§ Opinioni

Quest'Italia verso l'Europa




G. Agnelli, G. De Rita, U. Castronovo, C. De Benedetti, M. Deaglio



Da tempo si parla di un'Europa a due velocità nella quale l'Italia resterebbe nelle posizioni di retroguardia. E' una prospettiva non inverosimile, ma è anche inaccettabile, per l'Europa e soprattutto per noi. Per l'Europa sarebbe un impoverimento del grande disegno unitario - per noi sarebbe la delusione delle speranze alimentate fin dal 1957, quando firmammo il Trattato di Roma. Sarebbe un arretramento dal ruolo internazionale e dal livelli di benessere che abbiamo faticosamente guadagnato nel corso di questi decenni.
L'apertura internazionale e l'inserimento nell'Europa ci pongono a confronto diretto con Paesi più avanzati e più organizzati e quindi per sostenere questo confronto è necessario che le nostre risorse umane siano poste in grado di esprimersi nella loro piena capacità. Soprattutto dobbiamo dare opportunità di esprimersi a quella quota di risorse umane inutilizzata, o sottoutilizzata, che è rappresentata dal nostro Mezzogiorno. L'Italia, infatti, ha nel Sud oltre un terzo della sua popolazione, ma produce al Sud non più di un quarto del suo reddito complessivo. Sono cifre che danno il segno di una anomalia che non è stata ancora sanata, malgrado i numerosi interventi finanziari effettuati in oltre quarant'anni.
La prospettiva di un mondo diviso in grandi aree dì potenza economica comporta per noi l'alternativa di far parte dell'Europa o di restare una realtà marginale nel gioco della competizione globale. Può essere che, in futuro, l'Italia diventi uno dei "Lander" nella grande nazione europea. Ma per essere nell'Europa, per contare nell'Europa, dobbiamo presentarci ad essa come un Paese unito nella sua dimensione economica e civile. E' necessario, allora, che tutti facciamo la nostra parte, che tutti ci mettiamo a lavorare con serietà e con una comune volontà di rinnovamento.
Giovanni Agnelli
Presidente della Fiat

Opinioni

Credo sia necessario dire che in questi anni Novanta l'Italia non sembra avere la stessa velocità di cambiamento dei due decenni precedenti: negli anni Settanta (al di là delle vicende politiche anche drammatiche) avevamo visto l'esplosione della vitalità di base del sistema attraverso lo sviluppo impetuoso della piccola e piccolissima impresa e l'affermazione forte di centinaia di rampanti economie locali; negli anni Ottanta avevamo visto il grande impatto di modernizzazione di alcuni grandi processi (la ristrutturazione delle imprese, la terziarizzazione, la finanziarizzazione, l'avvio dell'internazionalizzazione); negli anni Novanta sembra che non siano ancora scattati nuovi meccanismi e nuove sfide di ulteriore sviluppo.
Si possono naturalmente capire le ragioni internazionali ed interne dell'attendismo italiano. Sull'estero si è dapprima registrato il generalizzato rallentamento congiunturale, e si sono poi avute le note vicende politiche (crisi del Golfo, convulsioni in Europa orientale, Jugoslavia, ecc.). Sul piano interno hanno giocato da un lato una sorta di stanchezza appagata, dopo le corse dei lustri precedenti, e dall'altro lato una inattesa lentezza di riflessi: l'economia più flessibile e adattiva degli ultimi decenni si è trovata strutturalmente complessa ed, in più, appesantita dagli alti costi e dalla bassa qualità dell'apparato pubblico; e quindi incapace dell'agilità di comportamenti che è necessaria in una fase di acceso confronto competitivo con le altre economie.
Averne compreso le ragioni non è però sufficiente per uscire dall'attendismo attuale: Occorre una forza vitale interna che riscopra la direzione di marcia su cui incamminarci in questo decennio. Il nostro sviluppo è sempre stato uno sviluppo "di massa", nel senso che ha sempre coinvolto tutta la società e non soltanto alcuni protagonisti di punta; e quindi dobbiamo sviluppare una convinzione di massa sull'esigenza (e sugli obiettivi) del rimetterci in cammino. Andiamo allora in Europa, perché quello è il nostro destino, per cui tanti di noi hanno lavorato; ma andiamoci con un "europeismo pieno", capace di far sentire a tutti che sull'Europa ci può essere quella mobilitazione di massa senza la quale l'Italia non si muove. Altrimenti, con un europeismo parziale, rischiamo di accentuare il nostro collettivo, circospetto attendismo.
Giuseppe De Rita
Presidente del Cnel
Segretario generale del Censis

Opinioni

E' un'antica vocazione l'apertura dell'Italia al mercato internazionale. In primo luogo perché un Paese come il nostro, quasi del tutto privo di materie prime e di combustibili, ha sempre avuto bisogno di procurarsi degli adeguati sbocchi commerciali all'estero, per ottenere in cambio i materiali e le risorse energetiche di cui mancava. In secondo luogo, perché il potere d'acquisto della sua popolazione è rimasto per lungo tempo assai basso e non era quindi possibile far conto unicamente sul mercato interno per crescere e svilupparsi. Basti pensare che alla data dell'unificazione nazionale il reddito pro capite degli italiani era appena un quarto di quello degli inglesi e nemmeno un terzo di quello dei francesi.
Tra la prima e la seconda metà dell'Ottocento fu soprattutto l'esportazione di sete e di prodotti agricoli a far da battistrada al nostro ingresso sui mercati internazionali. Dal Piemonte e dalla Lombardia organzini e filati raggiungevano le piazze di Lione e di Londra lungo gli stessi itinerari che da secoli, in alcune stagioni dell'anno, percorrevano anche gli artigiani e i manovali delle vallate montane in cerca di lavoro nelle contrade d'oltralpe. Dalla pianura padana venivano convogliati verso i vicini cantoni elvetici, l'Austria, i mercati di Marsiglia e Parigi, i Paesi del Nord Europa, anche grossi quantitativi di riso e di granaglie, di vini e liquori, di pelli da concia. E proprio questo crescente movimento di merci e di derrate aveva concorso alla costruzione nel Nord del Paese delle prime strade ferrate a lunga percorrenza e al miglioramento delle vie di comunicazione, allo sviluppo di banche e case commerciali, alla realizzazione del traforo del Frejus e ai progetti del Gottardo e del Sempione, all'ammodernamento delle attrezzature portuali di Genova. Iniziative, queste, che a loro volta richiamarono pure consistenti investimenti di capitali e tecnologie dall'estero.
Anche l'esportazione dalle regioni del Mezzogiorno di olio, vini e prodotti ortofrutticoli, per quanto più difficoltosa per la lontananza dei principali centri di consumo, era andata crescendo. Tanto da rappresentare la principale voce attiva dell'economia meridionale, che già allora accusava tuttavia un forte divario rispetto a quella delle regioni settentrionali.
Sennonché, nell'età dell'acciaio e del vapore, la penisola sarebbe stata condannata inevitabilmente a un ruolo marginale, se avesse continuato a puntare tutte le sue carte sull'agricoltura e l'artigianato; ciò di cui si convinsero, peraltro, i governanti italiani soltanto dopo la gravissima depressione che colpì l'Europa occidentale dalla metà degli anni Settanta, per la concorrenza dei cereali russi e americani, provocando un rilevante abbassamento dei prezzi e della domanda dei prodotti agricoli dai nostri tradizionali partners commerciali.
Il passaggio dal liberismo al protezionismo, con le nuove tariffe doganali del 1887 a favore del settore tessile e di quello siderurgico, segnò l'avvio dell'Italia verso l'industrializzazione allorché la congiuntura economica internazionale tornò a brillare. Non fu certo facile per un Paese che aveva accumulato oltre mezzo secolo di ritardo rispetto alle altre nazioni risalire la china e portare infine a compimento la sua prima "rivoluzione industriale". Ma già dagli inizi del Novecento, in coincidenza con la fase culminante dell'età liberale, l'Italia (che passava fin allora per il Paese degli spaghetti e dei mandolini) aveva cominciato a farsi valere sui circuiti internazionali.
L'internazionalizzazione dell'economia italiana è coincisa con le tappe più significative dell'evoluzione economica e sociale del nostro Paese. Ma la possibilità per noi di mantenere le posizioni tanto duramente conquistate fra i primi "Sette Grandi" dell'economia mondiale (e oggi di nuovo in bilico) è legata anche al conseguimento di una maggiore efficienza dei servizi e delle infrastrutture, nonché a un risanamento degli squilibri interni (dal permanente divario fra Nord e Sud al pesante disavanzo pubblico, al differenziale d'inflazione rispetto ad altri Paesi della Cee). La partita decisiva, per restare nell'Europa che conta e per non essere esclusi dalle nuove frontiere dello sviluppo, si gioca ormai nel confronto globale fra sìstemi-Paese.
Valerio Castronovo
Docente di Storia Contemporanea
Università di Torino

Opinioni

Per l'Europa e per l'Italia è una sfida con molte insidie, ma è una sfida che offre anche grandi opportunità, perché l'industria informatica mondiale, dopo la forte espansione del passato e la pausa di questi ultimi tempi, è alla vigilia di un secondo ciclo di sviluppo. Questo ciclo sarà caratterizzato dallo sviluppo delle reti: reti di collaborazione tra imprese all'interno dell'industria e reti di computer sul mercato per lo sviluppo di applicazioni innovative e servizi integrati. Sotto questo profilo, l'Italia, e più in generale l'Europa, rappresentano il terreno più fertile e promettente su cui impiantare una nuova cultura reticolare.
L'Europa è un insieme di strutture, di etnie, di sistemi profondamente diversi che hanno una speranza di sviluppo futuro solo se capaci di una progressiva integrazione che vada al di là dell'obiettivo del mercato unico. L'integrazione non dipende dalle regole e dalle scelte politiche: in larga misura dipende anche da una comunanza di infrastrutture. Infrastrutture che oggi sono basate soprattutto sulle tecnologie informatiche. In questo senso l'informatica può dare un grande contributo alla costruzione dell'Europa. E la costruzione della nuova Europa rappresenta un'occasione di rilancio per l'informatica.
Nel dopoguerra il processo di ricostruzione e di ammodernamento delle infrastrutture di base fece compiere al Paese un salto di qualità, portandolo ad assumere una posizione di rilievo tra le nazioni più civili e industrializzate. Oggi è lo sviluppo di un nuovo sistema di reti infrastrutturali basate sulle nuove tecnologie che può divenire il mezzo per costruire una nuova Italia, integrata e unita alla nuova Europa degli anni Novanta.
Carlo De Benedetti
Presidente della Olivetti

Opinioni

Un lungo periodo di espansione ha fatto crescere le piccole imprese italiane. Molte hanno ormai le energie imprenditoriali e la visione complessiva che dovrebbe permettere loro di fare il grande salto verso Un assetto diverso, volumi produttivi maggiori, reti di vendita autonome. Sono mature per fare a meno di intermediari nell'avvicinarsi ai mercati di altri Paesi, riappropriandosi così quote importanti di valore aggiunto, per acquistare imprese e costruire stabilimenti in altre parti d'Europa, per aprire sedi secondarie. Non si tratta di un desiderio di espansione per il gusto di diventare grandi. Anzi. La filosofia del "piccolo è bello" è profondamente radicata tra la maggioranza delle imprese italiane e gran parte di questi imprenditori dinamici ha orrore di crescere troppo, vuol restare nel villaggio o nella cittadina d'origine. Il fatto è che, senza simili trasformazioni, il futuro appare a rischio: a un brillante periodo di crescita potrebbe succedere un rapido declino nel momento in cui occorre vendere con regolarità su un grande mercato con regole e con strutture unitarie.
Per queste imprese, insomma, la crescita deve ormai tradursi in trasformazione strutturale; il bambino prodigio è diventato adulto, deve assumere il modo di comportarsi e le responsabilità degli adulti. Tale trasformazione, però, comporta ingenti risorse finanziarie; questo, a sua volta, richiede apposite istituzioni, a cominciare dalla Borsa. E l'Italia è rimasta indietro nella creazione di una moderna struttura finanziaria e bancaria, verso la quale ora spinge la normativa della Cee. Il mondo finanziario italiano, dominato dalla forte richiesta di fondi del settore pubblico, si è dimostrato assai pigro nello studiare soluzioni che consentano ai piccoli imprenditori di uscire dallo stadio della crisalide.
A questa difficoltà esterna si aggiunge una interna alle imprese: gli stessi fattori culturali che hanno finora favorito la crescita delle piccole imprese potrebbero creare difficoltà a mutamenti di struttura. Incentrata SU Una dimensione familiare, la piccola impresa ribollente di creatività, intuizione e dinamismo tende a rifiutare l'introduzione nel gruppo dirigente di persone estranee alla famiglia. Ancora di più, mostra una resistenza istintiva all'idea di avere soci, di condividere, cioè, responsabilità e utili quale prezzo per l'ingrandimento aziendale. Del resto, la necessità di un adattamento alla concorrenza non riguarda solo le piccole imprese. Molti grandi gruppi, anche pubblici, sono abituati da sempre ad agire senza concorrenti: costruzioni e trasporto aereo, elettricità e gas, lo stesso mondo bancario e assicurativo nel giro di pochi anni saranno esposti ai venti freddi della concorrenza. E si tratta di venti duri, che però rinvigoriscono e fortificano. Dal modo in cui l'economia italiana nel suo complesso saprà reagire a questa sfida dipende se, nei prossimi decenni, l'economia italiana stessa avrà nel contesto internazionale un ruolo principale o secondario.
Mario Deaglio
Docente di Economia Politica
Università di Torino


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000