§ Nel bicentenario della nascita di Shelley

Epifanie dello spirito cosmico




Francesco Politi



INTRODUZIONE
Non ricordare Shelley nel Bicentenario della nascita (4 agosto 1792), e anche senza incentivi di particolari ricorrenze, equivarrebbe per gli Italiani a una deminutio sui, un'automenomazione dal punto di vista affettivo e culturale. Si finirebbe col cancellare dalla coscienza quanto l'Italienerlebnis: incontri umani, natura, tradizioni storiche, riflessi e suggerimenti di autori quali Dante, il Petrarca, l'Ariosto, il Tasso, hanno operato e prodotto nell'opera shelleyana. In Italia Shelley trovò non soltanto "the Paradíse of exiles", il paradiso degli esuli per l'anima sua lacerata da tutto quello che aveva sofferto in patria; non soltanto "the dívinest climate", il più divino dei climi, rigeneratore della sua precaria salute; ma trovò il luogo predestinato per le più alte manifestazioni del suo genio poetico. I capolavori lirici: Ode al Vento occidentale, La Nuvola, A un'Allodola, Stanze scritte in un momento di sconforto nei pressi di Napoli ("nate", notava Mary Shelley, "dall'indicibile bellezza di Napoli e dintorni, e dall'impressione ricevuta dalla trascendente, gloriosa bellezza dell'Italia"), Epipsychídion, Il Triondo della Vita e La Maga dell'Atlante (questi due poemetti rispettivamente segnati da influssi petrarchesco-danteschí e ariostei); inoltre, il maestoso dramma cosmico Prometeo liberato e la tragedia lirica I Cenci: tutte queste opere sorsero in Italia, e dall'Italia, approdo e vertice della sua maturità, dopo i romanzetti gotici e i poemi di mediocre livello confezionati nella madrepatria prima del suo volontario esilio. Percy Bysshe Shelley nacque da famiglia ricca e aristocratica, politicamente orientata in senso liberale (Whig). Temperamento ribelle, eccentrico, insofferente di convenzioni sociali, non esente da turbe psichiche, ma anche appassionato, generoso, aperto alle istanze degli indigenti e degli oppressi. "Giustizia e Libertà ",fu la sua divisa, e il motivo predominante nella sua produzione. Studiò nei maggiori centri culturali inglesi dell'epoca: Eton e Oxford. Da Eton riportò il durevole ricordo di un ambiente oppressivo; da Oxford il trauma dell'espulsione dall'Università per un suo libello su La Necessità dell'Ateismo, in cui più che di ateismo si trattava di agnosticismo, data l'impossibilità di provare in concreto l'esistenza di Dio.
Già allora il poeta assorbiva elementi di platonismo, di filosofia francese dell'epoca precedente e, non da ultimo, di scienze naturali. Gli esperimenti scientifici eccitavano la sua immaginazione; ne troviamo tracce e riflessi anche nelle opere più tarde: il Prometeo, La Nuvola. Diciannovenne sposa Harriet Westbrook, una sedicenne di oscura estrazione sociale. Prende contatto epistolare col filosofo e scrittore William Godwin, un razionalista, determinista, radical-anarchico, le cui idee lo influenzeranno a lungo, anche se a un certo momento temperate da cospicui apporti platonici, neoplatonici, mistici. Con la moglie e la di lei sorella si reca in Irlanda a distribuire, agli angoli delle strade, un suo Indirizzo al Popolo irlandese, che incita alla protesta (ma "non violenza") per ottenere le libertà politiche e la giustizia economica. Già in questa sua azione propagandistica intravediamo l'altra componente dell'essere shelleyano, ossia non il carducciano "spirito di Titano", ribelle, pugnace, ma l'anima dell'Apostolo, quale Shelley rimase per tutta la vita.
Innamoratosi di Mary Godwin, figlia naturale del filosofo e della famosa antesignana del femminismo Mary Wollstonecraft, abbandonò la moglie e convisse con la Godwín per più di tre anni; la sposò qualche settimana dopo il suicidio di Harriet. Lo Shelley era spregiudicato e strenuo assertore della libertà sessuale.Intanto la sua situazione in Inghilterra andava sempre più peggiorando: cattiva salute, debiti, recensioni negative, conflitti con i propri familiari, col suocero, con l'ambiente sociale, con amici e conoscenti, con l'Establishment. Decise di esulare: meta l'Italia, dove giunse nel marzo 1818. Da questo momento fino al gennaio 1820 gli Shelly si spostano o soggiornano più o meno a lungo tra Pisa, Venezia, Este e altre città, soprattutto Napoli e Roma. Alla fine prenderanno dimora a Pisa. Durante il soggiorno romano il poeta torna a lavorare sul Prometeo. Nel protagonista di questo grandioso dramma lirico si verifica, dopo la disfatta e detronizzazione di Giove, una metànoia che lo conduce a sentimenti di pietà, di rinuncia alla vendetta e all'odio, così da infondere, dice la prefazione, nell'animo "dei lettori dotati di più nobile fantasia i più alti ideali di perfezione morale ", da cui l'uomo possa tram, "il raccolto della propria felicità ". L'annuncio conclusivo del Prometeo sa di Vangelo, suona come autentica edificazione etico-cristíana: "Soffrire dolori che la Speranza prevede infiniti; / perdonare torti più neri della notte e della Morte, / sfidare il Potere che sembra onnipotente; / amare e sopportare; sperare finché la Speranza /generi dalle proprie rovine l'oggetto a cui mira nella sua contemplazione; / non mutare proposito, non vacillare, non pentirsi: / questo - che è la tua gloria, o Titano - significa / essere buoni, grandi e lieti, liberi e (moralmente, N.d.T.) belli; / questo soltanto è Vita, Gioia, Supremazia, Vittoria". La lirica dello Shelley (anche in questo, oltre che nel modo di sentire e di vivere, la più caratteristica figura e quasi il prototipo del poeta romantico) trabocca di musicalità e d'immagini: una ricchezza e un eventuale difetto insieme, perché quella musicalità più volte soverchia, annebbia o, se preferiamo, abbaglia i valori semantici della parola; e la straripante proliferazione delle immagini sfocia in una specie di galassia, traslucido agglomerato nel quale non s'individuano le singole componenti. Nell'uno e nell'altro caso, a soffrirne è la percezione oggettuale. La poesia di Shelley in Inghilterra fu negativamente giudicata o del tutto ignorata in vita e per un certo tempo dopo la morte dell'autore. Nell'epoca vittoriana il Browning e lo Swinburne la riscattarono, esaltando rispettivamente il "poeta-profeta" e "il più grande nostro poeta moderno".
Nella prima metà del Novecento, da posizioni fondamentalmente antiromantiche, la produzione shelleyana fu sottoposta a una minuziosa e impietosa analisi da cui uscì svalutata e screditata: non sempre da un'angolazione e in base a criteri compatibili con la natura, col fattore entelechetico dell'autentica sua ispirazione. Tra i censori T.S. Eliot, corifeo dei poeti Metafisici, e il critico letterario F.R. Leavis.Degli studiosi e ammiratori di Shelley in Italia ricordiamo E. Nencioni, E. Cecchi, M. Praz, E. Chinol e, tra i poeti, il Carducci e il D'Annunzio. Ma su una panoramica delle interpretazioni italiane può informarci puntualmente lo studio di Maria Crisafulli Jones: "Interpretazioni: P.B. Shelley fra Ottocento e Novecento" (Cooperativa Libraria Universitaria Editrice, Bologna, 1990).
Shelley perì naufrago, in un'improvvisa tempesta, durante una gita tra Livorno e Lerici, nel luglio 1822. Intervennero nella sua morte (concomitanza nella quale si è tentati di scorgere qualcosa di emblematico, di sacrale) i quattro Elementi del cosmo: l'Acqua se ne prese l'anima; le Fiamme del rogo avviarono in alto un 'essenza del suo corpo; l'Etere l'assunse e diffuse nell'infinito; la Terra ne accolse le ceneri, a Roma, dove il Poeta aveva concluso il Prometeo tra le rovine delle Terme di Caracalla, isolato dal mondo e creativamente inebriato dal luminoso azzurro del cielo e, anche lì, da "quel clima divino".
Al periodo della produzione matura appartengono, con altre fra le più grandi e famose liriche dello Shelley, anche l'Ode to the West Wind (1819), To a Skylark (1820) e The Cloud (1820). In esse - e specialmente nella prima e nell'ultima - il cantore di un cosmo prepotentemente spiritualizzato crea, come fu detto, degli autentici miti naturali. Già fin dagli esordi la musa shelleyana si aggirava vaga di mistero in un mondo di spiriti e di fantasmi, di geni e di demoni, il quale, se pur mosso da nativa disposizione al visionario e al superstizioso (1), aveva poi accolto, via via potenziandosene, sollecitazioni e fermenti di varia provenienza. Le copiose letture di "tales of terror" a cui l'adolescente si abbandonava, i suoi esperimenti alchimistici o occultistici, le suggestioni di una certa poesia e filosofia romantica, la stessa concezione platonica di un sovramondo ideale, a cui lo Shelley rimase durevolmente aperto (2) sono matrici e radici di questa visione dell'essere come un regno popolato da spiriti. Nella poesia giovanile gli Spiriti son piuttosto paradigma concettuale e filosofico, volto a significare entità, potenze, vicende cosmiche e sentimenti: la Natura, una Stagione, la Gioia, l'Amore, la Tristezza. Solo nel Prometheus Unbound (1820) quelle astrazioni acquistano maggiori autonomia fantastica, e intervengono nel dramma come figure concrete che parlano e agiscono sulla scena; o come più vaghi Spiriti dei Cori, Ore, Furie, Spiriti della Mente Umana; o come pure voci di esseri invisibili (3). Le stesse figure mitologiche della Terra, dell'Oceano, di Asia appaiono qui trasferite in una sfera di esistenze spiritali. Il Poeta del Prometheus invocherà: "Spirits whose homes are flesh: ye beast and birds, / ye worms and fish; ye living leaves and buds!" (Spiriti le cui case sono carne, voi bestie e uccelli, voi foglie viventi e boccioli), quasi annunciando la piena ipostatizzazione dello spirito nella natura.
Le liriche di cui qui ci occupiamo non offrono, come il Prometheus, figure di Spiriti vere e proprie; sono i fenomeni stessi e le creature, che, nella imperiosa visuale mitica e nella pregnante allusione dell'evocatore, assumono realtà di Spiriti, con tutta la loro sostanza ideale e nella loro presenza immediata e sensuosa. In verità, riferendosi a queste liriche, non si dovrebbe parlare di Spiriti, ma Piuttosto dello Spirito, di un unico Being, che nelle parvenze di volta in volta assunte rispecchia sempre, oggettivandone l'uno o l'altro principio, l'una o l'altra virtualità, l'universa Natura. E' lo Spirito cosmico, di cui il Vento, la Nuvola, l'Allodola son le diverse manifestazioni, la varia epifania, e mostrano come esso sia trasmutabile per tutte guise, ordinato a tutte le funzioni.
Che i tre "soggetti" vadano sostanzialmente collegati risulta già da un primo confronto di certi loro attributi. Analoga funzione adempiono il Vento e la Nuvola: l'una recando alle corolle assetate refrigerio di piogge dal mare e dalle riviere, e destando nuovi germogli dal grembo della terra; l'altro adducendo le aligere sementi al loro tenebroso giaciglio invernale, perché posino finché l'aura di Primavera non intervenga a richiamarle in vita. La Nuvola incede trionfalmente con gli uragani, il fuoco, la neve, e penetra nelle vene del mare e delle sabbie, e cangia sempre senza mai annullarsi; il Vento spazia dovunque nel cielo sul mare sulla terra, a distruggere e a conservare, perennemente vivo, perennemente attivo, perché non appena egli cessi come procelloso soffio dell'Autunno o dell'Inverno, eccolo già risorgere e perpetuarsi nella fraterna letifica aura primaverile. Il Vento, con le sue possenti armonie, può suscitare nel petto dell'uomo profondi impeti di canto, e farsi uno con l'uomo, e diffonderne ovunque la parola ispirata: diana profetica a un mondo immerso nel torpore. E anche l'Allodola potrebbe largire al poeta dono di canto, parte della sua letizia, perché egli la comunichi in armonioso delirio al mondo teso in ascolto.
Meno evidente, ma non insussistente, è il nesso tra Nuvola e Allodola. Non vorremmo - sollecitati dal nostro fondamentale convincimento, e dal proposito di far convergere le tre liriche in un unico centro ideale - forzare l'interpretazione, ma a noi pare che il rapporto tra Nuvola e Allodola consista nella comune capacità di promuovere una diffusa esilarazione panica, di agire, pur con tutte le loro specifiche differenze nel modo di essere e di estrinsecarsi, come lo Spirito della Natura nel suo momento lirico e immaginifico, diciamo pure nella sua attività estetica, quando esso Spirito si traduce con alacre vicenda in un tripudio di musiche luci colori visioni, spiegando per l'universo la mutevole magia delle sue improvvisazioni, dei suoi suggerimenti visivi o uditivi, espressi da un'arte suprema - "skill", il cui segreto sfugge agli umani - e tuttavia schietti e immediati - "of unpremeditated art" -; i suggerimenti che arridono al cuore dell'uomo e lo travolgono in rapimento.
E' chiaro che, in ciascuna di queste epifanie, lo Spirito cosmico si rivela ed opera prevalentemente con l'una o con l'altra delle sue infinite potenze. Il Vento come energia cospirante alla distruzione e alla rigenerazione perpetua; la Nuvola come dispensatrice di ristoro a creature che languono e sostentatrice di nuove esistenze, ma anche come genio illusivo e inventivo del cosmo; l'Allodola come letizia panica, grazia poetica, che dal creato promana e che induce nell'uomo estasi, ardore di fantasia, ebbrezza di canto. Certo, queste specificazioni non hanno la pretesa dell'assoluto, sia perché i simboli e i fantasmi di un poeta sono di per se stessi plurivalenti e non comportano quindi recise enucleazioni e puntuali riferimenti, quasi fossero parabole ed apologhi (ma anche qui, per la fusione di elementi concettuali e di elementi fantastici, il senso potrebbe sempre trascolorare), sia perché, adombrando quelle tre apparizioni un medesimo e complesso soggetto - lo Spirito cosmico -, esse possono averne ab initio e via via svilupparne diverse implicazioni virtuali.


A UN'ALLODOLA

Salve, o giocondo Spirito!
Tu mai non fosti uccello,
e dall'empireo, o prossima,
riversi con nativo impeto il cuore
gonfio di gioia in melodioso appello.

Alto, più in alto, refuga
da questa terra fendi
come una fiammea nuvola
l'azzurro abisso, e con alato palpito
ascendi e canti, e canti e sempre ascendi.

Entro l'aureo barbaglio
del sole semispento,
cui rosse nubi cingono,
rapida passi e ondosa: un'incorporea
Gioia, che ha preso slancio in quel momento.

Voli, e l'occidua porpora
intorno a te scolora;
come una stella naufraga
nell'ampio lume diurno sei invisibile,
eppur la gioia tua mi squilla ancora!

Acuta, come gli esili
strali di quella sfera
d'argento la cui diafana
luce si perde sotto le albe candide
e pur, nel suo segreto, vive intera.

Tutta la terra e l'etere
colmi di suono, vaga,
come a le notti limpide
la luna piove da un solingo nuvolo
i suoi splendori e l'universo allaga.

Chi sa di noi qual Essere
sovrumano tu sia?...
Non tremano per l'iride
gocce sì pure, come sgorga vivida
dalla presenza tua la melodia.

Come il cantor nel fulgure
del suo pensiero assorto
nativi canta modula
e il mondo, fin allora inconsapevole,
fa di speranze e di timori accorto;

Come sognante vergine
che in ardua torre effonda
l'anima grave - in attimi
segreti - al suono di una dolce musica
ebbra d'amore, e le sue stanze inonda;

Come dorata lucciola
in rorida valletta
i suoi lucenti brividi,
tra l'erbe e i fiori che alla vista celano
l'essere suo, recondita proietta;

Come furtivo bocciolo
tra le sue verdi foglie,
sommosso da uno zefiro
predace, estenua coi suoi densi balsami
l'ala del predator che a sé li coglie;

Estiva pioggia, trepida
sull'erba che risplende,
fiori che il nembo suscita,
ogni cosa quaggiù, più fresca, e limpida,
e gaia, l'inno tuo vince e trascende!

Dimmi, o giocondo Spirito,
quali ebbrezze tu senti!
Io non conobbi musiche
d'amore o di convito in cui sgorgassero
si pieni e sì divini rapimenti.

Coro di nozze, cantico
che alla vittoria esulti,
per te nulla sarebbero
che sfoggio inane, cosa che dissimuli
a noi coscienti i suoi difetti occulti.

Quali sorgenti avvivano
così beata vena?
Che flutti? campi? vertici?
Volti umani o divini?... O sono i pargoli
tuoi, che tu ami? O tu non sai la pena?...

Nel chiaro acuto giubilo
languor non provi mai,
né mai ombre di tedio
ti sfiorano: tu ami, e dell'effimero
amor la triste sazietà non sai.

Sia che tu dorma o vigili,
meglio di noi, sognanti
mortali, tu sai cogliere
il vero della Morte - O la tua musica,
come urgerebbe in così puri canti?

Innanzi e indietro, trepidi
per ciò che non esiste,
noi ci volgiamo, e un candido
riso in noi sa di pena, e il più soave
dei canti ha voce da un pensiero triste.

Pur, se da noi sgombrassimo
timori, orgogli ed ire,
se creature fossimo
che non versano lacrime, a che limite
del tuo piacer potremmo pervenire?

Meglio di tutti i cànoni
che arte umana coltiva,
meglio d'ogni pregevole
libro, al poeta gioverebbe l'unica
sapienza tua, o della terra schiva!

Metà, metà del gaudio
nella tua mente accolto
tu m'insegnassi! e un musico
delirio io verserei, che il mondo, attonito,
ascolterebbe sì com'io t'ascolto.

La lirica di più leggera ed ariosa struttura (4) è To a Skylark; un'agilissima fuga di strofe pentastiche di spiccato andamento trocaico, in ciascuna strofe quattro senari di volta in volta acatalettici e catalettici con rime alterne, e come quinto verso -quasi a scandire le varie compagini strofiche e ritardare l'impeto ritmico, creando una tensione mirabilmente suggestiva, - un ampio e sostenuto alessandrino, in cui riecheggia la rima precedente. L'impressione complessiva è di danza, aerea, assurgente con lieve ondulio ed esultazione, e che con periodica ricorrenza resti come sospesa nel proprio inebbriamento. Già l'aver intuito un sistema metrico così raro e delicato, in cui i vari elementi attingono un equilibrio e una virtù di rapporto evocativo assolutamente perfetti, dimostra a che segno potesse giungere la sensibilità musicale e la sapienza artistica dello Shelley. La musica è in lui primigenio elemento dell'ispirazione, è "the flood of rapture so divine" che permea e informa in sul nascere, e talvolta anche abbaglia, il suo pensiero e le sue immagini, sfocandoli e dissolvendone la consistenza (5). Chi abbia letto o ascoltato To a Skylark, se ne risente come da un sogno, di cui resti l'emozione e il senso generale, ma i particolari sfuggano e si confondano. Più che altrove, in questa lirica si avverte lo struggimento in musica della parola.
Le immagini per significare il canto dell'uccello e le sensazioni che esso suscita, sono tratte com'era ovvio dal mondo dei suoni, ma più ancora dal fenomeno luminoso. Suono e luce s'identificano, anzi, costantemente associandosi a un'idea di perenne sgorgare fluire traboccare, generano una multipla allucinante sinestesia. "Pourest thy full heart / In profuse strains", "Thy voice... as the moon rains out ber beams, and Heaven is overflowed", ''From rainbow clouds there flow not / Drops so bright to see / As from thy presence showers a rain of melody". Un verso, particolarmente, sussume tutto questo complesso di sensazioni: "Thy notes flow in such a crystal streams", dove nel solo "crystal" c'è insieme la luce e il timbro sonoro.
La lirica comprende due momenti. Nel primo, di 14 strofe, il poeta saluta l'apparizione dello Spirito -"an unbodied joy whose race is just begun", o come dirà alla fine, "a scorner of the ground" -spregiatore della terra - e ne contempla l'ascesa entro la gloria del tramonto. In una serie di vaghissime immagini cerca di adombrare la magia di quel canto. Qualcuno trova eccessivo e perfino dispersivo tanto sfoggio d'invenzione; in realtà quelle immagini non vanno considerate dal punto di vista della necessità assoluta, ma vanno sentite -proprio nella loro insistenza e versatilità - in un rapporto tutto soggettivo, come segno di un'incontenibile esaltazione dinanzi a qualcosa che trascende l'umano, come ansia e sforzo di penetrare nella più riposta essenza il mistero dell'ineffabile. Così interpretate, esse non avranno più l'aspetto eli estrose variazioni, ma di "approssimazioni", nel fondamentale significato del termine. Potremmo definirle, come diceva Beethoven della sua Pastorale, "più espressione di sentimenti che non descrizione oggettiva" (Shelley non era un sensuale-visivo, un descrittivo alla Spenser!), con la sola differenza che Beethoven deriva quei sentimenti dallo stesso paesaggio contemplato, mentre Shelley, attraverso gli aspetti del paesaggio, esprime una commozione già concepita nell'ascoltare il canto dell'allodola. Conferiamo dunque all'intera sequenza immaginifica prevalentemente il valore di un'allusione, anche se il poeta, evocando questo o quell'oggetto, consente poi alla scena per se stessa e s'indugia a vagheggiarla nei suoi elementi.
Particolare rilievo assumono due strofe: l'ottava, perché annuncia il rapporto tra l'uccello Spirito-cosmico e il poeta, che traducendo in canto il proprio pensiero suscita simpatie mai provate e inizia a un più vasto mondo morale i suoi simili; e la strofa undecima, perché qui l'immagine della rosa, che soverchia con la sua fragranza il vento, suggerisce - a differenza delle precedenti immagini - più che delle sensazioni miste di fisico e di spirituale, una sensazione quasi tutta d'anima.
La rapina dell'invenzione e la lusinga dell'elemento musicale, che svaga la mente e crea un'atmosfera d'incantamento arielico, un'apertura al magico, fanno sì che a un certo punto le visioni evocate dal poeta per rendere il suo concetto sembrino - come in una favola mitica - emanazioni sensibili di quell'Essere ultraterreno, una realtà suscitata dal canto stesso dell'Allodola; proprio come quei fiori, quelle luci, quelle ombre, quei sereni lunari e quelle foreste nevicate, che la Nuvola, protagonista dell'ode omonima, crea di fatto.
Nel secondo momento la lirica muta carattere: all'entusiasmo contemplativo e poetico subentra l'atto meditativo, l'antifona morale a ciò che la prodigiosa rivelazione canora ha destato nell'anima e nella fantasia. E qui cadono a proposito certe idee dello Shelley circa gli effetti, morali appunto, della poesia e dell'immaginazione: "Il grande strumento del bene morale è l'immaginazione; e la poesia contribuisce all'effetto agendo sulla causa... La poesia rende amabile ogni cosa..., libera dal decadimento le visitazioni del divino nell'uomo. E' centro e circonferenza della conoscenza, è insieme radice e fiore di ogni sistema del pensiero". "La poesia consegue i suoi effetti operando una espansione nello spirito del lettore e allargando le sue simpatie... La poesia non solo desta e dilata la mente del lettore, ma rimuove il velo che tiene celata la bellezza del mondo, e migliora gli uomini, non già proponendo loro delle dottrine morali ma destando ammirazione per la bellezza e la verità... La bellezza ispira amore in chi la contempla, e l'amore costituisce appunto il grande segreto di ogni morale" (6).
Nel secondo momento, dunque, il poeta, confrontando la natura dell'Allodola con la condizione degli esseri umani, vorrebbe conoscere da quali fonti derivi sì chiara letizia, immune da tedio e da languore, mentre nell'uomo anche i più soavi moti dell'anima - un sorriso, un canto - non sono mai disgiunti da un senso di pena. O potremmo noi pure levarci verso quella inviolabile felicità mediante la purificazione interiore? Ma fino a che punto?... Inattingibile è per noi tanta beatitudine; volesse almeno l'Allodola concederne parte al suo adorante poeta, perché egli la propagasse tra le genti! (7) Con questa invocazione, in Cui affiora il motivo tipicamente shelleyano della "caritas" sociale e dell'apostolato, la lirica si suggella.
Un autorevole studioso considera To a Skylark documento del "naturale platonismo di Shelley... un simbolo della trascendenza dell'anima dalla sfera del mortale ai cieli della purezza platonica (8)"; trascendenza, vorremmo aggiungere, che si attua per virtù di poesia, al richiamo di quello Spirito Canoro "clothed in its changeless purity" (9). Da Platone ci sembra direttamente suggerita l'espressione "harmonious madness", che ricorda la definizione dell'atto poetico come "divina mania".


ODE AL VENTO DELL'OVEST

Vento selvaggio, Tu, anima viva
dell'Autunno, invisibile presenza,
che come spettri, evasi alla deriva

Dal mago, aride foglie con violenza
pallide, nere, febbricose premi,
turba segnata dalla pestilenza;

Tu, che nel soffio tuo gli alati semi
rechi al giaciglio della terra nera,
nell'invernale fredda tomba, stremi

Di vita fino a che la messaggera
sua tromba squilli al trasognato mondo
la tua sorella azzurra in Primavera

- E leni bocci muove, vagabondo
gregge nell'aura, e piani e colli affolta
di vive tinte e balsamo giocondo -:

Tu, Spirito selvaggio, che sul mondo
passi dovunque e susciti rivolta,
e distruggi e conservi - ascolta! ascolta!

Tu, nella cui corrente e nel tumulto
del precipite cielo come sciame
d'aride foglie riddano in sussulto

Le nubi, scosse alle avvinghiate rame
del Cielo e dell'Oceano, messaggere
di turbine e di lampo, e nelle trame

Cerulee del tuo aereo flutto fiere
balzano erette come in sulla fronte
di Menadi le fulve capelliere;

E sono là, dal torbido orizzonte
fino all'etereo culmine, la scura
chioma delle Bufere a venir pronte;

Tu, nenia dell'annata moritura,
su cui la notte calerà l'immensa
cupola sepolcrale, architettura

Di congiunti vapori la cui densa
marea vomiterà nera e sconvolta
pioggia e grandine e fuoco - ascolta! ascolta!

Tu, che destavi il Mare Nostro azzurro
dai sogni estivi, mentre lo cullava
dei cristallini gùrgiti il susurro

Nell'isola pumicea, a Baia flava,
e rimiravi in seno all'onda aprica
un mondo trasognato che tremava

(Era un palagio, era una torre antica
folta di fiori e muschi azzurreggianti:
dolci, che il senso, a dirli, si affatica!)-,

Tu, che al passaggio tuo convelli e schianti
la librata oceanica potenza,
sì che dal fondo i fiori pullulanti

E quella selva limacciosa, densa
di foglie esangui, tutto in una volta
riconoscendo la tua voce immensa

Allividisce e trepida travolta
d'orrore, e si dispoglia - ascolta! ascolta!

Fossi un'arida foglia che tu incalzi!
Nuvola fossi del tuo volo alata!
onda, che al giogo tuo ansimi e balzi!

Partecipe alla tua foga indomata,
libero come te cui nulla infrena,
e accompagnarti nella tua svagata

Aerea fuga come a la serena
mia fanciullezza, quando la mia voglia
di vincerti pareva un sogno appena;

E allora mai, premuto dalla doglia,
ti assalirci con supplichevol tuono:
Vieni a levarmi, nube, flutto, foglia -

Io, sugli aculei della vita prono
e sanguinante; e un peso d'ore assai
gravoso m'incatena, e curvo io sono:

Io, che ti sono simile! E tu vai
rapido, altero, e mai domato - mai!

Fammi tu cetra come la foresta
e cadano le foglie in tua balìa,
ma tu da noi agita dolce e mesta,

O nembo di terribile armonia,
la canzone autunnale e in me converso,
Spirito fiero, sii l'anima mia!

Languide foglie in seno all'universo,
reca i morti miei sensi a germi nuovi
e tra gli umani, a la malia del verso,

Quasi faville e cenere sommuovi
da un fuoco eterno la parola mia,
ché il sonnolento mondo ti ritrovi

Sul mio labbro squillante profezia! - -
Oh! Vento, se l'inverno è qui che giunge,
può mai la Primavera essere lunge?

Non il carezzevole fluire di una melodia ritmicamente conclusa nel giro di singole strofe, come nell'ode A un'Allodola. Qui, nell'Ode al Vento dell'Ovest - visione di palingenesi cosmica, messaggio di palingenesi sociale -, si annuncia subito una vasta e profonda agitazione, un moto rapinoso, irrazionale, che scavalca versi e strofe annullandone quasi la percezione, con improvvise cesure, imperiose scansioni, dopo ognuna delle quali s'innalza e prorompe un nuovo flutto di possenti armonie. Mirabile esempio di trascrizione in modi romantici della classica terzina dantesca, le cui simmetrie e il cui equilibrio - "una calma e sostenuta energia", diceva Shelley - vengono travolti e sconvolti da una forza aggressiva, un impeto dionisiaco mai conosciuti. E mentre l'architettura dantesca, con le sue ferme clausole di verso e di strofe, suggeriva un'idea di frontalità, qui la compagine si volge in senso ascensionale, direi gotico; e vi è un paradossale contrasto tra la forma, pur "chiusa", e quella prepotente tendenza a un ritmo aperto, libero.
La lirica si svolge in due momenti: il primo, di tre sequenze, ritrae "impressionisticamente" l'azione del Vento sulla terra, nel cielo, sul mare; il secondo, di due sequenze, trapassa in antifona morale. Il poeta, profondamente commosso da quella rivelazione d'energia e d'agitazione cosmica, esprime al Vento le sue ansie, le sue nostalgie, il dolore di un'esistenza impedita e chiusa, le fiduciose istanze della sua anima. Ma sia ch'egli s'indugi a descrivere, o che si confessi e solleciti esaudimento ai propri voti, avvertiamo sempre nella lirica un moto colloquiale, anzi, una specie di confronto drammatico, in cui la parte dell'uomo è nella parola, quella del Vento nell'azione. Le prime tre sequenze, col precipitare del ritmo o col solo ampio devolversi del periodo, danno l'impressione di una corrente perpetua, sostenuta anche dalle copiose assonanze ed allitterazioni del singolo verso e per più versi successivi. Le due sequenze finali invece, e specialmente l'ultima, in corrispondenza al carattere meditativo e aggressivamente drammatico del discorso, hanno un andamento più rotto, con pause via via più frequenti, con un periodo di poche proposizioni, e perfino di una sola, brevissima.
In tutta l'evocazione del paesaggio mediterraneo, nella terza sequenza Il l'allegro agitato" cede a un dolcissimo "cantabile", alla cui assorta cadenza finale l'impeto riprende, con la recisa energia di un monosillabo - "thou" - in rima, e dopo il punto fermo.
L'ode riassume non pochi motivi e atteggiamenti peculiari della personalità shelleyana. La percorre una specie di "ebrezza metafisica e quell'impeto che sembra tendere verticalmente verso una realtà la cui presenza è tanto violentemente quanto indistintamente sentita" (10) (E Chinol); impeto, non solo in senso verticale, ma anche espansivo, come se il poeta volesse abbracciare il cosmo e identificarvisi diffuso e confuso col Vento: "Wild Spirit, which are moving everywhere ... be thou me, impetuous, one!". Un anelito di liberazione dalle "chains of Earth's immurement", "chains which Life for ever flings / On the entangled soul's aspiring wings" (11); un grido de profundis di chi si senta mancare sulle spine della vita, sotto il grave peso delle ore che irretiscono e prostrano la sua anima; l'aspirazione ad avvolgere in fraterno amplesso, non solo gli elementi, ma soprattutto il genere umano, tra cui spargere l'inestinguibile seme di un verbo sociale e operare con squilli di profezia il risveglio dall'ignavia servile a una fede di libertà e di progresso; tutto questo complesso di moti e d'intenzioni noi sentiamo agitarsi nella grandiosa apostrofe al Vento considerata nella sua ideale sostanza e nel suo tono sacrale (il triplice scongiuro "ho, hear", l'espressione "by incantation of this verse"), senza lasciarsi prendere dal gioco delle immagini che turbinando e accavallandosi con impeto orgiastico, come spesso in Shelley, ritraggono episodicamente, con tutti quei particolari che la visione poetica suggerisce, le scene e i momenti dell'azione.
Il Vento qui evocato non è poi solo il soffio dell'Autunno; la stagione resta un dato occasionale, condiziona una delle forme che lo Spirito assume, operando in conseguenza. Ma questo Vento autunnale, che cederà il campo alla sorella primaverile, ossia l'aura serena dello zefiro, e attraverso la primavera si attesterà compiutamente quale "preserver", viene ad essere in definitiva una manifestazione di ciò che la fisica della Stoa, e poi la filosofia panteistica del Rinascimento e del Romanticismo tedesco, definivano "anima mundi". Quest'anima, convertendosi, promuove dialetticamente la vita del cosmo. L'adesione al principio panteistico e il concetto di distruzione e rigenerazione perpetua sono nel pensiero dello Shelley fin dagli anni giovanili.
L'epiteto "wild" (selvaggio) replicatamente attribuito al Vento - insieme con "tameless", "fierce", "uncontrollabe", che ne rappresentano le varianti, anzi meglio, le componenti specifiche - indica una vergine forza di natura che nulla può contenere, ma che si attua sempre e ovunque con assoluto arbitrio. L'immagine "tangled boughs of Heaven and Ocean" (gli intrecciati rami del cielo e dell'oceano), oggettivamente assurda, esprime tiri rapporto cosmologico, quella compenetrazione degli elementi del creato che è pur basilare nella Weltanschatuing romantica, quasi un novalisiano: "Muss Alles ineinander greifen", tutto deve reciprocamente compenetrarsi (12).Anche i motivi dell'evasione dal terreno, per attingere una sfera dove nulla si opponga agli slanci dell'anima, e della nostalgia d'infinito, e del volersi inserire negli elementi liberi e imperituri, sono un retaggio di spiritualità romantica. C'è chi ricorda il Monti ispirato da Goethe nei versi Al Principe D. Sigismondo Chigi, il Lamartine di "L'isolement", lo Hölderlin della Abendphantasie (13). Ma potremmo richiamare il Goethe di Ganymed e del Faust, il Petöfi di A. Gólya (La cicogna), il nostro Leopardi nell'Infinito.
Ugualmente caratteristico dell'anima romantica è nello Shelley il sentimento della fraternità cosmica. In Alastor si annuncia come un solenne atto di amore verso tutti gli esseri, gli elementi, i fenomeni del creato - "beloved brethren" (14) - e fa pensare a Goethe che riconosceva "fratelli nel tacito bosco, nell'aria, nell'acqua"(15); a Hölderlin che conversava "coi fiori del mondo" (16), si stringeva a ogni cosa vivente, figlia di un unico padre, chiamava fratello l'essere primaverile (17). Quando Shelley dice di se stesso al Vento: "one too like thee" (uno troppo simile a te), in queste parole non è solo un rapporto di energia, non solo un asserto di coscienza titanica, ma vi è pure, fondamentalmente, il richiamo a quel vincolo di fratellanza per cui noi uomini, di fronte alle apparizioni della natura elementare, avvertiamo "a secret correspondence with our heart" (18), una segreta corrispondenza con l'animo nostro.
Il paesaggio italiano - tra cui sorsero le liriche al Vento, all'Allodola, alla Nuvola - approfondì nel poeta e rese più caldo il sentimento della fraternità cosmica; gli rivelò anche quanto della propria sostanza ed eccellenza l'antica poesia classica dovesse alla comunione con la natura (19). Per intendere appieno il passo: "And by incantation of this verse, / Scatter, as from, an unextinguished hearth / Ashes and sparks, my words among mankind! / Be trough my lips to unawakened earth / The trumpet of a profecy!" (e all'incanto del mio verso diffondi, come faville e ceneri da un inestinguibile focolare, le mie parole tra il genere umano. Sii, dalle mie labbra, per la terra immersa nel sonno, lo squillo di una tromba profetica), bisogna tener presente "la passione di riformare il mondo" (20) che lo Shelley ebbe sempre vivissima e che, come appare dai suoi scritti in poesia ed in prosa, lo induceva a considerarsi uno spirito eletto, investito dalla missione d'illuminare gli uomini - eco di concezioni settecentesche -diffondendo tra loro un credo di evoluzione e di perfezionamento sociale. Per quanto dichiarasse di "aborrire" la poesia didattica, in realtà questa tendenza è largamente attestata dalla sua opera e dalle sue confidenze epistolari (21). "Io ho cercato d'impiegare l'armonia del linguaggio metrico, le eteree combinazioni della fantasia, i rapidi e sottili trapassi delle umane passioni, tutti quegli elementi insomma che essenzialmente contengono la poesia, a favore di una morale liberamente e comprensivamente intesa, col proposito di accendere nell'animo dei miei lettori un virtuoso entusiasmo per quelle dottrine di libertà e di giustizia, per quella fede e quella speranza in qualcosa di buono, che né violenza, né travisamenti, né pregiudizi potranno mai totalmente estinguere nel genere umano" (22). Anche quando l'autore, più tardi, aveva perduto la speranza di provocare coi mezzi della poesia quelle riforme che il suo ardente umanitarismo e la sua ragion rivoluzionaria postulavano per l'emancipazione del genere umano; anche quando egli si era sempre più ritirato in se stesso, rassegnandosi a "esercitare la sua fantasia per diletto proprio e forse di altri pochi" (23), malinconicamente consapevole che il "poeta è un usignolo il quale sta nell'ombra e canta per consolare con dolci suoni la propria solitudine (24), anche allora la sua adesione e la passione alla causa dei fratelli umani rimase intatta: "Il sistema sociale quale si presenta oggi dev'essere scalzato dalle fondamenta con tutte le sue superstrutture di norme e forme prima che si debba trovare qualcosa di non deludente nei nostri rapporti con chi non sia dei pochi spiriti eletti. Il rimedio a cui alludiamo non è dei più facili, ma non per questo i pochi generosi hanno meno coraggio per tendere con ogni loro sforzo verso tale soluzione" (25).
Nel Vento dunque, agitatore cosmico per eccellenza e strumento di rinascita, il poeta scorge come la mitica proiezione di se stesso, e al Vento chiede impeto e sinergia di fede, per sollecitare quella "primavera", grandioso rinnovamento etico-sociale quale è descritto nel quarto atto del Prometheus, a cui il suo spirito anela, e che dovrà pure inverarsi. L'ultima parte dell'ode ha carattere di elevata eloquenza, in un tono spiccamente personale e patetico.
Improvviso, ma non imprevisto è il trapasso dalla prima alla seconda parte dell'Ode: dal momento "fenomenico", che ritrae l'azione del Vento nella natura, al momento "morale" in cui il poeta dà voce alle emozioni, aspirazioni, attese, che l'elemento cosmico ha da sempre destato, e desta anche ora, in lui. Dà voce soprattutto al suo prepotente anelito di comunione e assimilazione motivato dall'affinità elettiva che sostanzialmente lega il proprio essere a quella Potenza universale. E' il noto motivo dell'evasione - assunzione - immedesimazione cosmica proprio dall'anima romantica: dai prodromi agli estremi epigoni del movimento. Già Goethe, del periodo stürmeriano, invocava: Un alto, in alto, urge lo slancio, e le nubi discendono lievi, le nubi si piegano all'anelante amore: a me! a me!... Oh, nubi -nel vostro grembo: in alto!" (Ganimede). E così nel Faust: "Oh se l'avessi un'ala prepotente da strapparmi alla terra ed inseguirlo (il Sole) nella sua corsa infaticabilmente!" - E Petöfi: "Perché l'uomo ancora non ebbe da Dio quelle ali?... I suoi piedi lo possono assai condurre lontano - in alto giammai!... Che importa l'andare? E' vano desio. Il fondo dei cieli è anelito mio!" (La cicogna) E Wagner: "Nell'ondeggiante mare dell'armonia stellare; nel palpito profondo, nel respiro del mondo... naufragare... affondare... senza... coscienza... Suprema voluttà! (Tristano e Isolda, tr. V. Errante). Il nostro Leopardi: "Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare".
Ma Hölderlin, soprattutto, elabora questo motivo della integrazione cosmica in sempre nuove, preziose variazioni e modulazioni, e per di più con un afflato religioso estraneo al poeta inglese: "Come lieto, allora, con gli esseri tutti mi precipitavo dalla solitudine del Tempo tra le braccia dell'Infinito!" (Alla Natura); "Vorrei le vette dei monti vagare e di lassù gittare all'aquila rapida il grido, ché come un dì tra le braccia di Giove il fanciullo beato, da questo carcere me nei templi dell'Etere levi" (All'Etere).
In Shelley il motivo dell'attrazione simpatetica uomo-vento giuoca su due piani: il piano "caratteriologico-affettivo" della sostanziale affinità di caratteri nell'uno e nell'altro soggetto: "indomito, rapido, altero, fiero, impetuoso"; e il piano "ideologico" della comune funzione, o missione, a cui sono destinati entrambi: il Vento a riscuotere, rivoluzionare, rigenerare il mondo fisico purificandolo di ciò ch'è morto e disfatto, e spargendo al tempo stesso i semi della rinascita; il poeta operando analogamente nell'ambito della società umana. Questo duplice legame simpatetico - seppur sottaciuto - è ben presente alla coscienza del poeta fin dall'inizio dell'Ode. Non appena pronuncia l'appello: "Vento selvaggio, Tu, anima viva dell'autunno!", egli sente già di parlare al "suo simile"; nella seconda parte dell'Ode lo dice esplicitamente: "One too like thee!" (uno che troppo ti è simile).
Per quel che riguarda l'altro legame, da noi definito "ideologico" in quanto inerente all'azione rivoluzionario-rigeneratrice dei due soggetti, ricordiamo che l'associazione e l'equivalenza funzionale tra Vento e Uomo, prima che in quest'Ode, era stata da Shelley ideata nel poema la Rivolta dell'Islam, dove compare Laone, eroe tipicamente shelleyano pervaso da spirito messianico, il quale, deciso a riscuotere dal letargo la moltitudine, diffonde la sua parola che illumina e soggioga. Il suo canto, simile al vento dell'ovest che reca ovunque i semi della futura rinascita, popola di pensieri il mondo, fuga la tenebra e vanifica la maledizione che grava sul genere umano -. Già qui è prefigurata l'allegoria della nostra Ode.
Il problema politico-sociale impegna Shelley dalla prima giovinezza alla fine della vita (26). Diciottenne, all'università di Oxford, s'iniziava già a quello che sarebbe stato il suo radicalismo leggendo il trattato Political Justice di William Godwin; e confidava a un amico di avere "in preparazione un romanzo costruito principalmente per esprimere opinioni metafisiche e politiche per mezzo della conversazione" (27). A due anni dalla morte era occupato a portare avanti il saggio Philosophical View of Reform, a proposito del quale confessava di "aver disertato gli aulenti giardini della letteratura per avventurarsi nel gran deserto sabbioso della politica" (28). Non è nostro proposito occuparci in questa sede della maggiore o minore consistenza e coerenza delle idee, dei progetti, degli scritti politici shelleyani. E' risaputo che tanto alla sua epoca quanto ai nostri giorni la sua formazione e il suo intendimento in fatto di politica sono stati di volta in volta giudicati come propri di uno spirito superficiale, confusionario, contraddittorio, infantile, visionario e via di seguito. "Spacciatore di chimere" lo ha definito qualcuno. Sia come sia, l'argomento non interessa chi si proponga unicamente di cogliere il significato dell'Ode al Vento dell'Ovest. Per intenderla nella sua pregnanza emotiva, nei suoi contenuti, nella sua tensione di messaggio ideale all'Umanità, occorre sostanzialmente tener presenti la passione riformistica dell'autore; la sua radicale condanna delle istituzioni che soffocano la libertà e impediscono il sano sviluppo civile e spirituale della società; la sua vocazione e ansia messianica; il proposito di servire la causa del rinnovamento con fedeltà, slancio, dedizione da missionario dell'Idea. La rivoluzione come egli la intende non è eversione violenta, con spargimento di sangue, ma si configura come un processo da attuarsi mediante la diffusione del Pensiero, l'opera della Parola (sono termini-chiave nell'ode al Vento e in tutta la produzione shelleyana), Parola-Azione, l'autentico contributo ch'egli può e vuoi dare. Nell'organizzazione dell'universo quale esso realmente è (per l'"effettuale verità della cosa", direbbe Machiavelli), il Bene e il Male sono inestricabilmente congiunti, e la Necessità è una forza amorale da cui gli uomini non possono permettersi di dipendere. Il compito di rinnovare il mondo ricade sulle spalle di guide sagge, giuste, moralmente virtuose, un'esigua schiera di uomini a cui si può sicuramente affidare la diuturna, scoraggiante mansione d'indirizzare e scortare la società umana verso lo storico Millennio (C. Baker). Nelle mani di questi esseri virtuosi è riposta la responsabilità di liberare il mondo dal Male. Perché, dice Shelley, "quello che sembra essere un fattore di corruzione ingenito nella natura umana è in realtà il risultato d'istituzioni politiche non consone alla Natura" (29). Il Bene non potrà non attestarsi "quando si elimini tutto ciò che vi è di consunto nel sistema politico e religioso". A proposito di religione non è superfluo ricordare che l'"ateismo" shelleyano va inteso in un senso ben delimitato, cioè come rifiuto del Dio adirato veterotestamentario, e come generico atteggiamento anticristiano, anche in forme sentimentalmente esasperate nella prima giovinezza. In seguito, riconoscendo l'essenza e il valore del pensiero etico di Gesù Cristo, il poeta concepì per il Figlio dell'Uomo profonda ammirazione. Rimase tuttavia anticristiano per l'immutata convinzione che il genuino insegnamento di Cristo fosse stato manipolato, falsificato, pervertito dalle sopraggiunte generazioni di teologi.
Per quanto riguarda la formazione politica di Shelley, non c'è dubbio che suo primo e autorevole maestro sia stato il Godwin da cui ha derivato principi e indirizzi fondamentali: radicalismo, migliorismo, non violenza ecc., anche se poi nella sua visione ideologica siano via via confluiti elementi di altri autori: Platone, Rousseau, Hume, Holbach, Condorcet ecc. Al Godwin, tipica figura di razionalista illuministico, egli scriveva dopo averne letto l'opera: "Non voglio pubblicare nulla che non conduca alla Virtù" (30). Né la Virtù soltanto gli aveva messo innanzi il maestro, ma anche gli altri fattori essenziali della convivenza sociale, quali la Verità, la Giustizia, la Libertà, l'Amore degli uomini, la Ragione destinata a trionfare della Necessità a cui era deterministicamente sottoposto il mondo; la Fede nella perfettibilità dell'uomo, illuminato e capace insieme di agire su se stesso gradualmente migliorandosi. Shelley, nel suo migliorismo, si spingeva a posizioni che né Godwin né altri illuministi avrebbero condiviso: egli postulava una età dell'oro non in senso retrospettivo, ma prospettivo (31), destinata insomma all'uomo dell'avvenire per il grado di perfezione da lui raggiunto e la conseguente felicità (eudemonismo!) realizzatasi in questo processo. Come nel Godwin, anche nella visuale di Shelley l'uomo è portatore di una colpa, non però quella originale, che non esiste. Una saggia riforma delle istituzioni avrebbe portato al superamento della tendenza a peccare, che nell'uomo non è ingenita ma socialmente indotta.
Di primaria importanza nell'insegnamento del Godwin è il ripudio della violenza come molla di progresso (in termini a noi più familiari: come "levatrice della storia"). E' l'amore che dev'essere predicato e propagato tra gli uomini. Shelley stesso ribadisce ripetutamente e risolutamente l'astensione dalla violenza nell'azione rivoluzionaria. E proprio per questo condanna la Rivoluzione francese, considerandola "il classico esempio di come potesse riuscire disastroso un mutamento in apparenza mirabile". Radicale sì, nella convinzione che il Male debba essere estirpato dalla società umana; rivoluzionario sì, nel propugnare e perseguire quest'impresa; ma avverso a ogni forma di violenza. Solo per le vie dell'Amore, e attraverso la diffusione della verità, e con l'esortazione e l'educazione alla speranza, alla sopportazione, all'assiduo perfezionamento di se stessi, si perverrà alla meta nel corso di un graduale miglioramento. In un solo caso è ammesso il ricorso alla violenza: come diritto all'insurrezione se i governi per opporsi alla volontà della nazione impiegano le forze armate. Ma anche questa extrema ratio pesa non poco sulla coscienza di Shelley.
Con la scorta di questi essenziali riferimenti si può individuare il sostrato ideologico dell'Ode al Vento dell'Ovest, una creazione viva e perennemente vitale nel campo della lirica universale: in virtù del suo affiato titanico e messianico, della fede, della speranza, dell'amore (termini che anche un "laico" può usare!) che la informano e la infiammano; in virtù della sua irresistibile forza di trascinamento, d'irrefutabile appello, di promessa ("Può mai la Primavera essere lunge?") a "tutte le nazioni indistintamente sorelle", come diceva il Poeta. Così noi leggiamo quest'Ode, e assorbiamo nelle intime fibre la luce e il fuoco del messaggio, vibrante e inequivocabile per il nostro intelletto e per la nostra anima, anche se altri, giganti di dottrina e di acume, ma un tantino ritardati di fantasia e di sentimento, evidenziano in essa incongruenze e assurdità. Per la lirica di Shelley - oggi non particolarmente rivisitata e delibata in quelle che pure son le sue più alte manifestazioni - il metro e la chiave ce la suggeriscono le parole di Faust: ''Gefühl ist Alles", il sentimento è tutto!


LA NUVOLA

Io reco alle corolle sitibonde
i vividi scrosci dal mare e dalle riviere;
sui meridiani sogni delle fronde
mi calo e le copro d'un velo di ombre leggiere.
Dalle mie penne scrollo le rugiade
e desto i soavi germogli con murmure blando:
li desto sii dal seno della Madre,
che in sé li cullava volgendosi al Sole e danzando.
Vibro sui piani un rapido flagello
di grandine - sbiancano i prati appena io lo
piombo -,
poi stempero la grandine in ruscello
di pioggia, e scoppio in un riso, e passo in un
rombo.

Volo sui monti e la mia neve staccio:
ne geme la grande foresta dei pini, sgomenta;
il mio bianco guanciale me ne faccio
e dormo così fra le braccia della tormenta.
Il Lampo è il mio pilota, che ha per trono
le torri sublimi dei miei celestiali manieri;
sotto, in un antro, è incatenato il Tuono,
che a tratti si scrolla e sobbalza in ululi fieri.
Su terra e mare quella guida mia
con un movimento leggiadro mi sa pilotare,
conquiso da l'amabile malia
dei Genii che scorrono i fondi purpurei del
mare.
Sui ruscelli, sui laghi, sulle fonti
- dovunque egli sogni - su fiume, su clivo, su
cresta,
in seno alle correnti e in seno ai monti
- dovunque egli sogni - il Genio ch'egli ama,
s'arresta.
Io, nel sorriso dell'azzurro ho tregua,
e un blando tepore, mentr'egli - piovendo -
dilegua.

Quando con occhi di meteora s'alza
l'Aurora sanguigna e spiega la fiamma dell'ale,
poi sul mio veleggiante alito balza,
la stella del giorno si vela d'un bianco mortale.
Così, d'una montagna sulla cresta,
che scossa da un tremito fondo sussulta ed
oscilla,
l'aquila batte, e un attimo s'arresta,
e tutta nell'oro dei fulgidi vanni sfavilla! -
Quando il Tramonto, dai marini seni,
ardente di pace e d'amore aneliti esala,
quando dai fondi ceruli sereni
la Sera il suo manto radioso di porpore cala,
me riposante nel mio nido trova,
con ali raccolte, d'aerea colomba che cova.

La Vergine dal globo fuoco e argento,
cui nomina Luna chi lingua mortale favelli,
scivola fioca sul mio pavimento
spianato dai venti notturni in labili velli,
e il lieve tocco del suo piede udito
dagli angeli soli, dovunque furtivo s'incastri
e rompa del mio tetto il frale ordito,
s'affaccia ed occhieggia un subito giubilo d'astri.
Oh! come sgorga, oh! come vola e sciama
(io guardo e sorrido) quel grappolo d'api, prorotto
dalla mia sempre più disfatta trama:
quei fiumi, quei laghi, quei mari che tremano
sotto,
sono lembi di cielo, ch'io lasciai
cadere e, caduti, di stelle e di luna smaltai.

Io cingo il Sole d'una zona ardente,
d'un cinto di perle la Luna, d'un'ombra i vulcani:
ruotano gli astri vorticosamente
quando apro il mio làbaro all'impeto degli uragani.
Da riva a riva pendula mi getto
a guisa di ponte; Sui fervidi gorghi salmastri
poggio e mi spiano, simile ad un tetto
che al Sole fa schermo ed ha le montagne a
pilastri;
e l'arco glorïoso sotto il quale
tragitto, col Nembo la Neve la Folgore, e avvinte
le Potenze dell'aria al trïonfale
mio carro, è l'Iride bella di multiple tinte;
tinte che il fuoco dell'empireo intrise,
quando - sotto - la Terra umida rise.

Figlia dell'Acqua e della Terra io fuggo
al Ciel che mi nutre, m'insinuo nei pori del
mare,
urgo nel suolo, cangio e non mi struggo;
ché quando la pioggia è passata e torna a brillare
l'immacolato etereo padiglione,
e i Venti ed il Sole con fasci di luce convessi
novellamente inarcan la magione
dai domi sublimi soffusi d'azzurri riflessi,
io, dal mio cenotafio, rido e taccio -
Ma già da gli abissi che covano piogge mi
svello:
bimbo dall'alvo, spettro dall'avello,
mi levo improvvisa e il mio cenotafio disfaccio.

D'impostazione nettamente diversa è la lirica The Cloud. Qui non parla più il poeta ma il fenomeno stesso personificato, così che la finzione acquista più che mai il carattere di un mito allo stato nascente. Non avvertiamo però una vera ispirazione lirica, né ritroviamo quell'alternanza e compenetrazione di elementi oggettivo-sensitivi e di presenza spirituale che improntava l'Ode to the West Wind e To a Skylark. Qui tutto procede in tono piuttosto discorsivo, sia pure attraverso una serie d'immaginosi quadretti squisitamente elaborati, i quali richiamano un genere e un gusto pittorico-vignettistico di remota tradizione alessandrina.
Arridenti, prestigiose nella loro varietà e nella loro vivezza, sono le immagini con cui lo Shelley - da artista più che da poeta - ritrae la metamorfosi della Nuvola e il suo operoso intervento nel creato; ma sotto questa lussureggiante imagery, non lievita la sostanza ideale notata negli altri componimenti, e nessuno potrebbe eccepire al lettore di non aver saputo guardare in profondità, oltre la bellezza della figurazione, per scoprire ricchi nuclei e rapporti di pensiero. E' pur vero che lo Shelley, per quanto abbia occhio spesso acuto per le forme esteriori del creato, non a queste direttamente volge il proprio interesse, ma vive sempre in un suo universo ideale, dove "tutto riveste i colori della sua anima e tutto si abbellisce dei mille arabeschi della sua sensibilità". E' pur vero che nella contemplazione della Nuvola - quando essa reca vita e ristoro oppure diffonde sgomento e distruzione; quando vaga sognante sulla distesa del mare o si scalda nel sorriso del cielo azzurro; quando veleggia sotto le ali fiammeggianti dell'aurora o si raccoglie nei quieti ardori del tramonto; quando gode al volubile gioco degli astri o spiega il suo labaro al soffio degli uragani - s'insinuano i più diversi moti dell'anima shelleyana. Ma ciò non toglie che il paesaggio qui evocato resti decisamente sul piano di una resa figurativa, e non traluca in vivo suggerimento metaforico nel senso altre volte notato. Soltanto la strofa finale accenna un inserimento nella sfera dell'idea, un'elevazione dal fisico-sensitivo all'intelligibile, mediante l'epigrammatico asserto: " change, but cannot die", per cui anche la Nuvola, lungamente e insistentemente contemplata nella sua realtà fenomenica, si rivela poi simbolo di ciò che, perennemente trasformandosi, dura e conserva tuttavia la propria identità: l'Essere nel suo processo metamorfotico e palingenetico. Il Notoupolos definisce questo simbolo - dell'uno e molteplice -espressione di un costituzionale platonismo dello spirito shelleyano, senza consapevole riferimento alla dottrina del Filosofo (32). Tornando ai quadretti di cui si compone la lirica, siamo tratti a intravedere in essi, nella loro successione, un che di schematico, un prevalere di sedulità e di compiacimento compositivo sull'autentico estro poetico, e per questo l'impressione che ne ricaviamo è di permanente intrinseca frammentarietà. In definitiva, tutte quelle immagini, che pure sono strettamente inerenti all'oggetto, non risultano forse più divaganti e dispersive di quanto sembravano essere, e non erano, le similitudini riferite all'Allodola? O si dirà che l'autore, per ritrarre la mutevole vicenda della nuvola, non avrebbe potuto procedere altrimenti?... Per noi il fatto rimane. Per noi The Cloud rappresenta il prodotto di una virtù immaginifica, la quale, nonostante tutto, procede un po' per forza d'inerzia, anticipando in certo modo i lusus dannunziani di Versilia e di Undulna, naturalmente - ed è anche questione di diversa temperie epocale - senza le morbidezze sensuali del poeta italiano, senza l'assoluta gratuità della rappresentazione; soprattutto con più "entusiasmo" e, ancor sempre, con quella possibilità di apertura metafisica che conferma lo spiritualismo shelleyano.
La mutevolezza della Nuvola non induce nel poeta sensi di malinconia come quelli espressi nel componimento Mutability del 1814. Qui la visuale era essenzialmente soggettiva, si rimpiangeva la perdita che a noi reca il tramutarsi di ogni cosa bella e diletta; l'animo di chi contemplava le immagini del creato, si rattristava al pensiero della loro effimera consistenza e sapeva di sognare per poi "ridestarsi e piangere". Nella Nuvola invece il mutamento è visto, e fiduciosamente consentito, come un perenne svolgersi di nuova vita, ritmo provvidenziale dell'universo e dilettosa varietà di spettacolo.
La combinazione di metri e di rime che il poeta adotta in The Cloud si rivela, come sempre, appropriatissima; le vaghe cadenze di cantilena nei versi in sede dispari, accentuate dalla rima interna, e il più largo abbandono nei versi di sede pari rendono mirabilmente il tono fiabesco del racconto (33).

 

NOTE
1) "Il mondo del terrore lo attrae... I fantasmi di tale mondo avventuroso escono dai libri e gli prendono la fantasia in sogno ad occhi aperti... Una specie di estasi scendeva su di lui" (E. CHINOL, P. B. Shelley, Napoli 1955, p; 39 sg.). Chinol riferisce ancora un giudizio di T.J. Hogg: "La mente di Shelley inclinava alla superstizione" (op. cit., p.57). E il poeta stesso confessa: "While yet a boy I sought for ghosts, and sped / Trough many a listening chamber, cave and ruin, / And starlight wood, with fearful steps pursuing / Hopes of high talk with the departed dead. / I called on poisonous names with wich our youth is fed..." (Ancor da ragazzo andavo in cerca di Spiriti, attraversavo di corsa camere tese in ascolto, grotte e rovine, boschi tralucenti di stelle, inseguendo con passi timorosi speranze di eccelsi colloqui coi defunti. Io invocavo nomi di venefica potenza, dei quali si nutre la nostra fanciullezza), (Hymn to Intellectual Beauty, str, V, in "Shelley's Poems", vol. I, Introduction By A. H. Kosqul, London, London-New York 1953, p. 182). Questa edizione delle liriche dell'A. verrà citata in seguito con la sigla S.P.
2) "Accanto al mondo visibile, multicolore ma instabile, esisteva per Shelley un mondo invisibile, pieno delle potenze attive, le cause primigenie di tutto ciò che ci si presenta nella mutevole veste del mondo visibile" (W. CLEMEN, Shelleys Geisterwelt, Frankfurt M., 1948, p. 67).
3) W. CLEMEN, op. cit., p. 23.
4) Tutte le volte che parliamo di metrica, ci riferiamo naturalmente al testo originale inglese, non alle rispettive nostre versioni.
Anche Wordsworth e J. Hogg cantarono l'Allodola, ma quale distanza tra la strofa shelleyana e quella da loro adottata! Così Hogg: "Bird of the wilderness. / Blithesome and cumberless, / Sweet be thy matin o'er moorland and lea! / Emblem of happiness, / Blest is thy dwelling-place - / O to abide in the desert with thee!". Un ritmo piuttosto meccanicamente cadenzato, che non suggerisce per nulla l'anelante assurgere di quel volo, né il rapimento di chi lo contempla. Il senario acatalettico di To a Skylark è una tripodia trocaica che corrisponde accentuativamente al metro itifallico della poesia latina, inserito come ultimo membro nel verso archilochio: "Solvitur acris hiems grata vice véris et favóni" (Orazio, Odi, I, 4; 1), ed ai versi epodici di certe canzoni goliardiche medievali o sequenze liturgiche come "Ave maris Stella" (attribuita a Venanzio Fortunato). Metro derivato dal dimetro trocaico catalettico, secondo alcuni studiosi. Cfr. C. ALBIN, La Poésie du Bréviaire, p. 449. Shelley lo accoglie anche nelle strofe di Arethusa e di Lines: When the lamp is shattered. In italiano ricordiamo di averlo incontrato sdrucciolo, e con intonazione canzonatoria, nel Giusti. Per quanto riguarda la strofe quinaria, che uno studioso tedesco argutamente definisce: "una bellezza misconosciuta" (W. KAYSER, Kleine deutsche Versschule, Bern 1944, p. 43), dato il rarissimo uso che ne fecero i poeti di tutte le epoche, lo Shelley ne inserì qualcuna occasionalmente nella sua produzione più giovanile (cfr. Poems from St. Irvyne I e III; To Death - rispettivamente - in S.P., pp. 23, 24, 27, 45); poi con sempre maggiore frequenza nella successiva, ma sempre in componimenti di carattere tutt'altro che lirico (S.P., p. 292, p. 294, p. 300 sgg.), e perciò con una giacitura di rime alquanto triviale. Una strofe pentastica armoniosamente congegnata la troviamo in A Lament (pubbl. 1824):
O World! O life! O time!
On whose last steps I climb,
Trembling at that where I had stood
before;
When will return the glory of your
prime?
No more - Oh, never more!
Nella nostra versione, pur ormeggiando in qualche modo l'andamento della strofa shelleyana, ce ne siamo disimpegnati e abbiamo reso come la nostra tradizione metrica e la natura stessa della nostra lingua consigliavano.
Un tedesco, semmai, potrebbe concedersi di rifare con felice risultato questo modulo ritmico, come ad esempio il Weinheber, in una poesia d'intonazione trasognata:
Glocken und Zyanen,
Thymian und Mohn.
Ach, ein fernes Ahnen
hat das Herz davon
.....................
Seh die Schiffe ziehen,
fühl den Wellenschlag,
weisse Wolken fliehen
durch den späten Tag -
(Im Grase)
5) E' quella stessa "rarefazione del tessuto connettivo di pensiero" di cui parla Mario Praz, e per la quale "lo Shelley ha goduto di poco favore presso i moderni, che spesso dimenticano l'estasi musicale dei suoi canti" (M. PRAZ, Il libro della Poesia inglese, Messina-Firenze 1951, p. 366). Molto opportunamente al Santoli, nel trattare del misticismo musicale di Wackenroder, ricorrevano alla mente versi dello Shelley: "I pant for music which is divine", mi struggo dal desiderio di musica, che è divina, cfr. V. SANTOLI, Wackenroder e il misticismo estetico, Rieti 1929, p. 70.
6) Defense of Poetry.
7) Sempre allo Spirito della Natura il poeta chiede dono e impulso di canto: "I wait the breath, Great Parent, that my strain / May modulate with murmurs of the air ecc.". (Alastor, S.P., p. 164); "Make me thy lyre... Be through my lips to unawakened earth / The trumpet of a prophecy!" (Ode to the West Wind, ibid., p. 331).
8) Cfr. J. A. NOTOUPOLOS, The platonism of Shelley, Durham, North Carolina 1949, p. 270 sg.
9) Vestito della sua immutabile purezza, Queen Mab, I, 182.
10) E. CHINOL, op, cit., p. 360. E' la Sehnsucht romantica: "impulso, verso qualcosa di pienamente ignoto, che si manifesta semplicemente mediante un bisogno, un senso di disagio, di vuoto che cerca di essere riempito" (Fichte).
11) Catene del carcere terreno - catene che la vita getta per sempre sulle ali anelanti dell'anima impigliata, cfr. Queen Mab, v. 188 e Revolt of Islam, v. 958,
12) Novalis (ed. Minor), I, 160.
13) Vorremmo notare di passaggio che il rapporto del poeta tedesco con l'Infinito, o con le forze e le essenze della Natura, ha un'accentuazione assai diversa da quella del poeta inglese. Mentre in Shelley si avverte principalmente ansia di libertà e di espansione cosmica dell'io, s'avvertono moti passionali e ideologici, in Hölderlin spira una tenerezza, urge un afflato religioso, che hanno radice nel Gemüt e nella formazione pietistica dell'autore. Come sempre in Hölderlin "la prima radice d'ogni parola, il primo impulso d'ogni suo moto, è la pietas", cfr. A. PELLEGRINI, Hölderlin, Firenze 1956, p. 383). "Shelley spiritualizza le forze della natura, ma non le divinizza. Lo spirito che nel Vento occidentale appare quale un essere dotato di tanta potenza, rimane sempre Spirito della terra; non è - come in Hölderlin (all'Etere) - lo spirito di un mondo ultraterreno che si rivela quale Ente divino", cfr. W. CLEMEN, p. 369 del saggio Shelleys Ode to the West Wind, in "Anglia", LXIX, 3, pp. 335-375.
14) Fratelli amati, Alastor, vv. 1-17.
15) Faust, I, v. 3226 sg.
16) An den Aether.
17) An den Frühling.
18) MELVIN T. SOLVE, Shelley: His Theory of Poetry, Chicago - Illinois, 1927, p. 63. Mette conto di ricordare un passo del Tieck: "Nulla di ciò che esiste nella natura può apparirci estraneo, perché nell'uomo, centro del cosmo, si aduna intimamente collegato tutto ciò che fuori di lui è isolatamente sparso, così che tutti i domìni dell'essere hanno in lui quasi i propri rappresentanti, in virtù dei quali l'uomo si sente vicino e amico del tutto" (Kritische Schriften, I, 152).
19) "Il vento, la luce, l'aria, la fragranza dei fiori mi danno (in Italia) sensazioni violente" (a Claire Clairmont nel 1821). "Comprendo ora perché i Greci furono poeti così grandi... Essi vivevano in continuo commercio con la natura e si nutrivano dello spirito delle sue forme" (a Peacock, 26 gennaio 1819).
20) Prometheus, Prefazione.
21) Si veda in proposito M. T. SOLVE, op. cit., cap. I, "The poet as teacher".
22) Revolt of Islam, Prefazione.
23) Lettera a Peacock; 26 gennaio 1819.
24) Defense of Poetry.
25) A Leigh Hunt, maggio 1820.
26) Anche negli anni del soggiorno in Italia, da esule (1818-1822), anni magici della sua più alta produzione poetica, Shelley continuerà ad occuparsi di politica: comporrà il più cospicuo dei suoi scritti politici, Philosophical View of Reform (La Riforma in visuale filosofica); seguirà puntualmente l'evolversi della situazione inglese; dedicherà i più veementi suoi versi polemici a personaggi e avvenimenti di spiccato rilievo nella sua patria: The Mask of Anarchy (La mascherata dell'Anarchia), Peter Bell the Third (Peter Bell Terzo), Swellfoot the Tyrant (Edipo il Tiranno) ecc.. Su questo periodo di appassionata partecipazione e feconda produzione politica si legga il nutrito e variegato saggio di MARIA CRISAFULLI JONES, P.B. Shelley: l'impegno politico nella produzione letteraria tra il 1819 e 1822, in Paradise of Exiles - Atti del Convegno Internazionale di Pisa, Maggio 1985" - ETS Editrice, Pisa, 1988.
27) Lettera a J.J. Stockdale, 18 dicembre 1811.
28) Lettera a John e Maria Gisborne, 6 novembre 1820.
29) Spesso si è accostato, quasi un precursore, lo Shelley a Marx. Del resto lo stesso autore del Capitale si espresse su di lui, paragonandolo a Byron, nel modo seguente: "La vera differenza tra Byron e Shelley è questa: coloro che li capiscono e li amano si rallegrano che Byron sia morto a trentasei anni, perché se fosse vissuto più a lungo sarebbe diventato un reazionario borghese; e si addolorano che Shelley sia morto a ventinove anni, perché egli era essenzialmente un rivoluzionario e sarebbe sempre stato uno delle avanguardie del socialismo"; cfr. C. BRINTON, The political Ideas of the English Romanticists, Oxford, 1926.
30) Lettera a W. Godwin, 10 gennaio 1812.
31) A una rinnovata età dell'oro sono avviate le generazioni. Questa convinzione è rispecchiata tra l'altro nel "dramma lirico" Hellas: "The world's great age begins anew, / the golden years return" (vv. 1060-61), la grande età del mondo ricomincia, l'età dell'oro ritorna".
32) Op, cit., p. 270.
33) Nella versione italiana avviene il contrario, ossia il ritmo cantilenante è nei versi di sede pari.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000