodotta così una ripresa trainata dalle esportazioni, con un drammatico voltafaccia dei conti con l'estero grazie ai guadagni di competitività generati dalla svalutazione e dal blocco dei salari. In base alle informazioni attualmente disponibili, prevedo che la crescita si manifesti già dal secondo semestre e che l'Italia possa godere nel 1994 di un tasso di crescita più alto di tutti gli altri Paesi europei, con l'eccezione della Gran Bretagna, altro Paese ad aver adottato un cambio fluttuante.
La nave Italia è dunque uscita dagli scogli nei quali era incappata nel settembre '92? Sfortunatamente, la risposta è no. Tutti guardano ansiosamente alla scadenza dell'accordo salariale a fine anno. A quel punto la scelta spetta ai sindacati. Possono decidere di tornare ai loro vecchi metodi e perseguire aggressivamente un recupero del potere d'acquisto dei salari perduto nel luglio '92. Il risultato sarebbe un ritorno al dilemma fra l'alta inflazione e una stretta recessiva.
L'altra possibilità è che i sindacati si rendano conto degli enormi vantaggi derivati al Paese da quell'accordo e che continuerebbero grazie alla sua estensione. Questi vantaggi includono:
1) una riduzione permanente dell'inflazione;
2) la creazione di posti di lavoro e di salari sicuri per se stessi e per le generazioni future, basati non sulla cassa integrazione, ma su un'economia sana;
3) un enorme calo nei pagamenti di interessi sul debito pubblico.
Nonostante la recente riduzione, i tassi a breve italiani restano più alti di diversi punti percentuali rispetto a quelli degli altri maggiori Paesi europei. Se i mercati fossero rassicurati sul fatto che i benefici del luglio '92 sull'inflazione e le partite correnti saranno estesi al 1994 (e con il rischio di cambio ormai fuori gioco), ci sarebbero le condizioni perché gli investitori possano avvantaggiarsi degli alti rendimenti italiani. L'afflusso di capitali, un governo più credibile (e perciò una riduzione del "rischio politico") e la tendenza al ribasso dei tassi internazionali dovrebbero contribuire alla caduta dei tassi in Italia.
L'effetto più spettacolare della discesa dei tassi si avrebbe sul bilancio. Con un debito di un milione e seicentomila miliardi di lire, una riduzione dei tassi a breve del 5% porta con sé un risparmio sugli interessi di circa 80 mila miliardi entro la fine del 1994. Nello stesso periodo, un'ulteriore riduzione del deficit pari a 50 mila miliardi potrebbe derivare da:
1) altri tagli della spesa pubblica, seguendo la linea già intrapresa nel '92-'93;
2) lotta all'evasione fiscale con una riforma della minimum tax;
3) maggiori entrate tributarie grazie alla ripresa;
4) privatizzazioni;
5) risparmi per le casse dello Stato dall'eliminazione della corruzione sui contratti pubblici.
La combinazione di queste misure ridurrebbe il deficit al 3,3% del Pil, quasi in linea con gli obiettivi di Maastricht.
La caduta dei tassi dovrebbe inoltre contribuire ad un aumento degli investimenti e, insieme al miglioramento delle partite correnti, a una espansione del reddito e dell'occupazione.
Questi sono i vantaggi che l'Italia otterrebbe da un'estensione del lungimirante accordo del luglio 1992. Ma i sindacati si chiederanno innanzi tutto cos'hanno da perdere i loro aderenti. Con i salari nominali bloccati, la sola possibile perdita per i lavoratori viene da un aumento dei prezzi. I dati disponibili per i primi nove mesi dell'accordo mostrano che la perdita del potere d'acquisto è stato un modesto 1% (i prezzi sono aumentati del 3,5%, mentre i salari dell'industria sono cresciuti del 2,3%). Quanto al futuro, anche nell'ipotesi pessimistica che l'inflazione balzi al 6% a causa della svalutazione, la perdita complessiva di potere d'acquisto non supererebbe il 2%. Si tratta di una perdita che potrebbe essere facilmente compensata con aumenti legati alla crescita della produttività. Nel 1994, poi, gli effetti della svalutazione sui prezzi saranno pressoché scomparsi.
I sindacati dovrebbero chiedere in cambio al governo mutamenti istituzionali in grado di comprimere i prezzi. Uno dei più urgenti è la deregolamentazione del settore della distribuzione, la cui inefficienza e gli alti margini di profitto hanno impedito ai lavoratori di godere pienamente dei frutti della crescita della produttività. Tale deregolamentazione andrebbe compiuta innanzi tutto con l'abolizione del sistema delle licenze. La divaricazione fra l'ammontare della bustapaga e il costo del lavoro per le imprese dovrebbe inoltre essere ridotta, trasferendo alcuni dei risparmi così ottenuti nelle tasche dei lavoratori, lasciando a loro la scelta della copertura previdenziale.
Se i sindacati si convincono a compiere la scelta razionale e ad estendere di un anno l'accordo, li sfido ad annunciarlo subito. Questo anticiperebbe e amplificherebbe i benefici dell'estensione, dando a tutti, dal governo alle imprese, un quadro di riferimento stabile su cui pianificare il futuro. Non c'è dubbio che l'impatto sull'occupazione sarebbe significativo.
Che dire del ritorno dell'Italia a un cambio fisso e al processo di unione monetaria? La risposta, e qui vengo alla seconda mia prescrizione, è la seguente: sì, a un certo punto, e alle giuste condizioni. La domanda va vista in un contesto più ampio. Qualcuno potrebbe dire che l'espansione della quale l'Italia sta godendo è semplicemente la ripetizione del vecchio gioco delle svalutazioni competitive.
Questa interpretazione è del tutto sbagliata. La verità è che, a mio parere, l'Italia si deve impegnare in una rivolta contro la politica suicida degli alti tassi da parte della Bundesbank: una sorta di Davide, armato della nuova arma di un sindacato lungimirante, contro un potente Golia. L'Italia condividerebbe volentieri la battaglia per tassi d'interesse più bassi con altri Paesi che hanno problemi simili, soprattutto in termini di alta disoccupazione, come la Spagna, l'Irlanda, il Belgio e naturalmente la Francia.
Anch'essi dovrebbero liberarsi dai ceppi della Bundesbank, lasciando fluttuare (separatamente o congiuntamente) il cambio e perseguendo una politica di tassi più bassi e possibilmente strategie fiscali più restrittive.
L'effetto di tali scelte sarebbe favorevole all'economia mondiale nel suo complesso, con una forte espansione dell'occupazione e della crescita, e quindi anche ai singoli Paesi. La sola possibile eccezione è la Germania, almeno finché anch'essa non si unisca all'Italia e alla razza umana in una politica di tassi più bassi, una possibilità della quale recentemente ha offerto qualche segnale. Una volta che la Bundesbank sarà stata convinta a correggere gli errori del passato e avrà imparato dall'esperienza i costi di trascurare tutti gli altri Paesi, lo Sme potrà rapidamente tornare a Maastricht, con nuove e più valide parità e con una più sana distribuzione di doveri e poteri.
Vorrei concludere così: questo e il prossimo saranno per l'Italia, e forse per il mondo, gli anni della grande occasione. Non lasciamola scappare.


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