§ Per controllare l'inflazione

Bonn e Tokyo frenano il mondo




Paul Anthony Samuelson



Come cittadino americano, il Piano Marshall e l'occupazione del Giappone da parte del generale MacArthur suscitarono in me, all'epoca, un senso comprensibile di orgoglio. La nostra prosperità ci consentiva di aiutare l'Europa e le regioni in via di sviluppo ad avviare la ripresa negli anni del dopoguerra.
In seguito, con la presidenza Eisenhower e con quella di Nixon e di Carter, negli anni che videro il rallentamento degli Stati Uniti nella corsa allo sviluppo globale, sarebbe subentrata una frequente e sgradevole sensazione di frustrazione.
Conforta, quindi, la consapevolezza che negli ultimi vent'anni la nostra economia - la più vasta e la più prospera delle economie di mercato - sia stata in grado di assicurare prestazioni conformi alle regole di buon vicinato. Non mi riferisco, sia chiaro, al ruolo svolto dagli Stati Uniti nella difesa contro le minacce provenienti dalla Cortina di ferro anche se la fine della guerra fredda deve essere considerata alla stregua della promessa più importante per il futuro progresso dell'economia. Nella fattispecie, più che al ruolo politico, penso al ruolo economico degli Stati Uniti.
E cosa dire della Germania, la terza potenza economica che vanta uno spazio di manovra autonomo? Nei primi anni della Comunità europea, il dinamismo tedesco fu uno stimolo per la Francia, i Paesi Bassi e l'Italia. Anche per i lavoratori stranieri la Germania era una valida fonte di occupazione. Quando la Spagna ebbe per prima il coraggio di entrare nel Mercato Comune, la potente locomotiva tedesca trainava le regioni d'Europa meno produttive.
Perfino le difficoltà legate alla riunificazione con la Germania dell'Est fecero in un primo momento da stimolo al di fuori della stessa Germania (anche se oggi non sono più tanto sicuro della validità di tale affermazione).
A partire dal 1990, sia il Giappone sia la Germania si sono imbarcati, con zelo opinabile, in crociate antinflazionistiche. Nel caso del Giappone, né i funzionari del ministero delle Finanze né quelli del ministero dell'Industria e Commercio hanno mostrato di saper individuare gli strumenti atti a impedire che il crollo dei prezzi azionari e dei valori immobiliari indebolisse l'economia produttiva.
Si direbbe quasi che nel partito di governo e nella Banca del Giappone sia in atto una paralisi che impedisce di valutare la situazione e di agire di conseguenza.
Com'è possibile che una società che dimostra grandi capacità per quanto riguarda la scienza e la produttività si riveli così impreparata nell'arte della democrazia? E' un mistero. Comunque sia, la maggior parte dei danni imputabili a strategie passive ricade sugli stessi interessati. Oggi in Giappone la produzione, la redditività e le prospettive per il futuro attraversano una fase di stagnazione. Ma con l'eccezione di quanti normalmente esportano da quel Paese, le vittime sono principalmente gli stessi giapponesi.
E veniamo al caso della Germania. Ricordo quando ci si riferiva alla Turchia come al "malato d'Europa". Di questi tempi è la Germania, nel prospero centro del Continente, a trovarsi in lizza per il titolo di malato d'Europa.
Possiamo perdonare al governo Khol alcuni errori fatali che lo hanno indotto inizialmente a sopravvalutare le risorse della Germania dell'Est. Fatto salvo il senno di poi, esperimenti del genere inducono facilmente in errore. Errore che la Germania sconta in prima persona, dal momento che quasi tutte le conseguenze negative si sono ritorte contro di lei.
Il malessere tedesco contagia la Francia, l'Italia, la Spagna, la Gran Bretagna e i Paesi scandinavi: ma è tutt'altra cosa. Mi riferisco al tentativo sciagurato del marco e della Bundesbank di accelerare l'adozione della moneta comune, percorrendo la strada della parità fissa con il marco per tutte le monete dei Paesi membri della Comunità.
Paesi come la Spagna e l'Italia, per scongiurare il ricorso ad una politica inflazionistica, hanno accettato la scommessa disperata di ancorare le rispettive parità alla solida moneta tedesca. La speranza è di indurre elettori, burocrazia e sindacati a tenere un comportamento virtuoso. Chi conosce la storia, però, si ricorderà di quei Paesi che cercarono di trovare nell'inflessibile sistema della parità aurea un surrogato della disciplina economica interna che faceva difetto a casa propria.
E' possibile che le scommesse disperate vadano a buon fine. E' più facile, comunque, che si risolvano in un fallimento. Così, Gran Bretagna, Italia e Spagna hanno scoperto che ciò che nella Germania stessa funzionava con difficoltà, per loro non funzionava affatto. Perfino il Giappone, le cui istituzioni democratiche vantano una maggiore resistenza al virus dell'inflazione, ha dovuto, suo malgrado, importare i modelli della Bundesbank ispirati al timor panico dell'inflazione. Condannare gli speculatori per le svalutazioni di fatto della lira, della sterlina e della peseta è prassi comune. Ma è come accusare gli avvoltoi della sfortuna dei viaggiatori che si perdono nel deserto. Quando gli organi ufficiali cercano di difendere una moneta sopravvalutata, una loro sconfitta tempestiva potrebbe rivelarsi una manna, in quanto eviterebbe di sperperare altro denaro per una causa velleitaria.
Gli appelli lanciati dalla squadra di Clinton affinché l'economia mondiale si affretti a cambiare direzione sono stati messi in pratica dall'Amministrazione americana. Del resto, come confermano gli eventi del 1931, quando i principali Paesi adottarono congiuntamente politiche finalizzate all'espansione della macroeconomia, è più facile che siano gli sforzi coordinati e non i singoli tentativi ad assicurare il successo.
Il problema ultimo non consiste nell'incapacità dei governi di ridurre la disoccupazione in un mondo post-keynesiano, ma piuttosto nel non sopravvalutare quest'arma potente. Verrà il momento di azionare dolcemente il freno. Per ora, restiamo in attesa.


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