§ Memorie di un giornalista

A tu per tu con gli "anni '40" (5)




Gennaro Pistolese



Che sapevamo - e mi riferisco al mio ambiente di vita e di lavoro di allora, e cioè alla Confindustria, che richiede per il ventennio una storia interamente sua, fatta invece fin qui con la necessaria obiettività, ma comodamente ed occasionalmente abbozzata con pregiudiziale ideologiche e di schieramento di taluni - del 25 luglio che stava per arrivare?
Sapevamo che l'Italia, oltre tutto per totale impreparazione bellica, non doveva intervenire.
Conoscevamo il corso di una guerra senza speranza, senza congrui mezzi per molte materie prime essenziali alla sopravvivenza civile; con l'enfasi di bollettini militari da ascoltare in piedi ed in silenzio perché "il nemico ci ascoltava"; ma scritti in un gergo che con le cosiddette ritirate strategiche mascherava inutilmente solo sconfitte; con le avanzate ufficialmente proclamate solo però dalla Germania, ma regolarmente smentite dai fatti con le armi segrete annunciate dietro l'angolo, ma mai neppure sperimentalmente vicine a qualche modesto accenno di riscontro; con le notizie di Radio Londra che annunciavano al contrario quanto di meno irreale, non dico reale, stava avvenendo.
Così anche in quella Confindustria di allora vi erano due anime: una straripante, che sapeva dove stavamo andando ed un'altra, estremamente limitata, che diceva non lontana la vittoria e che continuava ad esortare a stringere la cinghia, avendo tuttavia avuto cura di riempire di cibarie le proprie cantine.
Il 26 luglio, che per gli italiani è stato più importante del giorno precedente, è cominciato così. Con i distintivi fascisti che venivano buttati, con gli emblemi di regime che precipitavano su strade e piazze, con i busti di Mussolini alacramente demoliti, a fronte di una folla entusiasta, con tanti cortei che si contendevano le strade centrali, nella preoccupazione però degli esponente di essere in prima fila, possibilmente sotto braccio, come insegna di tradizionali intransigenze ed opposizioni. Ma forse questo clima, in una città come Roma, ha rivelato un pudore ed una coscienze particolari: per gli antifascisti veri ed i soggetti della resistenza che tali erano stati realmente, e per taluni i fascisti, forse tanti che io ho definito con la qualifica del "MA"... Più che mai consapevoli, silenziosi, ma certo verbosi anch'essi nelle loro case e nei loro ambienti, che presentivano ed hanno visto.
E così sono arrivati i 45 giorni di Badoglio. La Confindustria, per la sua caratterizzazione, si permetteva il lusso, allora insolito, di non scalfire la propria burocrazia.
Se l'era scelta, con scrupolosa selezione; si vantava di averla formata; tessere non ne aveva mai richieste e di rado aveva dovuto subirle; aveva alle sue spalle molti dirigenti, aventi a punto di riferimento i suoi fondatori, da Torino a Roma, da Olivetti in poi.
Ognuno così riprese il proprio lavoro, pur ritenendolo estremamente precario. lo il mio, all'Ufficio Stampa dell'Artigianato, con un settimanale che continuava a a parlare di problemi, che sarebbero rimasti irrisolti, dati anche i tempi. Qualche nota divertente non mancava lo stesso. Così quella del furioso assalto di uscieri ad una cantina ritenuta ricca di prosciutti di un loro dirigente, fino a qualche ora prima servilmente ossequiato.
Così ancora quella di un giovane architetto che senza distintivo fascista era stato ammonito a prenderlo subito (e ciò allora comportava l'arruolamento nella milizia) e che, ottenuto questo distintivo una settimana prima del 25 luglio, si è trovato addosso divisa e camicia nera ed ha dovuto in fretta disertare, sempre con divisa e camicia nera, la propria caserma.
Lo spazio doloroso di un mattino, anche per lui. Egli però aveva la fortuna di essere intelligente, toscano, ed il coraggio di divertirsi di se stesso. Ed è questa una storia che a me piace, perché ci sono stato di mezzo, e perché la preferisco all'altra, giustamente drammatica, che ha offerto legittime speranze, raggiunto o no, ma forse non sempre ha soddisfatto la molteplicità del nostro carattere. Di quello cioè che ci fa dire sempre ed in ogni occasione: domani è un altro giorno. Il che comporta prima di ogni altra cosa un sorriso sul volto ed un'attesa nuova nell'animo.

I 45 GIORNI DI BADOGLIO
In quei 45 giorni le notizie, le decisioni ufficiali si susseguivano. Si cercava anzitutto di sapere cosa era realmente avvenuto al Gran Consiglio. Un dirigente del partito, mio amico, successivamente professore universitario a Padova di Storia del teatro, nelle ultime settimane anteriori a questo febbraio del 1993 in cui sto scrivendo questi appunti, autore di un saggio su Goldoni (e di lui non dico di più, perché quei tempi avendoli vissuti insieme con i nostri diversi caratteri contano solo per noi) all'immediata vigilia del Gran Consiglio, a mia domanda, mi disse che la seduta avrebbe fatto solo il punto della situazione.
Il punto della situazione, e per lui ufficialmente era una verifica, si sapeva invece, o meglio molti lo intuivano, che si trattava invece di una denuncia, di una condanna, di un domani che doveva subito iniziare, a tutti i costi.
I 45 giorni di Badoglio, dunque, mai ci hanno detto allora cosa realmente fosse successo al Gran Consiglio.
Oggi invece grosse biblioteche spiegano tutto. Nell'agosto del '43 il tutto era affidato a tre o quattro fogli di velina che in circolazione quasi clandestina riproducevano un testo dell'Agenzia Telegrafica Svizzera, che aveva come corrispondente da Roma un ticinese, Scanzani. Abitavamo nello stesso immobile in Via Archimede in Roma. Ed a lui che mi domandava notizie, io fui in grado di darne alcune, perché un membro del Gran Consiglio, Luciano Gottardi (capo dei lavoratori dell'industria, e che ben conosco per la sua serietà ed anche ingenuità - e questa l'ha condotto ad essere fucilato a Verona - in quanto insieme avevamo lavorato per l'attività corporativa nell'ambito dei lavoratori del commercio, aveva dato tutti i particolari alla seduta di Palazzo Venezia non a me, che non lo vedevo da qualche tempo, ma ad un altro collega, che oggi è editore, anzi fondatore de "La Navicella": l'editrice di ogni legislatura dei profili, spesso contestati e discussi, di senatori e deputati.
Questi mi raccontò tutto. Io lo ripetetti al nostro ticinese Scanziani, ed i primi abbozzi di quel periodo di storia (sì, periodo di storia) solo lì.
Ma due altri fatti balzano alla mia memoria di quelle giornate. Sono indubbiamente secondari. Ma rivivono.
Ad un certo momento Badoglio, forse illudendosi su tempi e strategie compatibili con il suo governo, forse sollecitato da chi si attendeva una più rigorosa inversione di tendenza, cominciò a pensare a qualche giro di vite. E così molti gerarchi scomparvero e si alzarono. Fra questi un Bottai -che vidi qualche giorno prima a Piazza San Silvestro, tranquillo in un bianco vestito di seta, certamente consapevole del compito e delle responsabilità che aveva assunto -, ma evidentemente proprio spiritualmente ad un'esperienza di coscienza, subito dopo in quegli stessi giorni iniziata con la sua clandestina militanza nella Legione Straniera. In essa si è certamente in maniera inconsueta manifestata questa volontà esemplare perché tutti gli altri, nessuno escluso, ha preferito la clandestinità e l'esilio. Due cose ben diverse dal pagare di persona.
Io, di Bottai, non sono mai stato cliente. L'ho conosciuto solo occasionalmente. Non ne ho mai tratto e richiesto benefici. So che un "nostalgico" al rientro in Italia di Bottai lo ha schiaffeggiato, ma di questo Bottai ammiro l'intransigente coerenza e coscienza morale che lo fanno migliore di chi era pure suo capo. Di lui posso dire che riteneva l'ipocrisia e l'incoerenza peggiori della peste.
Altrimenti non avrebbe dato l'esempio (io direi l'insegnamento) che ha lasciato. Suo figlio, oggi ambasciatore non certo nepotista, sa meglio di me queste cose, ma a me piace rispetto a lui stesso di ricordarle, solo per dovere di verità riguardo poi solo a me.
Molti preferiscono di ignorare questi fatti che stanno alle nostre spalle, ma perdono parte non tramutabile della loro esistenza, se li conoscono.
Ed io, appunto per questa ragione, ricordo anche quest'altro episodio della mia vita.
Ad un certo punto mi è occorso di avere come mio capo, all'Artigianato, un ex federale, che al segretario del PNF, quello che ordinava il saluto al duce, ecc., piaceva molto perché il cosiddetto foglio d'ordine oltre che applicarlo rigorosamente lo presagiva; e che a Mussolini, altrettanto piaceva, perché gli aveva organizzato le trionfali accoglienze nella Torino sabauda ed al Lingotto con tanto di Giovanni Agnelli (il nonno, però) in divisa fascista, non di senatore, come oggi dice l'Avvocato, ma di fascista. Orbene, di questo ex federale catapultato a Roma come capo dell'Artigianato sapevo ben poco, conoscevo per contro le dicerie che i torinesi, mia suocera, dicevano di lui. Anch'io genericamente ne parlai con il capo dell'Artigianato di Torino, che non solo me lo consentì, ma che lo disse al mio nuovo capo allorché si avvide che prendeva spazio presso di lui.
Di questo ex federale sono poi non solo divenuto collaboratore, e mi si consenta di dire senza alcuna inutile aggiunta, anche amico. Orbene, quando gli fu detto che gli avevo dato genericamente del "magnone" quale ex federale, egli se ne dolse con altri, ma non con me. Fui io invece a decantare con lui il mio giudizio generico, ed a superarne ogni riserva nei miei confronti.
Diventammo amici e lui certamente se lo meritava. All'indomani del 25 luglio fu l'unico fascista al quale venne imputato di essere stato sorpreso a sorpassare il confine a Ventimiglia con tanti lingotti d'oro. Il mio amico è stato però quello dei lingotti d'oro. Invece era solo a Bardonecchia dove aveva raggiunto la famiglia per il fine settimana. Comunque fu arrestato lo stesso "per garantirne la vita" in quei giorni ed in quella terra. La moglie è sopravvenuta a Roma, per trovare un difensore avvocato. Ad accoglierla eravamo alla stazione solo in tre, ed io ero uno di questi. Poi si è scoperto che Badoglio fra le carte abbandonate sul suo tavolo al Viminale aveva lasciato una lettera al prefetto di Torino (Baratono?) che precisava che nessun lingotto era stato trovato nelle mani del malcapitato, e che tutta la vicenda non era neppure degna di essere archiviata.
Io ho la soddisfazione di aver fatto pubblicare questa lettera su "Il Popolo di Roma", nel febbraio del '43, pochi giorni dopo l'8 settembre. Ed indovinate chi fece siffatto piacere certamente a me, ma ancora di più alla verità? E' stato Vittorio Gorresio che allora, durante il primo periodo di occupazione nazista a Roma, era responsabile di quel giornale; che era stato a mio fianco fondatore ai tempi universitari delle prime organizzazioni colonialiste, che mi aveva aiutato sempre a quei tempi a fondare un settimanale dal titolo "L'Azione Coloniale", che da quasi ragazzino aveva indossato il tight perché era riuscito a far parte del Cerimoniale del Governatore di Roma, che poi era passato a "Il Messaggero" al servizio esteri con Jacchia ed infine era approdato a "Il Popolo di Roma", dal quale ha trovato, ad occupazione nazista in Roma, la possibilità di fuggire attraverso i meandri della vicina chiesa.
Gorresio ha avuto la sua storia, ma questa anche per l'episodio ricordato si è incontrata con la mia.
Io me ne vanto, ma non so se avrebbe fatto altrettanto lui vivente, con la sua emulazione linguistica con Togliatti, con la sua subentrata abilità di opinion leader, con i suoi articoli su "il Mondo" di Pannunzio, con la sua lunga militanza nella "Stampa", con il direttore di questa, Arrigo Levi, vicino con tutto il cuore a lui morente mi sembra in Svizzera per male incurabile, con sua moglie - mi sembra americana - ma con casa a Piazza Navona, con il suo amore mai tramontato per una ragazza poi anch'essa celebre e se non erro figlia di un prefetto, con la quale ha sopravvissuto - non vissuto) per tanti anni.
Dicono le cronache che i due malinconici signori attorno a questa signora, che io ricordo perché mi si diceva era stata alunna dello stesso liceo di Gorresio, erano appunto Gorresio e Paolo Monelli.
Quanta storia, anche giornalistica, attorno a questi due nomi, anzi tre!

ATTESE
Sono queste due lunghe parentesi che probabilmente distraggono il lettore, ma che per chi scrive hanno il pregio di avergli tenuto e tenere tanta compagnia. Del resto cosa è l'umana esistenza se non una lunga serie di occorrenze e ricorrenze, delle quali alcune non lasciano traccia ed altre invece sempre si rincorrono e si rincorreranno nella nostra memoria?
Come tutti sanno, non per sequenza di calendario ma per connessione storica, dopo il 25 luglio, dopo i 45 giorni di Badoglio - perché 45 soltanto, pure se lui è andato molto oltre e fino alla liberazione di Roma del 4 giugno 1944? - c'è stato l'8 settembre.
Ce lo aspettavamo. Quanti eravamo caparbiamente a Roma l'attendevamo.
Fra quelli che lo attendevano, ci sono quelli che hanno concorso a prepararlo, ma da noi non si sono fatti tanto vedere, perché allora la clandestinità prometteva loro molto di più di quanto essi ritenevano di poter ricavare dal nostro consenso e dalla nostra partecipazione.
Ci sono stati coloro che avevano ed hanno famiglia.
Ci sono stati infine quelli che rientrati nella maggioranza ritenevano di doversi muovere, solo nella scelta con la propria saggezza, pure di massa, al momento ed alle occasioni.
In un pomeriggio echeggiò nelle strade di Roma il grido che una persona trasmetteva all'altra, e cioè quella dell'armistizio. Era un annuncio che nessuno pensava potesse raccogliersi per strada e tutti ritenevano di ritornare subito alle loro case. Ci sono stati quanti si sono illusi di una parentesi che si chiudeva e quanti invece intravvedevano che cominciava un nuovo capitolo, ancora più pesante di quello che si riteneva fosse appena concluso. La guerra infatti continuava. L'allarme aereo su Roma si ebbe pure quella notte e tutti capirono che era più minaccioso di quelli che lo avevano preceduto e che avevano beneficiato dell'aspettativa o speranza di Roma città aperta.
Quella notte di settembre a Roma iniziavano i quasi nove mesi di una città sconvolta, senza servizi, senza speranze, senza programmi neppure giornalieri di approssimativa esistenza, senza niente, ma con l'elementare, quasi brutale, volontà di sopravvivenza.
Pane, e senza pane; gas e senza; riscaldamento affidato a pezzi di agglomerati di carta compressa e di legname problematico, che neppure gli antichi avevano mai conosciuto; il sapone? fatto in casa con infantile perizia; un mercato nero che era dietro la porta di casa ad inseguirti e che quando, spesso, neppure lo trovavi, dovevi andare a Tor di Nona a ricercare; con i gioielli o presunti tali della tua famiglia che erano riluttanti ad essere posti in un mercato, per giunta o assente od incline alla rapina, che il nostro orgoglio invece fermamente respingeva.
Siamo così all'alternativa fra vita e non vita, e chi ha l'orgoglio di dare altri contenuti alla vita stessa, alla sopravvivenza, invece deve ammettere che ha vissuto solo così. Per quello che non c'era e che i privilegiati soltanto immaginavano sarebbe sopravvenuto.
Ma questa grande massa era solo costituita da "pecore", come gli ambiziosi di dopo la definiscono, od era rappresentata da quanti avevano già fatto il massimo di quanto potevano fare? Le storie, la storia è sbrigativa da questo punto di vista. La cronaca spesso ci dice di più, ma per comodità e rapidità di sintesi se ne fa a meno, anche se la verità in definitiva viene così posta da parte.
Questa massa, quale ne sia stata la dimensione o la dislocazione - io parlo della Capitale, dalla quale Re e governo si erano repentinamente allontanati, per sopravvivenza di istituzioni secondo alcuni, per volgare difesa personale secondo altri, comunque facendo sapere al popolo che doveva sbrigarsela per conto suo, o come continuatore del "milite ignoto" o come inconsapevole ed improvvisato combattente di prima linea - ha dovuto fare, ha fatto la sua parte.
L'ha fatta quando ha dovuto a tutti i costi arrangiarsi. Con i bollini, che c'erano e scomparivano e che comunque non ti assicuravano alcun minimo, perché i bollini hanno sempre avuto, con la guerra e senza di essa, sempre lo stesso destino. Di essere cioè perequativi, indispensabili nelle intenzioni, ma sempre disertori.
L'ha fatta, quando ha inventato l'economia sommersa. Prima di allora mai c'era stata, perché ciascuno da noi ed altrove, anche all'estero, trovava più comodo ed economico operare alla luce del sole.
L'ha fatta quando il lavoro nero, di fronte ad un potere pubblico che lesinava il dovuto e spesso era latitante rispetto ad esso con la comoda giustificazione che c'era il governo di Brindisi da una parte e quello di Salò dall'altra, ha preso il sopravvento, pure rispetto ad esauste capacità di utenti e committenti.
L'ha fatta, quando ha dovuto cancellare l'effettualità dei suoi legittimi redditi, perché il proprio datore di lavoro, pubblico o privato, era entrato in latitanza, o perché non si sapeva chi dietro i titoli pubblici doveva esserci, di Salò o di Brindisi, ed invece non si trovava.
L'ha fatta, quando non si sapeva quale fosse la moneta con la quale si aveva a che fare.
Con una lira che sembrava volesse tenere a tutti i costi, e no, non si sapeva se era il Nord esautorato od il Centro Sud in rodaggio a voler fare di più o a promettere di più; e con le AMlire che a loro volta scuotevano tutto il sistema o annunciavano che c'era una radicale inversione di tendenza, dalla quale iniziare un nuovo abc non solo monetario, ma irreversibilmente economico.
Dal giugno '44 fino a Roma, 11 mesi ancora fino al 25 aprile. Segnano comunque nel nostro calendario che il primo semestre del '44 sono iniziati gli altri 50 anni della storia del mondo, di quella che viviamo oggi e che anno per anno per quelli della mia generazione fa rivivere delusioni, purtroppo, e speranze, e per esse vivaddio, come si diceva una volta.

I NOVE MESI DI ROMA
Ma ritorniamo ai nove mesi di Roma.
Dopo le incertezze drammatiche dei primissimi giorni, con il vuoto dei poteri, con i nostri soldati più o meno sbandati anche nella Capitale, con molti di essi che barattavano uniformi militari con vestiti civili, con i comandi tedeschi che estendevano a macchia d'oli interventi, mezzi brutali ed incivili, aree di occupazione, anche nella Confindustria sopravvennero i nuovi responsabili e dirigenti della Repubblica di Salò.
Vi fu nominato, come commissario, un dirigente di federazione di categoria, già federale, che venne allocato in una città veneta e con fiduciari a Roma per una gestione asettica politicamente, affidata a funzionari tutt'altro che attivisti fascisti o filonazisti. A questi ultimi si deve, dopo la liberazione di Roma, la ricostruzione della rinnovata Confindustria, quella di oggi.
Marcata in senso repubblichino fu invece la condotta che fu imposta all'Artigianato, con la nomina a commissario di un ex suo direttore, squadrista, poi federale. Consensi quest'ultimo ne registrò ben pochi, con un trasferimento nel Nord rimasto in gran parte sulla carta, con il pronto licenziamento di chi non voleva seguirlo. Un elenco di questi, fra i quali chi scrive, fu trasmesso alla polizia che però non ne risultò in larghi suoi strati né interessata né tanto meno impegnata.
E così ognuno di noi pensò ai mezzi di possibile, ma necessaria sopravvivenza. Con alcuni colleghi iniziammo una sorta di società che si occupava del trasporto di documenti bancari nel Nord e di persone con due auto, un'Aprilia ed una Balilla, veterane anche allora.
Una di queste persone, dopo la liberazione di tutta l'Italia, è stato Enrico De Nicola, che per tornare a casa, e cioè a Portici, faceva ricorso ad un'auto più che modesta e noleggiata ai minimi di quei tempi. Della parsimonia e della scrupolosità di De Nicola nel rispetto del pubblico denaro, della sua estrema discrezione è ricchissima l'anedottica sotto i nostri occhi. C'è chi ricorda (ed è Biagi) che l'ultimo soprabito di De Nicola era rivoltato. C'è chi rievoca l'uso di De Nicola, Capo Provvisorio dello Stato, dell'auto del nipote anziché di quella di Stato, o la meticolosità nel verificare i conti del ristorante che gli serviva i pasti a Palazzo Giustiniani e nell'uso di francobolli da lui acquistati per l'invio della corrispondenza.
Io posso aggiungere che alla mia domanda perché si allontanasse da Roma proprio nelle giornate in cui di lui si parlava come Capo Provvisorio dello Stato, lui rispose che la ragione era proprio questa. Di lui nel periodo prefascista si diceva che aveva le dimissioni facili. Ma sono tanti i moniti che da lui derivano, in una realtà oggi così sconvolta proprio per i comportamenti che costituiscono tutto l'opposto di quanto fin qui abbiamo sottolineato.

SOLO ANSIOSA SOPRAVVIVENZA
Si sopravviveva, dunque, alla meglio. Le intimazioni naziste si susseguivano.
Rastrellamenti di giovani per il lavoro in Germania e di ebrei per tragiche destinazioni che la storia conosce si susseguivano giorno per giorno, fino alla tragica conclusione delle Fosse Ardeatine, con le tante vittime che per raggiungere un numero prefissato dal comando tedesco comprendevano anche chi era colpevole di inadempimenti in materia di oscuramento (!).
La forsennata ricerca di questo numero da parte tedesca rendeva possibile ogni pur immotivata inclusione. Potrei dire di esserne personalmente scampato, perché in quelle giornate, recandomi alla società editrice della Confindustria a Palazzo Bonaparte di Piazza Venezia per avere notizia del pagamento di mie precedenti collaborazioni giornalistiche, vidi che l'anticamera era occupata da qualche persona con il cappotto e che io ritenni fosse un usciere, come si usava a quei tempi, in cui ognuno pensava e difendeva la precarietà di quello che faceva.
Lì, invece, c'era la polizia, di un questore che se non erro si chiamava Caruso. L'editore, che mi conosceva, disse che ero lì per comprare qualche copia arretrata. Sennonché lì c'era un nostro collega, Italo Minunni, che, essendo redattore capo del settimanale della Confindustria, aveva ritenuto di nascondere lì lo schedario dei partigiani (mi sembra ex nazionalisti) di cui era a capo. Minunni, che avendo perduto parte dell'udito domandava ad alta voce al suo editore se cercassero lui, fu trasferito a via Tasso e forse non è andato alle Fosse Ardeatine perché al momento dei prelievi per quella destinazione era senza la gamba di legno impostagli dall'amputazione di guerra, ed i nazisti ritennero che un supplizio stesse conducendo a qualche cosa.
Io invece tornai a casa, e mi preoccupai di sapere dal cognato, il nostro collega Giovanni Artieri, cosa fosse successo. Mi fu risposto che quella sera Minunni non sarebbe tornato a casa. Vi tornava una diecina di giorni prima del 4 giugno.
Gran parte dei giornalisti romani, ed io fra questi, restavano muti, lontani da quanto scrivevano direttori ed inviati di guerra a Cassino o sul fronte di Anzio (con il consueto richiamo alla battaglia risolutiva che da un momento all'atro avrebbe dovuto sopravvenire), ma l'ancoraggio per tutti era Radio Londra. Quanti avevano capito allora erano tanti e non attendevano altro se non la conferma minuziosa, quotidiana, di quanto non poteva non essere la logica conclusione.
E questa conclusione l'ho cominciata ad intravvedere, allorché dal terrazzo di un palazzo occupato dall'organizzazione Todth, che effettuava rastrellamenti nazisti di giovani per occuparli nella produzione bellica in Germania, questa cominciò a togliere le proprie antenne radio. In quel giorno compivo, ma naturalmente non festeggiavo, i miei 35 anni. Ma già in quella serata gli alleati stavano per entrare a Roma, da Piazza San Giovanni.
Però con i Parioli distanti, dove abitavo, solo l'indomani vedemmo scorrere sotto i nostri balconi le truppe nordamericane con i carri armati al loro centro. Molte di queste truppe non si fermavano a Roma, ma ricorrevano i tedeschi lungo la via Cassia.
Roma entrava in un vero e proprio tripudio, con questi americani che stupiti anch'essi di essere a Roma avevano le braccia aperte per abbracciarti e che come tessera di riconoscimento (illusi però anche loro, di fronte ai continuatori di una civiltà millenaria) avevano il pane bianco (forse di farina di riso), le sigarette, le tavolette di cioccolato. La gente però applaudiva lo stesso, perché si era liberata di tante cose in un io che solo allora sopravveniva.
Poi non sono mancati i soliti e non esemplari episodi punitivi di questa o quella fazione, cui si imputava a ragione, ma pure a torto, il tanto che era costato a chi anelava appunto alla libertà.
Ed a questi cominciava ad affiancarsi anche la stampa. Una stampa di partito, una stampa che con l'autorizzazione statunitense aggiungeva un "nuovo" alla vecchia testata, una stampa che faceva pure la satira politica (ricordo il Cantachiaro) se non erro, ma che indulgeva anche ad esplicite denunce nominative. Una stampa, quest'ultima, che faceva arbitrariamente la parte di Di Pietro, in anticipo di 49 anni.
Nasceva in quelle giornate o poco dopo anche "Il Tempo" di Renato Angiolillo, con il corredo di mille lire, con due possibili consoci, Oreste Mosca e Giovanni Artieri. Angiolillo aveva avuto come precedente socio Leonida Repaci, ma ora cercava una nuova strada. Quelle delle due facciate di quotidiano, ma in esse riusciva a comprendere anche le varie puntate del diario di Ciano: un bestseller, si direbbe oggi, ma un documento storico per chi vuol capire gli ultimissimi anni del Ventennio. Gli americani lo avevano compreso ed Angiolillo, anche se fra l'altro è vero che i diritti di autore sono stati da lui acquistati dagli americani (l'agenzia INS?).
Con Angiolillo poi ho sempre avuto a che fare, dopo. Nel 1970 insieme abbiamo avuto sul Campidoglio la medaglia d'oro di appartenenza per un quarantennio all'Associazione della Stampa Romana. Negli anni '60 era stato compreso fra i possibili titolari della sezione economica del giornale, ma non se ne fece nulla perché io non intendevo entrare in concorrenza con altri (e questi era Vittorio Zincone), che poi per pubblicazioni della Confindustria ("Cronache Parlamentar? da deputato) divenne mio collaboratore. Negli ultimi anni del '40 allorché da un suo amico e corregionale, come me con lui, lucano, gli fui segnalato per scrivere per il suo giornale. Qualche cosa allora ho fatto. Ma più importante per me è il fatto che egli trenta anni dopo, senza prima averlo rivisto, mi ha riconosciuto, ripeto fisicamente, dicendomi chi ero.
Molti anni dopo e poco prima della sua morte l'ho incontrato per strada, ma non mi ha riconosciuto ed io aggiungo che la cosa come era inavvertita per lui rimase senza seguito anche per me. Angiolillo, che a casa aveva - come si diceva - piatti d'oro sui quali si soprapponevano quelli di porcellana, che abitava in un appartamento sulle scale di Trinità dei Monti, a me non estraneo perché già di proprietà del nonno di mia moglie, aveva pure il vezzo di tingersi i capelli (e si vedeva) e di portare a guinzaglio un cane di genealogia britannica, mentre lui indossava un'anglosassone bletzer. Tutto ciò per lui certamente intelligente era un risveglio, ed io, lucano come lui, ho cercato di praticarlo più che come risveglio, probabilmente come riscatto.
Ho parlato tanto di Angiolillo, non solo perché abbiamo queste cose in comune, ma perché agli altri è stato facile dimenticarlo, pur in una storia del nostro giornalismo che in 50 anni non ha tante cose da dire, oltre la dimensione e la tecnologia dei tempi. Quelle da me rievocate certamente, almeno per quelli della mia generazione, mi appaiono da non dimenticare.
"Il Tempo": lo aveva fondato Filippo Naldi, lo ha ripreso Angiolillo, dopo essere passato dall'esperienza di Leonida Repaci, con un giornale a Via IV Fontane: è oggi con la sottotestata "Il Tempo di Roma".
Quanti anni e quanti adeguamenti. Ma tutti questi ultimi per tante testate lo sono o hanno a che fare anche con quelli che una volta in campo bellico venivano chiamati ripiegamenti tattici?
Con il 1945, due mesi circa prima della fine del primo semestre, ma poi più decisamente dopo nel corso del secondo semestre l'Italia tutta intera cominciava a vivere e a comprendere che per essa il futuro era già cominciato. E' un 1945 che per me con i suoi 365 giorni ha avuto lo spazio di una giornata, quello dell'inizio della mia nuova vita fino ad oggi. Su quest'anno gli storici ed i politici ci hanno costruito sopra tante cose: probabilmente molte vere, altre invece solo aridamente emblematiche per una storia da verificare o per lo meno da motivare più profondamente.
La Roma di questo '45 ha visto tante cose: l'alternanza nel Governo; un Togliatti ministro della Giustizia con la porta aperta alle epurazioni ma anche ai condoni; un conte Sforza che come aveva detto di lui Nitti, mio compaesano (ma da bambino sono stato sulle sue ginocchia perché le relazioni pubbliche dei politici si facevano pure allora anche così), portava la sua testa come il Santissimo; con un Andreotti che avendo frequentato con De Gasperi la stessa biblioteca vaticana (lui però faceva ricerche con aspirazioni scientifiche, ma il leader democristiano era lì solo per compiacenza o comprensione vaticana di rifugio e di sopravvivenza) diveniva sottosegretario, per non lasciarci mai più (questa per lo meno è stata la sua pretesa, fino a quando non è diventato senatore a vita: a vita sottolineo, per far capire che può fare a meno di noi).
Per quanto mi riguarda, questo '45 ha significato prima solo il mio intento di cambiare strada e di fare addirittura l'agricoltore, senza saperlo fare, ma credendo che bastasse comprare una terra (a Buon Convento, in provincia di Siena, poi miseramente ed inavvedutamente venduta) ed essere preparato con l'ausilio di piccole pubblicazioni della Federconsorzi, che mia moglie fiduciosa in me molto di più di me stesso mi aveva acquistato. A mio vanto devo dire che mai nessuno nella sua esistenza mi ha dato tanto fiducia e pure ispirazione, quanto invece mi sia stata data da mia moglie.
Lei non è più con me, ma io anche per queste ragioni del mio ieri penso solo se Lei è accanto a me. E questo è il mio vanto, ma anche il mio tormento: entrambi però mi tengono compagnia e mi fanno passare da una giornata all'altra.
In quelle giornate del '45 con le Amlire, con un orologio d'oro che poteva essere pignorato per 50 lire, con una camera d'aria di auto che veniva venduta a 2000 lire, e con tanti sacrifici alle spalle non tutti reali ma comunque messi nei conti comprai a mia moglie un cane ed un bracciale solo umilmente d'argento. Ma né io, né mia moglie immaginavamo che ci fosse anche l'oro: sempre a noi estraneo, perché nel più o nel meno sapevamo che si doveva farne a meno.

DARSI UNA REGOLATA
Il "45" finisce qui. Ma tutti sappiamo che dobbiamo darci una "regolata", come si dice a Roma. Ed io una "regolata" riesco a darmela, non tanto per le mie capacità (quali esse siano state o immagino che siano), ma perché avevo 36 anni, un figlio di dieci, una moglie nello spirito più giovane di me.
Riesco così ad ottenere la responsabilità del servizio economico di un quotidiano di Roma, a sole due facciate, che si chiamava "Italia Sera" e che mi ha fornito le prime risorse per far camminare la mia famiglia e me stesso.
Chi ha fondato questo giornale, con intuizioni nel tempo, è il figlio di un giornalista mio amico. Primo funzionario del Minculpop ed inventore di iniziative in quell'ambito, tanti anni dopo portavoce del gruppo senatoriale della DC ed oggi infine, con me stupito per la sua età quasi pari alla mia, deputato della Lega.
L'editore di questo quotidiano a due facciate, con chiara ispirazione di un modello francese con redattori poi noti, con un corrispondente dalla Capitale già famoso autore di romanzi gialli (la vita cittadina andava registrata anche con questa inconsueta visuale), era un industriale tessile ed immaginava per sé e la sua banca un destino non diverso da quello dell'imprenditore tessile di tanti anni prima che era riuscito a creare l'Enciclopedia Treccani.
Due fatti di questo periodo balzano alla mia mente. Il primo è che, oltre a non sapere quello che erano i commenti di Borsa, che pur dovevo fare, ne cominciai a comprendere fenomeni, termini, tendenze e così nella mia vita successiva ho camminato con loro. il secondo fatto è che dovevo non solo scrivere gli editoriali del proprietario che comparivano settimanalmente sul giornale e che l'editore commissionava al direttore e questi ne incaricava me, ma anche elogiare i miei stessi scritti, quando il parere su di essi più veniva richiesto dall'editore stesso consapevole di siffatto contesto. Però parlare bene di se stesso non piace a chi di questo se stesso è consapevole. il secondo fatto si riferisce ad un'inattesa mia funzione vicaria della direzione e della gestione di questo giornale, solo perché il suo direttore, il deputato di Lega oggi, si accingeva ad assumere la dirigenza a Milano dell'Uomo Qualunque e cominciava così a pensare ad altre cose. C'era suo padre in quel giornale, Romualdo, che dal figlio era chiamato per nome; a me toccò lo stesso di sostituirlo. Ed io lo feci, pur aprendosi a me i varchi di nuovi sbocchi, quello dell'Artigianato, come dirò dopo.
Ed ho mandato avanti questo quotidiano per alcune settimane. Dopo, il referendum, che aveva giustiziato la monarchia, ma il giornale aveva fino all'ultimo tenuto i contatti con gli ambienti del Re di maggio.
Lasciavo a quei tempi il giornale alle prime ore del mattino, dopo aver dato qualche direttiva e vi ritornavo a mezzogiorno, perché avevo dovuto assolvere i miei nuovi compiti di lavoro, che ovviamente mi interessavano di più: perché promettevano continuità. A Piazza S. Silvestro, c'erano gli strilloni che annunciavano i titoli del giornale: non ne sapevo naturalmente niente, perciò li temevo. il giornale, con la sua linea meno incandescente (posso adoperare questo aggettivo?), conquistava qualche centinaio di copie, ma finiva lo stesso. Non era più il suo tempo ed il mio per riprendere doveva mutare lo stesso. Come?
Su questo giornale "L'Italia Sera", io potevo ancora titolare una pagina con "Un Gronchi nostalgico del corporativismo", perché allora da ministro dell'industria gli piaceva il solidarismo cattolico che ad un certo punto, o prima o nel finale, era ai miei occhi anche corporativismo senza crismi, ritornato così a nuova vita.
A sua volta la Confindustria, a quei tempi, sapeva di essere perenne, ma sapeva pure di dover motivare la sua perennità. Quanti se ne preoccupavano erano sempre solitamente gli stessi: per me, una élite. La loro vita stessa aveva le proprie radici in questa Confindustria. Non è necessario ricordare i loro nomi. Perché chi li ricorda come me li ha scritti nel cuore, e gli altri non potranno mai leggerli, e chi non li ricorda non ne sa o ne vuol sapere assolutamente nulla. Appartengono cioè ad altri tempi, con i quali i sopravvenienti fanno capire di non aver nulla da spartire. Ma purtroppo per loro non è vero.
Una di queste voci, della Confindustria, alla vigilia della fine del '45 o all'inizio del '46 - non lo ricordo, anche se la sua precisa determinazione per me significa l'inizio stesso di quasi mezzo secolo - mi disse: tu non ti fai vedere? Farsi vedere nella ripresa per a continuità con il passato, con questo mio passato, e nella prospettiva, attesa, di qualche cosa di nuovo, e comunque nell'ansia insoddisfatta, ma da soddisfare, di chi allora aveva 36 anni: con quanto da conquistare ancora e con quanto pure da correggere, per conquistare davvero.
Torno così alla Confindustria per occupare una sorta di sgabello - l'arredamento in questa ripresa era ovviamente arrangiato - e riprendere ad occuparmi dell'Artigianato, con sopravvenuti, come espressione di categoria, un democristiano prima mimetizzato, un sarto che cominciava a scoprire l'organizzazione di mestiere, un titolare di imprese tutto fare: lustrascarpe, pompe funebri, pulizia domestica. Il cosiddetto artigianato artistico, quello prima predominante, era evidentemente per suo minore attivismo distante dai vertici.

"FARSI VEDERE"
La prima metà degli anni '40, che ha attraversato il tragico buio della seconda guerra mondiale e la folgorante nascita di un nuovo mondo anche per il nostro Paese, si concludeva per molti di noi solo con attese, prima ancora che con mirati progetti e concrete speranze.
Ma "il tunon ti fai vedere?" di cui ho detto e che mi veniva da una voce amica della Confindustria dette un nuovo corso a tutta la mia esistenza, in una netta continuità di motivi e valori: quattro decenni.
C'era allora un modello di Confindustria, ispirato alla Casa ed allo stile di essa. Ne era fedele interprete, a livello dirigenziale burocratico, un sardo, più che mai vivo nel mio cuore, perché io ho sempre ambito di somigliargli e lui mi comprendeva fra quanti nel passato aveva fatto qualcosa per la Confindustria ed avevano la possibilità - lasciamo perdere la capacità - di continuare a farla.
I tempi, ma ricordiamoci che sono gli uomini a farli, sono cambiati. La Confindustria oggi è un'altra cosa. Chi ci è stato, a tutti i livelli, è dimenticato. Gli stessi memori, definiti comodamente nostalgici, sono stati resi muti dal tempo. Però tante critiche, autocritiche, intenzioni programmatiche, ecc. di oggi, nella Confindustria, dovrebbero a mio giudizio meglio interrogare quanto c'è alle spalle. Sennonché, come so, tutto ciò è affidato ai computers, i quali pretendono di registrare tutto, ma tecnologicamente sono per forza monchi, puntuali certo per molte cose, velleitari per tante altre.
Una prima metà degli anni '40 così, dunque, alle nostre spalle. La seconda metà innanzi per rievocarne, purtroppo senza diari - quasi sempre presuntuosi - alla mano, tempi e fatti, in forza di una memoria che pur nel suo impegno di massima obiettività è sempre selettiva. Ciascuno, anche il più serio e responsabile, non potrà mai promettere di più.

(5 - continua)


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