§ Etnomusicologia

La tarantola nelle putterie di Spagna




Sergio Bello



Uno specifico ed affascinante settore della musicologia si occupa di quella musica che non gode dell'ampia risonanza propria invece della musica cosiddetta colta: al contrario, questa musica è spesse volte legata ad una geografia regionale, quando non addirittura subregionale. Non a caso, infatti, gli studiosi che registrano, trascrivono, catalogano ed infine studiano questa musica sono più spesso etnologi, sociologi ed antropologi che annoverano nel proprio bagaglio culturale più o meno salde conoscenze musicali, piuttosto che musicologi puri, tant'è che proprio "etnomusicologia" è detta questa branca della ricerca musicologica.
In realtà, l'accezione che si dà a questo termine è quanto mai estensiva: musica tribale, musica popolare, musica folclorica o addirittura intere culture musicali extrauropee vengono spesso mescolate nel calderone degli studi etnomusicologici. E' infatti molto più facile dire come l'etnomusicologo opera di quanto non lo sia stabilire su cosa opera. Di norma, quando si parla di etnomusicologia, si dovrebbe pensare, a stretto rigore, allo studio di qualsivoglia musica svolto in relazione al contesto socioculturale che ha generato o quanto meno accoglie nel proprio ambito la musica oggetto di studio.
Tuttavia nessuno si sognerebbe di prendere alla lettera una pur così puntuale definizione, caso contrario bisognerebbe ascrivere alla cerchia degli etnomusicologi praticamente tutti i moderni musicologi, indipendentemente dalla musica studiata, in quanto - a parte qualche raro ed in genere ben motivato caso - prescindere dal retroterra sociale e culturale in questo ambito di studi è oggi come oggi a dir poco controproducente.
Più concretamente si parla di etnomusicologia laddove si sconfini dalla musica colta, o dalla musica di consumo o ci si insinui nei territori più o meno estranei - e dunque fascinanti -delle culture popolari, non progredite o lontane dall'influsso europeo.
Posta in questi termini la questione della natura degli studi etnomusicologici, appare subito più chiaro il perché si ricorra così pesantemente alle scienze sociali: la fascinazione provocata sugli studiosi da queste culture estranee ha l'effetto di alterarne la capacità di analisi, il che è in netto contrasto con lo spirito prettamente positivistico che permea questa disciplina - per risolvere questa contraddizione latente si sono percorse svariate strade, tutte o quasi volte verso l'integrazione - ideale o anche concreta - dello studioso nel tessuto sociale esaminato in modo da consentire una migliore comprensione del connesso ambito musicale; la strada più estrema è forse quella individuata e percorsa dalla scuola californiana, che vede nell'"osservazione partecipante" - ovvero nell'acquisizione delle capacità esecutive e quindi nella partecipazione attiva ai processi di creazione ed interpretazione musicale - un metodo sicuro di analisi oggettiva: un vero e proprio tour de force, che senz'altro implica per lo studioso una notevole dose di abnegazione!
Per quel che riguarda l'Italia, un occhio di particolare attenzione nei confronti delle tradizioni musicali popolari c'è sempre stato: non tanto per il repertorio popolare in sé, con le sue implicazioni sociali, quanto piuttosto per indagare sulla genesi di quelle forme musicali colte che in qualche modo sono debitrici nei confronti delle forme della tradizione non colta. Tuttavia, ultimamente si sta assistendo ad una esplosione di interesse concretizzato nel proliferare di riviste, etichette discografiche, esecuzioni dal vivo dedicate alle culture musicali non europee o popolari.
Per niente estraneo all'avvicinamento di un numero così ampio di amatori e studiosi a questi territori così poco esplorati è stato il lavoro di cattedratici nell'ambito delle facoltà umanistiche o sociali. Senz'altro il maggior studioso italiano - purtroppo da poco scomparso - è stato Diego Carpitella, titolare della cattedra di etnomusicologia all'Università 'La Sapienza' di Roma e promotore di importanti seminari integrativi dei corsi, le cui dispense sono state raccolte due anni fa nel volume Grammatica della Musica Etnica imperdibile per chi si interessa all'argomento.
Oltretutto, Carpitella era mosso da un profondo amore per il Mezzogiorno, ed alla conoscenza della tradizione musicale meridionale aveva dato contributi di enorme portata.
Ma al di là dell'impegno dei docenti, l'interesse verso questo settore è alimentato dal fatto che l'intera penisola offre una moltitudine di spunti per chi è attento alle tradizioni musicali.
Un panorama così ricco affascina ed ha affascinato anche personaggi ben lontani dall'aver direttamente a che fare con la musica popolare: è il caso di Vincenzo Giustiniani, alto prelato dell'ambiente romano, proprietario di una ricchissima collezione d'arte, personaggio d'alta cultura che in uno scritto del 1626, il Discorso sopra la Musica, reperibile in una raccolta di fonti curata da A. Solerti, L'origine del melodramma, edita a Torino nel 1903 presso l'editore Bocca, traccia una breve storia della musica dei suoi tempi, così come aveva avuto modo di verificarla nel corso della sua vita.
La figura di Giustiniani si avvicina, in senso lato, a quello che dal punto di vista musicologico viene definito un cronista, una persona cioè che per un motivo o per l'altro, non essendo né strumentista né compositore, ma semplice osservatore, disegna il quadro di un particolare evento o di una più generale situazione musicale a lui contemporanea, aiutando così enormemente lo storico della musica a ricostruire prassi esecutive, abitudini dell'ambiente musicale, fortuna dei singoli autori e quant'altro sia possibile estrapolare dal resoconto giunto fino a noi.
Il Discorso sopra la Musica, in effetti, è un documento abbastanza utile per chi nutre interesse per il Seicento musicale, ed in particolare per chi affronta il momento assai delicato del passaggio dalla polifonia cinquecentesca alla monodia. Inoltre, Giustiniani mostra un notevole interesse verso la musica popolare, ponendo nella giusta luce l'influenza esercitata da questa sulla musica colta, come pure è attento alle peculiarità territoriali dei modi di far musica, il che si riallaccia al discorso relativo al campo d'azione dell'etnomusicologia affrontato nelle righe precedenti.
Tuttavia, quel che più incuriosisce è il fatto che il colto Giustiniani cita, a giustificazione di alcune sue teorie relative alla natura della musica, due tradizioni popolari che peraltro, essendosi mantenute vive fino ad oggi, sono state fatte oggetto di studio da parte, appunto, di etnomusicologi, tale è la loro importanza: il fenomeno dei tarantolati e la pesca 'cantata' del pescespada.
Il fatto che queste tradizioni fossero ben note nel Seicento a Roma e che il prelato nei parli come di cosa da molto tempo in qua osservata è indicativo tanto della risalenza di queste tradizioni quanto del loro impatto sull'immaginario.
Scrive Giustiniani a proposito dei tarantolati: "Non però mi pare di tralasciare un effetto mirabile, che dalla musica e dal suono procede e si è continuamente osservato da molto tempo in qua nella Puglia e nel Regno di Napoli nelle persone che sono morsicate dalla tarantola, o sia soffritto, come in quel luoghi si suol dire, li quali ricevono nel male che patiscono nelle viscere, con necessità di stare in moto e quasi ballando, con gran refrigerio e molte volte la totale liberazione, dalla musica o dal suono particolare tra molte altre arie e musiche e suoni, che si fanno sentire agli infermi, li quali sentono giovamento solamente da un suono, o da una musica tra le molte altre, come ho detto. E perché quando questi tali non restano liberati, in ciascun anno nella stagione nella quale furono offesi, vengono riassaliti dal tormento, così con i suoni e canti diversi si procura dargli occasione, se non di rimedio, almeno di refrigerio, che ricevono molto maggiore che da gli altri rimedi dei medici".
Ed a proposito della pesca del pescespada cantata in greco si legge: "Resteria d'investigare la cagione perché nella pesca del pesce spada, che si può dire più presto caccia, sia riputato il canto necessario, e quel ch'é più con esprimere parole greche".
Nelle parole del prelato non traspare certo lo spirito investigativo dell'etnomusicologo - sarebbe troppo pretendere: - il rito catartico del ballo dei tarantolati e la pratica propiziatoria del cantare in greco per attirare la preda sono visti in termini funzionali piuttosto che, appunto, rituali.
Tuttavia mancano i toni enfatici e miracolistici che fatalmente subentrano nelle cronache che narrano questi episodi; anzi, della tradizione della pesca cantata, quasi positivisticamente, resteria d'investigare la cagione.
Con estrema spregiudicatezza Giustiniani chiama in causa le tarantole e demolisce la teoria dell'armonia delle sfere, e Pitagora e Platone con questa; cita il pescespada e loda Gesualdo da Venosa, mescolando musica colta e tradizione popolare, forte del fatto che, come lui stesso scrive, "... tal cantante ad uno parrà grazioso et ad un altro noioso, e per il contrai-io un cantante sciocco piace a chi non dovrebbe piacere,- e l'istesso effetto si vede nell'altre cose ancora e specialmente nelle putterie di Spagna e d'Africa, nelle quali non è donna che non trovi recapito per brutta che sii".- come a dire che, per quanto estranea una musica ci possa apparire, avrà comunque modo di 'trovare recapito'. Foss'anche presso un etnomusicologo.


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