§ Dibattiti

Chi non crede alla deflazione




Innocenzo Cipolletta



Condizionati da uno scetticismo atavico, alimentato da molte disillusioni, gli italiani credono poco alle azioni proprie o altrui. E' così che, anche quando si fanno azioni corrette e si ottengono i risultati voluti, invece di essere riconfortati, ci si meraviglia e si attribuiscono tali risultati a fenomeni casuali o immanenti o comunque estranei alle azioni che li hanno prodotti.
Mi riferisco al calo dell'inflazione e alla stravagante ridda di illazioni di quanti si affannano a dimostrare che l'inflazione è scesa in Italia a causa di fatti esterni e indipendenti dalla nostra volontà (la recessione piovuta dal cielo) e non già come conseguenza evidente di un'azione - controversa e combattuta - che ha condotto a un accordo sofferto ove lavoratori e imprese hanno sancito la fine della scala mobile e l'avvio reale di una politica dei redditi.
Eppure, tutti questi scettici si erano affannati a ripetere nel passato (negli ultimi vent'anni) che la congiuntura (o meglio, la recessione) non avrebbe mai consentito di contenere l'inflazione, la quale proveniva dai meccanismi dei costi interni e dalla bassa produttività dei servizi (ossia, da un aumento di occupazione dei servizi anche in fase di recessione).
A dimostrazione di tali teorie, sono state avanzate analisi convincenti, tanto da coniare nuovi termini entrati nel lessico comune: la stagflazione, ossia il misto di inflazione e recessione.
Le prove che venivano addotte le ricordiamo tutti: la recessione del 1975, quando il Prodotto interno lordo scese in Italia del 2,5 per cento e l'inflazione fu del 17,5 per cento; la lunghissima recessione del 1980-1983, quando, nel corso di tre anni di completa stagnazione produttiva, si registrarono il calo della produzione industriale del 7,6 per cento, la riduzione dell'occupazione industriale del 4,5% e l'esplosione della Cassa integrazione guadagni fino a 747 milioni di ore nel 1983 (cifre ben superiori a quelle a cui assistiamo oggi): ma l'inflazione si stabilizzò intorno al 16 per cento e tutti erano convinti che la causa fosse l'indicizzazione dei salari, tanto che si arrivò al taglio della contingenza del 14 febbraio 1984, e al conseguente calo dell'inflazione. Ma possono essere addotti esempi più recenti. Nel corso del 1991 la produzione industriale è scesa del 4 per cento circa, a un ritmo, quindi, superiore al calo conosciuto negli ultimi mesi del 1992, eppure l'inflazione rimase attorno al 6 per cento.
Finalmente, nel 1992, dopo tante discussioni, le parti sociali si accordano per una politica dei redditi, accettando quanto avevano fin lì predicato intere generazioni di economisti, con responsabilità più o meno diffuse nelle istituzioni pubbliche, ed ecco che tutto ciò che era stato detto viene smentito dagli stessi: il calo dell'inflazione attuale -secondo molti commentatori qualificati -sarebbe la conseguenza di una recessione che ha indotto le imprese a tenere bassi i prezzi (chi avrebbe avuto il coraggio di fare una simile affermazione solo dodici mesi fa!), ma essa rimbalzerà non appena la recessione sarà finita. Insensibili all'evidenza, tali commentatori continuano a guardare ai prezzi dei servizi e ai loro "perfidi" comportamenti.
Ieri i servizi venivano condannati per la bassa produttività; oggi vengono denunciati perché, in presenza di un calo di domanda, essi riducono l'occupazione pur di non ridurre i profitti (ciò che costituisce in effetti la risposta non inflazionistica per tanto tempo sospirata da tutti).
In effetti, la mentalità inflazionistica è tanto radicata nel nostro Paese che non si percepiscono neppure le modifiche auspicate per anni e si continua a ragionare come se nulla fosse cambiato, con ciò rischiando di punire gli sforzi di quanti - lavoratori e imprese - si sono impegnati con determinazione e con costi sulla via del risanamento.
E' a questa mentalità che si deve la reticenza nel ridurre il costo del denaro, malgrado un calo dell'inflazione dovuto a modifica di meccanismi e di comportamenti, penalizzando così investimenti e occupazione, e rischiando di far fallire il patto di politica dei redditi. E' a questa mentalità che si devono le resistenze sindacali di quanti "lottano" per incrementare il potere d'acquisto del salario, senza rendersi conto della "moria" di posti di lavoro. E' a questa mentalità che si devono ascrivere le reticenze ad avviare piani di sviluppo aziendale fondati sulla possibilità di conquistare quote di mercato interno e internazionale che non saranno cancellate in futuro da nuove ondate inflazionistiche di origine interna.
Contro tale mentalità, e pur non avendo la pretesa di prevedere con certezza quale sarà nel futuro l'evoluzione dei prezzi in Italia, è bene sottolineare che:
1) la modifica dei comportamenti inflazionistici e la caduta della scala mobile non sono eventi contingenti capitati per caso e quindi rapidamente reversibili: essi provengono da un lungo periodo di confronto fra le parti sociali, di analisi e di comportamenti che avevano condotto l'industria italiana a politiche di prezzo frenato e che hanno indotto i sindacati dei lavoratori ad accettare la fine delle indicizzazioni e nuove forme di relazioni industriali;
2) la recessione italiana non è solo il portato di un evento esterno, ma deriva anche da una politica di aggiustamento interno, fatta di riduzione delle dinamiche salariali e di aumento della pressione fiscale; il calo dell'inflazione non è il prodotto della recessione, semmai è vero l'inverso: la recessione èla conseguenza anche del calo dell'inflazione che deriva, a sua volta, dalla manovra di aggiustamento;
3) l'eliminazione della scala mobile e la moderazione salariale riguardano per la prima volta anche i famigerati servizi e, quindi, si pone come condizione essenziale per un rallentamento dell'inflazione in questo comparto che ha iniziato ad avviare anche comportamenti non inflazionistici, attraverso un calo dell'occupazione e un aumento di produttività;
4) i comportamenti italiani sono del tutto simili a quelli degli altri Paesi europei che hanno inflazioni più basse di quella italiana, per cui l'effetto svalutazione della lira si è già prodotto in buona parte attraverso il differenziale di inflazione che ancora abbiamo rispetto agli altri Paesi;
5) la svalutazione della lira non porta necessariamente a una accelerazione dell'inflazione, perché i produttori degli altri Paesi stanno riducendo i loro prezzi al fine di non perdere quote di mercato e possono farlo perché sul mercato italiano avevano margini di profitto elevati, conseguiti nei tre anni di lira stabile e di forte inflazione interna: per gli scettici, rimando all'esperienza della svalutazione del dollaro statunitense del 1985 e a tutte le analisi che dimostravano come gli esportatori stranieri avrebbero ridotto i prezzi sul mercato Usa;
6) le imprese italiane non dovranno recuperare margini di profitto sul mercato interno, sia perché i costi interni stanno frenando sia perché potranno recuperare margini di profitto sulle esportazioni, senza perciò ledere il recupero delle quote di mercato.
Bastano tutte queste affermazioni per sedersi tranquilli e aspettare il calo dell'inflazione? Certo che no, né sono da escludere taluni rimbalzi dell'indice dei prezzi. E' invece necessario che continui la politica di contenimento del disavanzo pubblico, che si evitino interventi corporativi sul mercato del lavoro (tipo blocchi dei licenziamenti e delle privatizzazioni) e sui salari del pubblico impiego e che si definiscano nuove relazioni industriali.
Ma intanto occorre avere anche il coraggio di credere nelle proprie azioni e di agire di conseguenza per non buttare alle ortiche ciò che èstato già fatto e per evitare politiche monetarie inutilmente recessive e tali da rinforzare le aspettative inflazionistiche. E' evidente che tassi di interesse elevati senza un'inflazione in ascesa indicano la non credibilità dei comportamenti in atto e quindi spingono gli operatori a garantirsi contro rimbalzi inflazionistici, con ciò ponendo le basi per una nuova ondata di inflazione che verrà a corroborare l'aspettativa, in un circuito perverso nel quale rimane schiacciato chi ha creduto nella politica dei redditi.
E' appena il caso di notare, in questo contesto, che il calo di 0,50 per cento del tasso di sconto deciso il 3 febbraio segue, ed è pari, al calo del tasso di inflazione (passato dal 4,8 in dicembre 1992 al 4,3 per cento nel gennaio 1993): sicché i tassi di interesse reali sono rimasti inalterati e superano - con riferimento al saggio di sconto - il 6 per cento. Tassi di interesse reali così alti non consentono alcuna ripresa e sottintendono una sfiducia nel processo di aggiustamento dell'inflazione.


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