§ Ricordando Michele Pannunzio

L'utopia del "Mondo"




Giovanni Spadolini



Sono trascorsi venticinque anni dalla scomparsa di Michele Pannunzio, ma se egli potesse vedere l'Italia di oggi, gli apparirebbe senz'altro lontana anni luce da quella che aveva sognato. Nella politica Pannunzio vide sempre l'esercizio di una missione, il compimento di un dovere civile. L'assolvimento di un mandato pubblico. Egli rifuggiva da ogni soluzione prefabbricata nella sua astratta perfezione e aveva delle istituzioni della Repubblica, oggi oggetto di ingiusti e indiscriminati attacchi, un senso religioso.
"Le istituzioni sono anche passioni": questo pensiero di un amico che gli fu caro, Vittorio De Caprariis, fu da lui ripreso in una delle poche pagine riassuntive del proprio pensiero che ci abbia lasciato la prefazione alle postume Garanzie alla libertà dello storico e amico stroncato a trentanove anni. -E' una esclamazione che potremmo trovare in Tocqueville": aveva osservato Pannunzio, aggiungendo che De Caprariis come lui "non credeva nelle città felici, non preparava liste per le trattorie dell'avvenire".
Ecco, oggi possiamo politicamente rilevare un fatto fondamentale: forze di cultura illuministica e laica, assolutamente minoritarie e una volta quasi marginali e irrilevanti nella vita italiana, hanno condizionato quasi tutti i movimenti della politica italiana in questo quarantennio.
Il Mondo non è stato solo un'avventura. Da via Campo Marzio è partito un processo di rinnovamento della società italiana - dalla politica al costume - che nel '49, quando uscì il primo numero del settimanale, sembrava quasi irrealizzabile.
C'era, nel giornale pannunziano, un innesto tra politica e cultura, quale non si era ancora realizzato in nessuna delle prove giornalistiche del periodo post-bellico, pur caratterizzato dalla novità, tutta italiana, del rotocalco, del settimanale tipo Europeo dovuto al fervore e all'iniziativa di Arrigo Benedetti, allievo di Omnibus come Pannunzio.
Pannunzio non sarebbe stato, in nessun caso, un direttore di stampo l'antologico" o "indifferente", secondo una moda tanto rapidamente invalsa quanto fulmineamente smentita. Difensore fermo di una certa concezione del mondo, egli l'avrebbe impressa in ogni pagina di quell'ideale quotidiano. Non avrebbe scambiato l'obiettività del giudizio con la rinuncia all'opinione, qualificante, se necessario severa e spietata.
Essere indipendenti, risoluti, intransigenti: ecco in sintesi la regola che Pannunzio tracciando un bilancio degli organi di informazione democratica, indicava al giornalista. Una regola che suona come un monito da non dimenticare mai.
Lo stile dei Mondo fu fin dall'inizio uno stile di assoluta unità. Voci diversissime confluirono nello straordinario settimanale, ma mediate e contemperate da questo direttore che scriveva pochissimo, che leggeva tutto, che rispondeva a ogni collaboratore, che credeva ancora nella scoperta - cui oggi si è rinunciato - dei talenti. Solo a Pannunzio riuscì a far convivere le pagine di Croce e di Salvemini, gli sfoghi di Sturzo e quelli di Ernesto Rossi; ma il suo amore dei "classici" non lo portò mai a sottovalutare l'apporto dei giovani o dei giovanissimi, l'individuazione di voci nuove, che egli cercava anche nella pigra e torpida provincia italiana.
Tutte le rubriche al loro posto, vigilato e perfino immobile: niente di eccentrico o di stravagante, quasi la ricerca, anche tipografica, di una nuova classicità, ma calata nella realtà viva dei problemi confrontata con le tensioni di una società nuova, cui non bastavano più gli approdi, o i compromessi, o gli adattamenti dell'immediato dopoguerra.
Riandiamo con la memoria al primo numero, del 19 febbraio 1949. Ricordo quella prima pagina, concepita con l'impostazione quasi rondiana che ospitava il fondo di Augusto Guerriero (ma pubblicato con la misurata firma "Anonimo") e l'articolo di taglio basso del ministro degli Esteri in carica Carlo Sforza: due importanti contributi che segnavano per sempre la scelta occidentale ed europeista dei Mondo: il settimanale che non indulgerà mai, nei suoi diciotto anni di vita, alle tentazioni terzomondiste, equidistanti, mediterranee, quelle che tanto avevano atterrito Gobetti.
Ricordo quegli anni, quelle speranze, quelle tensioni. Gli uomini che approdavano all'esperienza del Mondo avevano origini diversissime. Pannunzio proveniva dall'esperienza della Resistenza e della Liberazione. Il nucleo dirigente del settimanale si rifaceva ad un giornale che era stato quasi promotore della prima crisi di Cnl, il Risorgimento liberale, un giornale che si era mosso in costante polemica con i fermenti e con le attese del Partito d'Azione.
Il termine "liberalsocialismo" non era affatto di casa a via Campo Marzio: anche nella fase più progressista del liberalismo del Mondo. E Pannunzio non era né punto né poco un gobettiano.
Proprio Gobetti, il giovane apostolo della rivoluzione liberale, che influì direttamente o indirettamente sulla cultura politica degli uomini del Partito d'Azione - penso a Ferruccio Parri, a Carlo Levi, a Leone Ginzburg, a Franco Antonicelli - nell'immediato dopoguerra non era fortemente difeso dalla cultura liberal-democratica. Pesava la condanna, così severa, di Adolfo Omodeo, e pesavano i giudizi non certo favorevoli di Benedetto Croce e di Luigi Salvatorelli.
E' in questo quadro che si spiega la resistenza di Pannunzio a frequentare gli scritti gobettiani, nei primi anni, quando una mia certa proposta in materia fu respinta (io avevo esordito come giornalista militante proprio con uno scritto su Gobetti e la rivoluzione mancata in Italia, sul Messaggero di Missiroli, agli inizi del 1948).
La radice intellettuale del Mondo era insieme crociana e salveminiana, con quell'intreccio fra liberalismo e democrazia che ritroveremo nella rivista Nord e Sud di Francesco Compagna. E sappiamo bene quanto fosse forte e con punte d'ingiustizia la polemica di Croce verso il Partito d'Azione, animato proprio da discepoli o amici del filosofo che si erano poi affrancati: a partire da Omodeo e da De Ruggiero, che non potranno vedere il primo numero del Mondo.
La terza forza progettata a via Campo Marzio era legata al filone del liberalismo di sinistra (approdato all'esperienza radicale) e al filone insieme repubblicano ed azionista, nato dalla confluenza della "Concentrazione" di La Malfa e Parri nell'antico partito di democrazia risorgimentale. La breve parabola del "terzaforzismo" socialdemocratico era durata dal '47 al '49, poco più dello spazio di un mattino.
Saragat frequentava poco il salotto del Mondo. S'incontrava con gli amici del Mondo la sera, prevalentemente al Caffè Rosati, quello rievocato da Eugenio Scalfari. E il primo progetto della "terza forza" si arrestò di fatto di fronte all'indisponibilità socialdemocratica rispetto ad un cartello borghese, o solo democratico-liberale. Si iniziava la seconda fase della "terza forza" in Italia guidata e impersonata, si può dire, per oltre un ventennio, da Ugo La Malfa, crede diretto dell'impostazzione azionista non socialista, interprete coerente dello schema amendoliano dell' "Unione democratica nazionale" come germe di un "partito della democrazia" senza aggettivi, il partito chiesto e delineato già nel luglio del '45 da Luigi Salvatorelli sulle colonne della Nuova Europa.
"Terzaforzismo" come forza democratica e riformatrice non socialista. Nessuna confusione con il socialismo con le sue varie e vaste articolazioni, ma anzi funzione propulsiva del suo riscatto autonomistico (dal Congresso di Venezia in avanti). Riunire i repubblicani, i democratici senza etichette i liberali di sinistra diventati, dopo la fine del '55, "radicali", in seguito alla scissione dal Pli di Malagodi. Prova non fortunata elettoralmente, l'alleanza repubblicano-radicale delle politiche del '58. Linea di tendenza: quella "ricomposizione" repubblicana culminata, col '64, nella segreteria La Malfa e nei conseguenti, nuovi apporti intellettuali.
Senza l'utopia di Pannunzio, l'Italia sarebbe oggi meno laica e meno europea. Ma c'è ancora molta strada da percorrere per quell'Italia diversa e migliore di cui Il Mondo ha costituito un grande punto di riferimento. Che rivive oggi nelle nostre battaglie civili e politiche.
Pure in mezzo a tante amarezze e tanti disinganni. Accentuati in questi mesi da tutti i fattori di disgregazione e di arretramento che incombono sulla Repubblica.


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