§ Riscoperta di un Borbone

Carlo il rifondatore




Ada Provenzano, Tonino Caputo, Ruggero Franci
Collab. Gianna Varasi, Manlio Airoldi, Veronica Garzia



Il 14 dicembre 1788 moriva, all'età di sessantadue anni, Carlo di Borbone, Duca di Parma (1732-1734), Re di Napoli come Carlo VII (1734-1759) e Re di Spagna come Carlo III, dal 1759. Figlio del primo sovrano spagnolo della dinastia borbonica, Filippo V (1638-1746), e della sua seconda moglie, l'italiana Elisabetta, ultima discendente della principesca famiglia Farnese di Parma e Piacenza (1692-1766), la sua figura sta diventando in questo periodo un'autentica scoperta.
Dopo il suo breve passaggio nel ducato di Parma e Piacenza (dove poi, dal 1749, regnò il fratello minore, Filippo, 1720-1765), Carlo di Borbone fu a Napoli re per venticinque anni, durante i quali da sovrano energico restaurò l'integrità e l'indipendenza politica del regno all'esterno e avviò, all'interno, riforme rivolte ad affermare l'autorità dello Stato contro tutti i poteri particolari e contro lo strapotere ecclesiastico.
Fu figura tipica di sovrano illuminista. Gli esordi del suo regno napoletano furono salutati con gioia dal ceto civile e colto. Antonio Genovesi, una delle figure più colte dell'Illuminismo italiano, scrisse nelle sue celeberrime Lezioni di commercio che con Carlo a Napoli "piacque a Dio di restituirne il Re, la pace e la nostra vera libertà e grandezza, perché niun popolo può dirsi veramente libero il quale non abbia un principato domestico, e niente è più noto per la storia umana quanto che ogni provincia è schiava".
In epoca a noi più vicina, Benedetto Croce, sempre così attento al gioco delle influenze internazionali, delle forze politiche e delle personalità nella storia, ha a sua volta annotato nella sua Storia del Regno di Napoli che l'autonomo Stato meridionale si dovette "a una donna italiana, Elisabetta Farnese, che volle che il suo figliolo Carlo avesse un regno e glielo fece acquistare con trattati e conquistare con le armi di Spagna e difendere poi con l'aiuto delle stesse armi, e fornì all'uopo i mezzi finanziari: cosa (sia detta di passaggio) che da coloro i quali si dilettano a fare i bilanci del dare e dell'avere tra i popoli andrebbe messa come grossa partita a favore della Spagna, della Spagna 'sfruttatrice' che, almeno quella volta, non è dubbio che fosse da noi napoletani, per caso, o per favore di fortuna, sfruttata".
L'acutezza delle osservazioni crociane ci portano così a riconsiderare il tema della lunga, e tutto sommato ancora poco considerata, presenza spagnola in Italia. Non vogliamo affermare che sull'argomento manchino studi importanti e pregevoli. Basterebbe ricordare i due volumi crociani La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza, (la cui prima edizione comparve nel 1917), o, su un altro versante, gli studi di Federico Chabod sul dominio spagnolo a Milano. E neppure vanno dimenticate le più recenti e meno recenti storie sistematiche e generali d'Italia, di Napoli e del Mezzogiorno continentale, della Sicilia e della Sardegna, oltre che i diversi contributi monografici e specialistici nei quali la presenza spagnola è trattata in modo ampio e documentato. Ma, ciò detto, è evidente tuttavia che l'intero periodo che va dal sedicesimo secolo all'avvento al trono di Carlo di Borbone, cioè il periodo dell'egemonia politica ispanica da Carlo V imperatore (1500-1558) in poi, merita ormai una diversa attenzione.
Machiavelli, Guicciardini, Della Casa, Campanella, Botero, Ammirato, Boccalini, Bentivoglio, Davila, tra i pensatori politici e gli storici italiani, prestarono nel sedicesimo e nel diciassettesimo secolo attenzione alla Spagna e alla sua politica, anche se nei loro richiami esistono discontinuità, incertezze, fraintendimenti. Senza dubbio rilevante e giustificato è l'interesse per Carlo di Borbone, il quale, dopo una lunga e non pacifica continuità di potere ispanico a Napoli, (si pensi alle rivolte degli anni Quaranta del Seicento), nel diciottesimo secolo ebbe l'indiscusso merito di costruire nel Mezzogiorno d'Italia uno Stato autonomo e tendenzialmente moderno nella sua struttura.
Il suo nome, dunque, era Carlo di Borbone. Ma per i napoletani e per i meridionali fu e rimarrà sempre Carlo III. E' il sovrano al quale restano legate alcune grandi opere, di quelle capaci di caratterizzare un secolo e una capitale. Si parla del Teatro di San Carlo e il pensiero vola a lui. Si parla delle regge di Capodimonte, di Portici, di Casetta, e il discorso non cambia; o meglio: resta invariato il soggetto. Sempre lui l'artefice principale, il committente che volle ordinare quelle opere e che tenacemente seppe condurle a termine, o quanto meno farle giungere al punto in cui, con regale magnificenza, ne potesse lasciare, all'erede legittimo, il quasi naturale completamento.
Fu l'uomo ideale in cui il potere seppe, come poche volte capita, confluire con una grande capacità organizzativa e operativa, con un "decisionismo" fruttuoso, con una capacità di guardare lontano, con fede costante nella bontà intrinseca delle proprie scelte. Per questi motivi, Carlo fu il primo, grande committente della Napoli moderna. Sempre si mosse da obiettivi consacrati dal suo personale interesse, o almeno dalla tutela e dallo sviluppo di ciò che spettava a lui e al suo regno (un regno sempre inteso e guardato come personale dominio, da curare gelosamente; come privata proprietà).
In una terra come la Campania (e tutto il resto del Mezzogiorno) che non aveva conosciuto mai grandi mecenati del tipo di quelli vissuti altrove in Italia, con i principi e le loro dinastie, l'arrivo del giovane Carlo e la sua manifestata volontà di erigere a Napoli la capitale di un vero grande regno indipendente vennero salutati come presagio di anni di gloria. In realtà, Carlo va visto come l'unico, autentico "padrone" - il primo dal momento che non ce n'erano stati in precedenza - di queste terre, già sempre desiderose di naturale sviluppo e, diremmo oggi, di rilancio. Quel re ebbe l'intuito di agire con serietà.
Era giovane, era ricco e potente. Si spiega così, in un clima di grande attivismo, il fervore di attesa e di vita che la sua venuta determino e della quale resta un augurale segno premonitore il messaggio che sua madre gli indirizzò all'indomani della battaglia di Velletri, il fatto d'armi che aveva segnato la sua sorte di regnante. Dal 1734 in poi, Carlo ebbe il "mestiere" di re, mestiere che avrebbe esercitato per cinquantaquattro anni, metà sul trono di Napoli e metà su quello di Spagna, dopo che sul trono del Regno meridionale salì suo figlio, Ferdinando IV.
Carlo come re di Spagna. In linea di massima, possiamo dire che le cose continuarono ad andargli bene anche nella penisola iberica. Il felice preludio che egli aveva assaporato a Napoli continuò, in pratica, a Madrid e in definitiva tutto concorse a farlo classificare anche dai sudditi spagnoli un buon re. Grandi erano ancora, in quella seconda metà del Settecento, i dominii e le zone d'influenza della Spagna. C'era ancora Cuba e anche di Cuba fu re, fra l'altro, Carlo III. Lo ricordano anche in quell'isola, oggi, in pieno regime castrista.
Carlo morì in un freddo giorno di dicembre del 1788, colpito da una febbre violenta e inspiegabile, contro la quale lottò inutilmente, con tutte le sue risorse, l'intera schiera dei medici di corte. Quando scomparve il gran re, la sua memoria a Napoli era ancora viva come quella di un autentico padre della patria: come ancora oggi attesta uno scrittore quale Gino Doria, pur consapevole delle fondate limitazioni che, riguardo alla grandezza autentica del sovrano, furono poste da storici dell'epoca (Colletta) o di tempi successivi (Schipa). Il lutto, comunque, fu immenso, a Palazzo Reale e fuori, anche se questo dolore fu alquanto limitato e assorbito da altri malanni gravissimi che in quello stesso torno di tempo colpirono la famiglia reale di Napoli: il vaiolo si portò via il figlio del re, Gennaro, di soli nove anni, e l'altro principino, Carlo, di appena cinque mesi. La regina Maria Amalia per poco non impazzì sotto l'urto del tremendo, duplice colpo.
I due secoli trascorsi dalla scomparsa regale suggeriscono di tentare un bilancio globale, un rendiconto dell'attivo e del passivo della figura di Carlo di Borbone, una sorta di somma algebrica della sua opera, da cui emerga se quel re fu veramente o se europeo fu il respiro della sua politica. Anche i re, in altre parole, vanno riletti, e nessuno ci potrebbe guidare a farlo meglio di Gino Doria, che così si espresse nella sua Storia di Napoli: "Carlo di Borbone poté passare dal trono di Napoli a quello di Madrid contento di sè e della sua opera, convinto di lasciare alle sue spalle amore e rimpianto. E certo, quale che fosse la maniera e da quali interessi determinati, onde il viceregno tornò alla sua antica dignità di regno indipendente, il nome di Carlo non può dissociarsi da questa palingenesi. Abbiamo notato, a suo luogo, quanta parte dell'elevazione civile della nazione fosse dovuta, più che alla volontà antiveggente del sovrano, allo spirito nuovo dei tempi che egli dovette, e forse non sempre volentieri, subire; ma come non riconoscere la savia condotta della sua politica in più di un'occasione, la fermezza con la quale cominciò a liberare la patria dalla pesante cappa del curialismo, i miglioramenti recati in molti rami dell'amministrazione; l'abbellimento (nei limiti che abbiamo definiti) della capitale, l'impulso dato dagli istituti di cultura, i reali benefici portati alla navigazione e al commercio e, infine, la dignità della vita privata. Non sempre, s'intende, la volontà del monarca corrispondeva alle necessità del progresso, sia nel campo della politica sia in quello della scienza, ma né in Giuseppe, né in Maria Teresa, né in Leopoldo, in nessuno, insomma, dei principi illuminati è possibile riscontrare quella perfetta corrispondenza".

Riscoperta di un Borbone

Chi custodisce la storia

Pochissimi meridionali, e con ogni pro babilità anche uno scarso numero di napoletani, sono a conoscenza della presenza nella basilica di Santa Chiara, custode di tanti tesori storici e artistici, del Pantheon dei Borboni di Napoli. Qui sono sepolti tutti i re e tutti i principi del ramo partenopeo dei Borboni.
Padre Gaudenzio Dell'Aja, francescano, già autore di un volume sul restauro della basilica, ne ha riconosciuto le vicende in un volume corredato da ben 153 tavole, quasi tutte a colori, che rappresentano tutti i membri della famiglia Borbone, nonché piante e disegni originali e fotografie della fabbrica sacra. L'autore racconta la storia delle vicissitudini delle salme, riferendo tutti i particolari delle sepolture dopo le ricerche che ha condotto negli archivi di diverse città italiane.
Fondata nel 1310 da Roberto d'Angiò e luogo di sepoltura di molti membri della famiglia angioina, la basilica francescana di Santa Chiara venne scelta da Carlo III di Borbone come estrema dimora delle sue cinque figlie morte in tenera età e del suo primogenito diseredato, il principe Filippo. Esse furono poste nell'ultima cappella di destra della basilica, quella dedicata a San Tommaso Apostolo.
Divenuto Carlo III re di Spagna, fu Ferdinando IV il primo re Borbone ad essere sepolto a Santa Chiara con un'imponente cerimonia funebre. Non si provvide tuttavia alla costruzione di una cappella, nonostante vari progetti patrocinati da Ferdinando II e da Francesco II: di questi progetti Padre Gaudenzio riproduce le carte inedite.
Depositate in "Stanze" della basilica, contigue al Coro dei Religiosi, le ventinove casse contenenti i resti mortali dei Borbone vennero riaperte solo nel 1926 per l'interessamento della Duchessa d'Aosta e su sollecitudine degli ultimi eredi della famiglia Borbone. Il bombardamento aereo del 4 agosto 1943, con il successivo incendio, colpì gravemente la basilica e le stesse casse furono danneggiate, mentre l'interno della cappella di San Tommaso Apostolo fu risparmiato dalle bombe.
Per interessamento del Principe di Piemonte le casse furono ricomposte e provvisoriamente trasferite nella basilica di San Francesco di Paola. Restaurata la basilica di Santa Chiara e riaperta al culto il 4 agosto 1953, si decise di traslare le salme dei Borbone in una cripta costruita sotto la cappella di San Tommaso Apostolo. Terminati i lavori, il 28 marzo 1958, le ventinove salme di principi e regnanti Borbone vennero traslate nella cripta e il giorno seguente fu murata: lì venne collocata una lapide con lo stemma borbonico. i nomi delle salme emergono nell'iscrizione che ricordava l'evento, in latino.
Anche le spoglie mortali della regina Maria Teresa e del principe Gennaro furono traslate in Santa Chiara il 30 aprile 1962. Infine, il 18 maggio 1984, anche le salme dell'ultimo re e dell'ultima regina di Napoli, Francesco Il e Maria Sofia di Baviera, insieme con quella della loro unica figlia Maria Cristina Pia, furono traslate in Santa Chiara dalla chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani in Roma.
L'autore ci dà notizie anche sulle figure meno note che sono sepolte in Santa Chiara, come il primogenito di Carlo III di Borbone, il principe Filippo. Diseredato per infermità mentale, egli fu il primo rappresentante maschio dei Borboni ad essere sepolto in Santa Chiara, in una tomba marmorea opera dello scultore Sammartino, con un'epigrafe dettata da Bernardo Tanucci, posta sulla parete di sinistra della cappella di San Tommaso Apostolo. Padre Dell'Aja scopre inoltre alcuni errori in cui sono incorsi gli studiosi che hanno definitivamente sistemato i resti dei Borboni nel 1958, come il nome di Carlo Tito anziché Carlo Francesco erroneamente attribuito al terzogenito di Ferdinando IV, morto in tenera età, la confusione tra i due figli di Ferdinando IV, Gennaro Carlo e Carlo Gennaro, morti a distanza di un mese l'uno dall'altro, nel 1789, Per Cui nella lapide se ne ricorda soltanto il secondo, attribuendogli la data di nascita del primo e, più grave ancora, le errate iscrizioni ad una principessa, Germana, figlia del Conte d'Aquila, mai esistita, e alla granduchessa ereditaria di Toscana che riposa invece nella basilica di San Lorenzo, a Firenze.

La storia e il caso

Ed emerse Ercolano

Gli scalini sono settantadue, e portano diritti nel ventre della terra: a poco meno di ventotto metri di profondità. Lì c'è il teatro di Ercolano, in un dedalo di cunicoli tetri, umidi, sbrecciati. Fu verso la fine del 1738 che il re di Napoli, Carlo III di Borbone, ordinò di assumere un manipolo di sterratori: come dicono le cronache del tempo, un gruppo di "cavatori di Resina, di ergastolani del carcere di Portici e di schiavi tunisini e algerini catturati nelle campagne contro i barbareschi". Questo eterogeneo gruppo di uomini iniziò gli scavi quasi per caso, perforando il durissimo tufo, servendosi di torce per illuminare i recinti del lavoro.
E tuttavia, com'è stato scritto, esiste una preistoria di questi drammatici scavi. Ercolano venne scoperta agli inizi del secolo decimottavo con un colpo di fortuna: un contadino, noto nelle campagne col nome di Enzecchetta, aveva deciso di scavare in profondità il suo pozzo d'acqua carsica, che si era improvvisamente inaridito. Dopo alcuni giorni di lavoro, invece di una più ricca vena d'acqua trovò una vera e propria cava di marmi antichi: cipollino, pavonazzetto, giallo antico, africano, alabastro, porfido. E, a mano a mano che li portava in superficie, andava a venderli al marmista del paese, che poi li trasformava in statue di santi e fontanelle ornamentali per i signori del circondario.
In quel torno di tempo Napoli era presidiata anche da una guarnigione austriaca, che, tra i suoi ufficiali, contava anche il giovane Maurizio di Lorena, principe d'Elboeuf. Costui, di ottimo aspetto, di gran cultura, e di maggior mondanità, spendeva soprattutto quel che non aveva: ma aveva il privilegio della protezione della corte di Vienna, che si incaricava sistematicamente di pagare i suoi debiti.
Un giorno Maurizio si innamorò di una splendida napoletana, la principessa Salsa, e la sposò, alienandosi la simpatia e la protezione della corte viennese, che non vedeva di buon occhio l'unione di un ufficiale dell'esercito imperiale con un'appartenente all'aristocrazia partenopea, dai cui ranghi provenivano i più tenaci oppositori dell'occupazione austriaca. Per nulla intimorito dalle difficoltà economiche, Maurizio d'Elboeuf progettò di costruire, in nome della giovane moglie, una villa di marmi e di stucchi in riva al mare, in quel di Portici. Accadde dunque che capitò nella bottega artigiana del marmista di Resina, che gli offri marmi "cavati" da Enzecchetta. Il principe ne chiese la provenienza e venne a sapere dell'inesauribile "pozzo miracoloso".
L'austriaco comprese immediatamente di che cosa si trattava. Allora acquistò, senza discutere sul prezzo, l'intero appezzamento di terreno nel quale si trovava il pozzo. Quindi cominciò a scavare gallerie e cunicoli, ma in gran segreto, servendosi esclusivamente di commilitoni austriaci, e in pochi giorni rinvenne due stupende statue femminili, rivestite di tuniche con pieghe fittissime: erano le "Ercolanensi", oggi al museo di Dresda. Per il principe quella era un'occasione irripetibile per rientrare, con un magnifico dono, nelle grazie della corte viennese. Facendo uso di carri militari, fece trasportare le statue fino al porto di Ancona. Di qui esse proseguirono per mare fino al porto di Trieste. E di nuovo, a bordo di carri militari, partirono per Vienna.
La corte absburgica accolse le due opere d'arte con entusiasmo e fece allestire un'apposita sala per esporle al pubblico. In questo modo la notizia si diffuse per l'intera Europa e Maurizio d'Elboeuf si trovò nei guai: ma chi protestò con la massima irritazione fu lo Stato Pontificio. Per questo motivo il principe fu costretto a lasciare Napoli e a far ritorno nella capitale austriaca. E dunque partì senza avere avuto l'opportunità di "scoprire" la sepolta Ercolano. Riteneva, tutt'al più, di avere avuto a che fare con un tempio. E invece si era arrestato esattamente davanti alla scena di un teatro, ricca di statue.
Quando, nel 1734, Carlo III di Borbone volle farsi costruire una "casa di delizie", vale a dire una reggia, a Portici, il suo architetto, lo spagnolo Rocco Alcubierre, gli consigliò di acquistare anche la villa di Elboeuf, insieme con tutti i reperti antichi che il principe vi aveva collezionato, con il campo e con il "pozzo miracoloso". Quattro anni dopo si riprendeva a scavare nel pozzo e nel terreno.
Estremamente preparato in questioni di ingegneria, ma assolutamente all'oscuro dell'esigenze dell'archeologia, Alcubierre decise che l'unico metodo di scavo possibile era esattamente quello inaugurato dal principe austriaco: e cioè aprirsi la via a colpi di pala e di piccone, al brillamento delle mine. E immediatamente fu fatta una scoperta che consentì di stabilire che città fosse quella sepolta sotto Resina, visto che fino a quel momento la dislocazione di Pompei, di Ercolano e di Stabia era basata soltanto su labili supposizioni: su una porta d'ingresso c'era un'iscrizione che recitava: Theatrum Herculanense.
Era Ercolano! Tanto più che, accanto alla scena, venne rinvenuto, inciso sul piedistallo di un'altra statua, il nome del più illustre figlio di quella città: Marco Nonio Balbo, proconsole a Creta e in Cirenaica. Della famiglia dei Balbi - il proconsole decisionista, la sua energica madre, la moglie Volasennia e le figlie - saranno scoperte in seguito moltissime statue, tra le quali una di un uomo a cavallo che piacque moltissimo al re Carlo, che la fece collocare al centro del cortile della reggia, e che, nei moti rivoluzionari del 1799, fu centrata da un proiettile di cannone, avendone sbriciolata la testa.
Negli anni seguenti, partendo dal teatro, fu esplorata buona parte della città sotterranea attraverso una rete di gallerie che forarono pareti, sondarono soffitti, attraversarono piazze, strade ed edifici spesso rimasti miracolosamente sospesi nella morsa di fango solido. Con questo sistema venne recuperato un gran numero di capolavori. Ma i danni provocati dall'approssimazione e dall'incompetenza degli scavatori furono giganteschi: la maggioranza degli affreschi venne buttata via perché ritenuti indegni di figurare nella collezione dei re; le lettere di bronzo delle iscrizioni furono ammucchiate nei canestri senza essere state prima lette e tradotte; i quattro cavalli di bronzo vennero fusi per ricavarne uno soltanto, nuovo di zecca; e dello stesso busto dell'auriga, che nessuno di costoro riusciva a ricomporre, furono fatti medaglioni col ritratto del re e con quello della regina.
Gli scavi ercolanensi, tanto faticosi e altrettanto devastanti, passarono in secondo piano quando fu scoperta l'arca nella quale era sepolta Pompei. Poi lentamente, nella seconda metà dell'Ottocento, incominciò a prevalere l'opinione che quel metodo di scavo era oggettivamente distruttivo, che era preferibile scavare dall'alto, a cielo aperto. Ma questo era un sistema troppo costoso. Ai primi del Novecento ci fu un tentativo, ad opera di un gruppo di archeologi britannici, di internazionalizzare gli scavi di quella regione. Ma fallì, perché urtò la suscettibilità degli italiani: gli inglesi proponevano di dare la presidenza della costituenda società internazionale al presidente statunitense Roosevelt, il cui Paese avrebbe offerto il contributo finanziario di gran lunga più consistente. Gli italiani si offesero: quella carica, a loro avviso spettava a Vittorio Emanuele II. L'arca archeologica di Ercolano è ritornata alla ribalta in tempi recenti. In oltre duecento anni di scavi non erano stati trovati scheletri, e proprio per questo era sembrato logico ipotizzare che la città più direttamente interessata dalle minacce del vulcano (Ercolano è dislocata proprio sotto il Vesuvio) fosse stata abbandonata dai suoi abitanti non appena cominciata l'eruzione del '79 dopo Cristo. Le cose, in realtà, erano andate in maniera diversa: agli inizi degli anni Ottanta, scavando lungo l'antico limite del mare, emerse una tremenda verità: di notte (molte persone avevano portato le lucerne) centinaia di ercolanensi si erano precipitosamente diretti verso la spiaggia, inseguiti da una micidiale ondata di lava incandescente. Contavano di mettersi in salvo, prendendo il largo. Ma anche il mare sembrava impazzito. Le imbarcazioni si capovolsero; chi vi si era rifugiato morì affogato. Tutti gli altri rimasti sulla spiaggia, resi folli dal terrore, cercarono rifugio sotto i grandi archi che si alzavano alle spalle del porticciolo, e proprio là li raggiunse il fiume di lava e di fango bollente alto una ventina di metri. Nessuno scampo. Quando gli arconi sono stati svuotati del fango pietrificato, agli scavatori e agli archeologi si sono rivelate scene terrificanti: grovigli di corpi, persone abbracciate, madri che avevano inutilmente cercato di proteggere con il loro corpo i bambini. A ridosso della spiaggia, uomini e donne avevano le ossa rotte: l'onda di fango rovente li aveva scaraventati giù, dall'alto del paese.
Quelle scene erano così drammatiche, testimonianze così vive del terrore di un'intera comunità di fronte alla morte, che da tutto il mondo venne la richiesta di fissare per sempre quelle immagini, di lasciare ciascuno e tutti insieme gli ercolanensi nella posizione in cui erano stati trovati. Ma servivano grosse quote di capitali, e così su quei morti è di nuovo sceso il glaciale silenzio. Ercolano, città venuta alla luce per volere di Carlo III, è ancora in buona parte da scoprire. Ed è tempo che ci si occupi con progetti seri e risolutori. Per conoscere la storia, e per arricchire il Paese di testimonianze, di documenti a loro modo "vivi", nella ricognizione di un passato che ci riguarda tutti.


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