INTRODUZIONE
Non ricordare Shelley nel Bicentenario della nascita (4 agosto 1792),
e anche senza incentivi di particolari ricorrenze, equivarrebbe per
gli Italiani a una deminutio sui, un'automenomazione dal punto di vista
affettivo e culturale. Si finirebbe col cancellare dalla coscienza quanto
l'Italienerlebnis: incontri umani, natura, tradizioni storiche, riflessi
e suggerimenti di autori quali Dante, il Petrarca, l'Ariosto, il Tasso,
hanno operato e prodotto nell'opera shelleyana. In Italia Shelley trovò
non soltanto "the Paradíse of exiles", il paradiso
degli esuli per l'anima sua lacerata da tutto quello che aveva sofferto
in patria; non soltanto "the dívinest climate", il
più divino dei climi, rigeneratore della sua precaria salute;
ma trovò il luogo predestinato per le più alte manifestazioni
del suo genio poetico. I capolavori lirici: Ode al Vento occidentale,
La Nuvola, A un'Allodola, Stanze scritte in un momento di sconforto
nei pressi di Napoli ("nate", notava Mary Shelley, "dall'indicibile
bellezza di Napoli e dintorni, e dall'impressione ricevuta dalla trascendente,
gloriosa bellezza dell'Italia"), Epipsychídion, Il Triondo
della Vita e La Maga dell'Atlante (questi due poemetti rispettivamente
segnati da influssi petrarchesco-danteschí e ariostei); inoltre,
il maestoso dramma cosmico Prometeo liberato e la tragedia lirica I
Cenci: tutte queste opere sorsero in Italia, e dall'Italia, approdo
e vertice della sua maturità, dopo i romanzetti gotici e i poemi
di mediocre livello confezionati nella madrepatria prima del suo volontario
esilio. Percy Bysshe Shelley nacque da famiglia ricca e aristocratica,
politicamente orientata in senso liberale (Whig). Temperamento ribelle,
eccentrico, insofferente di convenzioni sociali, non esente da turbe
psichiche, ma anche appassionato, generoso, aperto alle istanze degli
indigenti e degli oppressi. "Giustizia e Libertà ",fu
la sua divisa, e il motivo predominante nella sua produzione. Studiò
nei maggiori centri culturali inglesi dell'epoca: Eton e Oxford. Da
Eton riportò il durevole ricordo di un ambiente oppressivo; da
Oxford il trauma dell'espulsione dall'Università per un suo libello
su La Necessità dell'Ateismo, in cui più che di ateismo
si trattava di agnosticismo, data l'impossibilità di provare
in concreto l'esistenza di Dio.
Già allora il poeta assorbiva elementi di platonismo, di filosofia
francese dell'epoca precedente e, non da ultimo, di scienze naturali.
Gli esperimenti scientifici eccitavano la sua immaginazione; ne troviamo
tracce e riflessi anche nelle opere più tarde: il Prometeo, La
Nuvola. Diciannovenne sposa Harriet Westbrook, una sedicenne di oscura
estrazione sociale. Prende contatto epistolare col filosofo e scrittore
William Godwin, un razionalista, determinista, radical-anarchico, le
cui idee lo influenzeranno a lungo, anche se a un certo momento temperate
da cospicui apporti platonici, neoplatonici, mistici. Con la moglie
e la di lei sorella si reca in Irlanda a distribuire, agli angoli delle
strade, un suo Indirizzo al Popolo irlandese, che incita alla protesta
(ma "non violenza") per ottenere le libertà politiche
e la giustizia economica. Già in questa sua azione propagandistica
intravediamo l'altra componente dell'essere shelleyano, ossia non il
carducciano "spirito di Titano", ribelle, pugnace, ma l'anima
dell'Apostolo, quale Shelley rimase per tutta la vita.
Innamoratosi di Mary Godwin, figlia naturale del filosofo e della famosa
antesignana del femminismo Mary Wollstonecraft, abbandonò la
moglie e convisse con la Godwín per più di tre anni; la
sposò qualche settimana dopo il suicidio di Harriet. Lo Shelley
era spregiudicato e strenuo assertore della libertà sessuale.Intanto
la sua situazione in Inghilterra andava sempre più peggiorando:
cattiva salute, debiti, recensioni negative, conflitti con i propri
familiari, col suocero, con l'ambiente sociale, con amici e conoscenti,
con l'Establishment. Decise di esulare: meta l'Italia, dove giunse nel
marzo 1818. Da questo momento fino al gennaio 1820 gli Shelly si spostano
o soggiornano più o meno a lungo tra Pisa, Venezia, Este e altre
città, soprattutto Napoli e Roma. Alla fine prenderanno dimora
a Pisa. Durante il soggiorno romano il poeta torna a lavorare sul Prometeo.
Nel protagonista di questo grandioso dramma lirico si verifica, dopo
la disfatta e detronizzazione di Giove, una metànoia che lo conduce
a sentimenti di pietà, di rinuncia alla vendetta e all'odio,
così da infondere, dice la prefazione, nell'animo "dei lettori
dotati di più nobile fantasia i più alti ideali di perfezione
morale ", da cui l'uomo possa tram, "il raccolto della propria
felicità ". L'annuncio conclusivo del Prometeo sa di Vangelo,
suona come autentica edificazione etico-cristíana: "Soffrire
dolori che la Speranza prevede infiniti; / perdonare torti più
neri della notte e della Morte, / sfidare il Potere che sembra onnipotente;
/ amare e sopportare; sperare finché la Speranza /generi dalle
proprie rovine l'oggetto a cui mira nella sua contemplazione; / non
mutare proposito, non vacillare, non pentirsi: / questo - che è
la tua gloria, o Titano - significa / essere buoni, grandi e lieti,
liberi e (moralmente, N.d.T.) belli; / questo soltanto è Vita,
Gioia, Supremazia, Vittoria". La lirica dello Shelley (anche in
questo, oltre che nel modo di sentire e di vivere, la più caratteristica
figura e quasi il prototipo del poeta romantico) trabocca di musicalità
e d'immagini: una ricchezza e un eventuale difetto insieme, perché
quella musicalità più volte soverchia, annebbia o, se
preferiamo, abbaglia i valori semantici della parola; e la straripante
proliferazione delle immagini sfocia in una specie di galassia, traslucido
agglomerato nel quale non s'individuano le singole componenti. Nell'uno
e nell'altro caso, a soffrirne è la percezione oggettuale. La
poesia di Shelley in Inghilterra fu negativamente giudicata o del tutto
ignorata in vita e per un certo tempo dopo la morte dell'autore. Nell'epoca
vittoriana il Browning e lo Swinburne la riscattarono, esaltando rispettivamente
il "poeta-profeta" e "il più grande nostro poeta
moderno".
Nella prima metà del Novecento, da posizioni fondamentalmente
antiromantiche, la produzione shelleyana fu sottoposta a una minuziosa
e impietosa analisi da cui uscì svalutata e screditata: non sempre
da un'angolazione e in base a criteri compatibili con la natura, col
fattore entelechetico dell'autentica sua ispirazione. Tra i censori
T.S. Eliot, corifeo dei poeti Metafisici, e il critico letterario F.R.
Leavis.Degli studiosi e ammiratori di Shelley in Italia ricordiamo E.
Nencioni, E. Cecchi, M. Praz, E. Chinol e, tra i poeti, il Carducci
e il D'Annunzio. Ma su una panoramica delle interpretazioni italiane
può informarci puntualmente lo studio di Maria Crisafulli Jones:
"Interpretazioni: P.B. Shelley fra Ottocento e Novecento"
(Cooperativa Libraria Universitaria Editrice, Bologna, 1990).
Shelley perì naufrago, in un'improvvisa tempesta, durante una
gita tra Livorno e Lerici, nel luglio 1822. Intervennero nella sua morte
(concomitanza nella quale si è tentati di scorgere qualcosa di
emblematico, di sacrale) i quattro Elementi del cosmo: l'Acqua se ne
prese l'anima; le Fiamme del rogo avviarono in alto un 'essenza del
suo corpo; l'Etere l'assunse e diffuse nell'infinito; la Terra ne accolse
le ceneri, a Roma, dove il Poeta aveva concluso il Prometeo tra le rovine
delle Terme di Caracalla, isolato dal mondo e creativamente inebriato
dal luminoso azzurro del cielo e, anche lì, da "quel clima
divino".
Al periodo della produzione matura appartengono, con altre fra le più
grandi e famose liriche dello Shelley, anche l'Ode to the West Wind
(1819), To a Skylark (1820) e The Cloud (1820). In esse - e specialmente
nella prima e nell'ultima - il cantore di un cosmo prepotentemente spiritualizzato
crea, come fu detto, degli autentici miti naturali. Già fin dagli
esordi la musa shelleyana si aggirava vaga di mistero in un mondo di
spiriti e di fantasmi, di geni e di demoni, il quale, se pur mosso da
nativa disposizione al visionario e al superstizioso (1), aveva poi
accolto, via via potenziandosene, sollecitazioni e fermenti di varia
provenienza. Le copiose letture di "tales of terror" a cui
l'adolescente si abbandonava, i suoi esperimenti alchimistici o occultistici,
le suggestioni di una certa poesia e filosofia romantica, la stessa
concezione platonica di un sovramondo ideale, a cui lo Shelley rimase
durevolmente aperto (2) sono matrici e radici di questa visione dell'essere
come un regno popolato da spiriti. Nella poesia giovanile gli Spiriti
son piuttosto paradigma concettuale e filosofico, volto a significare
entità, potenze, vicende cosmiche e sentimenti: la Natura, una
Stagione, la Gioia, l'Amore, la Tristezza. Solo nel Prometheus Unbound
(1820) quelle astrazioni acquistano maggiori autonomia fantastica, e
intervengono nel dramma come figure concrete che parlano e agiscono
sulla scena; o come più vaghi Spiriti dei Cori, Ore, Furie, Spiriti
della Mente Umana; o come pure voci di esseri invisibili (3). Le stesse
figure mitologiche della Terra, dell'Oceano, di Asia appaiono qui trasferite
in una sfera di esistenze spiritali. Il Poeta del Prometheus invocherà:
"Spirits whose homes are flesh: ye beast and birds, / ye worms
and fish; ye living leaves and buds!" (Spiriti le cui case sono
carne, voi bestie e uccelli, voi foglie viventi e boccioli), quasi annunciando
la piena ipostatizzazione dello spirito nella natura.
Le liriche di cui qui ci occupiamo non offrono, come il Prometheus,
figure di Spiriti vere e proprie; sono i fenomeni stessi e le creature,
che, nella imperiosa visuale mitica e nella pregnante allusione dell'evocatore,
assumono realtà di Spiriti, con tutta la loro sostanza ideale
e nella loro presenza immediata e sensuosa. In verità, riferendosi
a queste liriche, non si dovrebbe parlare di Spiriti, ma Piuttosto dello
Spirito, di un unico Being, che nelle parvenze di volta in volta assunte
rispecchia sempre, oggettivandone l'uno o l'altro principio, l'una o
l'altra virtualità, l'universa Natura. E' lo Spirito cosmico,
di cui il Vento, la Nuvola, l'Allodola son le diverse manifestazioni,
la varia epifania, e mostrano come esso sia trasmutabile per tutte guise,
ordinato a tutte le funzioni.
Che i tre "soggetti" vadano sostanzialmente collegati risulta
già da un primo confronto di certi loro attributi. Analoga funzione
adempiono il Vento e la Nuvola: l'una recando alle corolle assetate
refrigerio di piogge dal mare e dalle riviere, e destando nuovi germogli
dal grembo della terra; l'altro adducendo le aligere sementi al loro
tenebroso giaciglio invernale, perché posino finché l'aura
di Primavera non intervenga a richiamarle in vita. La Nuvola incede
trionfalmente con gli uragani, il fuoco, la neve, e penetra nelle vene
del mare e delle sabbie, e cangia sempre senza mai annullarsi; il Vento
spazia dovunque nel cielo sul mare sulla terra, a distruggere e a conservare,
perennemente vivo, perennemente attivo, perché non appena egli
cessi come procelloso soffio dell'Autunno o dell'Inverno, eccolo già
risorgere e perpetuarsi nella fraterna letifica aura primaverile. Il
Vento, con le sue possenti armonie, può suscitare nel petto dell'uomo
profondi impeti di canto, e farsi uno con l'uomo, e diffonderne ovunque
la parola ispirata: diana profetica a un mondo immerso nel torpore.
E anche l'Allodola potrebbe largire al poeta dono di canto, parte della
sua letizia, perché egli la comunichi in armonioso delirio al
mondo teso in ascolto.
Meno evidente, ma non insussistente, è il nesso tra Nuvola e
Allodola. Non vorremmo - sollecitati dal nostro fondamentale convincimento,
e dal proposito di far convergere le tre liriche in un unico centro
ideale - forzare l'interpretazione, ma a noi pare che il rapporto tra
Nuvola e Allodola consista nella comune capacità di promuovere
una diffusa esilarazione panica, di agire, pur con tutte le loro specifiche
differenze nel modo di essere e di estrinsecarsi, come lo Spirito della
Natura nel suo momento lirico e immaginifico, diciamo pure nella sua
attività estetica, quando esso Spirito si traduce con alacre
vicenda in un tripudio di musiche luci colori visioni, spiegando per
l'universo la mutevole magia delle sue improvvisazioni, dei suoi suggerimenti
visivi o uditivi, espressi da un'arte suprema - "skill", il
cui segreto sfugge agli umani - e tuttavia schietti e immediati - "of
unpremeditated art" -; i suggerimenti che arridono al cuore dell'uomo
e lo travolgono in rapimento.
E' chiaro che, in ciascuna di queste epifanie, lo Spirito cosmico si
rivela ed opera prevalentemente con l'una o con l'altra delle sue infinite
potenze. Il Vento come energia cospirante alla distruzione e alla rigenerazione
perpetua; la Nuvola come dispensatrice di ristoro a creature che languono
e sostentatrice di nuove esistenze, ma anche come genio illusivo e inventivo
del cosmo; l'Allodola come letizia panica, grazia poetica, che dal creato
promana e che induce nell'uomo estasi, ardore di fantasia, ebbrezza
di canto. Certo, queste specificazioni non hanno la pretesa dell'assoluto,
sia perché i simboli e i fantasmi di un poeta sono di per se
stessi plurivalenti e non comportano quindi recise enucleazioni e puntuali
riferimenti, quasi fossero parabole ed apologhi (ma anche qui, per la
fusione di elementi concettuali e di elementi fantastici, il senso potrebbe
sempre trascolorare), sia perché, adombrando quelle tre apparizioni
un medesimo e complesso soggetto - lo Spirito cosmico -, esse possono
averne ab initio e via via svilupparne diverse implicazioni virtuali.
A UN'ALLODOLA
Salve, o giocondo
Spirito!
Tu mai non fosti uccello,
e dall'empireo, o prossima,
riversi con nativo impeto il cuore
gonfio di gioia in melodioso appello.
Alto, più
in alto, refuga
da questa terra fendi
come una fiammea nuvola
l'azzurro abisso, e con alato palpito
ascendi e canti, e canti e sempre ascendi.
Entro l'aureo
barbaglio
del sole semispento,
cui rosse nubi cingono,
rapida passi e ondosa: un'incorporea
Gioia, che ha preso slancio in quel momento.
Voli, e l'occidua
porpora
intorno a te scolora;
come una stella naufraga
nell'ampio lume diurno sei invisibile,
eppur la gioia tua mi squilla ancora!
Acuta, come
gli esili
strali di quella sfera
d'argento la cui diafana
luce si perde sotto le albe candide
e pur, nel suo segreto, vive intera.
Tutta la terra
e l'etere
colmi di suono, vaga,
come a le notti limpide
la luna piove da un solingo nuvolo
i suoi splendori e l'universo allaga.
Chi sa di noi
qual Essere
sovrumano tu sia?...
Non tremano per l'iride
gocce sì pure, come sgorga vivida
dalla presenza tua la melodia.
Come il cantor
nel fulgure
del suo pensiero assorto
nativi canta modula
e il mondo, fin allora inconsapevole,
fa di speranze e di timori accorto;
Come sognante
vergine
che in ardua torre effonda
l'anima grave - in attimi
segreti - al suono di una dolce musica
ebbra d'amore, e le sue stanze inonda;
Come dorata
lucciola
in rorida valletta
i suoi lucenti brividi,
tra l'erbe e i fiori che alla vista celano
l'essere suo, recondita proietta;
Come furtivo
bocciolo
tra le sue verdi foglie,
sommosso da uno zefiro
predace, estenua coi suoi densi balsami
l'ala del predator che a sé li coglie;
Estiva pioggia,
trepida
sull'erba che risplende,
fiori che il nembo suscita,
ogni cosa quaggiù, più fresca, e limpida,
e gaia, l'inno tuo vince e trascende!
Dimmi, o giocondo
Spirito,
quali ebbrezze tu senti!
Io non conobbi musiche
d'amore o di convito in cui sgorgassero
si pieni e sì divini rapimenti.
Coro di nozze,
cantico
che alla vittoria esulti,
per te nulla sarebbero
che sfoggio inane, cosa che dissimuli
a noi coscienti i suoi difetti occulti.
Quali sorgenti
avvivano
così beata vena?
Che flutti? campi? vertici?
Volti umani o divini?... O sono i pargoli
tuoi, che tu ami? O tu non sai la pena?...
Nel chiaro
acuto giubilo
languor non provi mai,
né mai ombre di tedio
ti sfiorano: tu ami, e dell'effimero
amor la triste sazietà non sai.
Sia che tu
dorma o vigili,
meglio di noi, sognanti
mortali, tu sai cogliere
il vero della Morte - O la tua musica,
come urgerebbe in così puri canti?
Innanzi e indietro,
trepidi
per ciò che non esiste,
noi ci volgiamo, e un candido
riso in noi sa di pena, e il più soave
dei canti ha voce da un pensiero triste.
Pur, se da
noi sgombrassimo
timori, orgogli ed ire,
se creature fossimo
che non versano lacrime, a che limite
del tuo piacer potremmo pervenire?
Meglio di tutti
i cànoni
che arte umana coltiva,
meglio d'ogni pregevole
libro, al poeta gioverebbe l'unica
sapienza tua, o della terra schiva!
Metà,
metà del gaudio
nella tua mente accolto
tu m'insegnassi! e un musico
delirio io verserei, che il mondo, attonito,
ascolterebbe sì com'io t'ascolto.
La lirica di più
leggera ed ariosa struttura (4) è To a Skylark; un'agilissima
fuga di strofe pentastiche di spiccato andamento trocaico, in ciascuna
strofe quattro senari di volta in volta acatalettici e catalettici
con rime alterne, e come quinto verso -quasi a scandire le varie compagini
strofiche e ritardare l'impeto ritmico, creando una tensione mirabilmente
suggestiva, - un ampio e sostenuto alessandrino, in cui riecheggia
la rima precedente. L'impressione complessiva è di danza, aerea,
assurgente con lieve ondulio ed esultazione, e che con periodica ricorrenza
resti come sospesa nel proprio inebbriamento. Già l'aver intuito
un sistema metrico così raro e delicato, in cui i vari elementi
attingono un equilibrio e una virtù di rapporto evocativo assolutamente
perfetti, dimostra a che segno potesse giungere la sensibilità
musicale e la sapienza artistica dello Shelley. La musica è
in lui primigenio elemento dell'ispirazione, è "the flood
of rapture so divine" che permea e informa in sul nascere, e
talvolta anche abbaglia, il suo pensiero e le sue immagini, sfocandoli
e dissolvendone la consistenza (5). Chi abbia letto o ascoltato To
a Skylark, se ne risente come da un sogno, di cui resti l'emozione
e il senso generale, ma i particolari sfuggano e si confondano. Più
che altrove, in questa lirica si avverte lo struggimento in musica
della parola.
Le immagini per significare il canto dell'uccello e le sensazioni
che esso suscita, sono tratte com'era ovvio dal mondo dei suoni, ma
più ancora dal fenomeno luminoso. Suono e luce s'identificano,
anzi, costantemente associandosi a un'idea di perenne sgorgare fluire
traboccare, generano una multipla allucinante sinestesia. "Pourest
thy full heart / In profuse strains", "Thy voice... as the
moon rains out ber beams, and Heaven is overflowed", ''From rainbow
clouds there flow not / Drops so bright to see / As from thy presence
showers a rain of melody". Un verso, particolarmente, sussume
tutto questo complesso di sensazioni: "Thy notes flow in such
a crystal streams", dove nel solo "crystal" c'è
insieme la luce e il timbro sonoro.
La lirica comprende due momenti. Nel primo, di 14 strofe, il poeta
saluta l'apparizione dello Spirito -"an unbodied joy whose race
is just begun", o come dirà alla fine, "a scorner
of the ground" -spregiatore della terra - e ne contempla l'ascesa
entro la gloria del tramonto. In una serie di vaghissime immagini
cerca di adombrare la magia di quel canto. Qualcuno trova eccessivo
e perfino dispersivo tanto sfoggio d'invenzione; in realtà
quelle immagini non vanno considerate dal punto di vista della necessità
assoluta, ma vanno sentite -proprio nella loro insistenza e versatilità
- in un rapporto tutto soggettivo, come segno di un'incontenibile
esaltazione dinanzi a qualcosa che trascende l'umano, come ansia e
sforzo di penetrare nella più riposta essenza il mistero dell'ineffabile.
Così interpretate, esse non avranno più l'aspetto eli
estrose variazioni, ma di "approssimazioni", nel fondamentale
significato del termine. Potremmo definirle, come diceva Beethoven
della sua Pastorale, "più espressione di sentimenti che
non descrizione oggettiva" (Shelley non era un sensuale-visivo,
un descrittivo alla Spenser!), con la sola differenza che Beethoven
deriva quei sentimenti dallo stesso paesaggio contemplato, mentre
Shelley, attraverso gli aspetti del paesaggio, esprime una commozione
già concepita nell'ascoltare il canto dell'allodola. Conferiamo
dunque all'intera sequenza immaginifica prevalentemente il valore
di un'allusione, anche se il poeta, evocando questo o quell'oggetto,
consente poi alla scena per se stessa e s'indugia a vagheggiarla nei
suoi elementi.
Particolare rilievo assumono due strofe: l'ottava, perché annuncia
il rapporto tra l'uccello Spirito-cosmico e il poeta, che traducendo
in canto il proprio pensiero suscita simpatie mai provate e inizia
a un più vasto mondo morale i suoi simili; e la strofa undecima,
perché qui l'immagine della rosa, che soverchia con la sua
fragranza il vento, suggerisce - a differenza delle precedenti immagini
- più che delle sensazioni miste di fisico e di spirituale,
una sensazione quasi tutta d'anima.
La rapina dell'invenzione e la lusinga dell'elemento musicale, che
svaga la mente e crea un'atmosfera d'incantamento arielico, un'apertura
al magico, fanno sì che a un certo punto le visioni evocate
dal poeta per rendere il suo concetto sembrino - come in una favola
mitica - emanazioni sensibili di quell'Essere ultraterreno, una realtà
suscitata dal canto stesso dell'Allodola; proprio come quei fiori,
quelle luci, quelle ombre, quei sereni lunari e quelle foreste nevicate,
che la Nuvola, protagonista dell'ode omonima, crea di fatto.
Nel secondo momento la lirica muta carattere: all'entusiasmo contemplativo
e poetico subentra l'atto meditativo, l'antifona morale a ciò
che la prodigiosa rivelazione canora ha destato nell'anima e nella
fantasia. E qui cadono a proposito certe idee dello Shelley circa
gli effetti, morali appunto, della poesia e dell'immaginazione: "Il
grande strumento del bene morale è l'immaginazione; e la poesia
contribuisce all'effetto agendo sulla causa... La poesia rende amabile
ogni cosa..., libera dal decadimento le visitazioni del divino nell'uomo.
E' centro e circonferenza della conoscenza, è insieme radice
e fiore di ogni sistema del pensiero". "La poesia consegue
i suoi effetti operando una espansione nello spirito del lettore e
allargando le sue simpatie... La poesia non solo desta e dilata la
mente del lettore, ma rimuove il velo che tiene celata la bellezza
del mondo, e migliora gli uomini, non già proponendo loro delle
dottrine morali ma destando ammirazione per la bellezza e la verità...
La bellezza ispira amore in chi la contempla, e l'amore costituisce
appunto il grande segreto di ogni morale" (6).
Nel secondo momento, dunque, il poeta, confrontando la natura dell'Allodola
con la condizione degli esseri umani, vorrebbe conoscere da quali
fonti derivi sì chiara letizia, immune da tedio e da languore,
mentre nell'uomo anche i più soavi moti dell'anima - un sorriso,
un canto - non sono mai disgiunti da un senso di pena. O potremmo
noi pure levarci verso quella inviolabile felicità mediante
la purificazione interiore? Ma fino a che punto?... Inattingibile
è per noi tanta beatitudine; volesse almeno l'Allodola concederne
parte al suo adorante poeta, perché egli la propagasse tra
le genti! (7) Con questa invocazione, in Cui affiora il motivo tipicamente
shelleyano della "caritas" sociale e dell'apostolato, la
lirica si suggella.
Un autorevole studioso considera To a Skylark documento del "naturale
platonismo di Shelley... un simbolo della trascendenza dell'anima
dalla sfera del mortale ai cieli della purezza platonica (8)";
trascendenza, vorremmo aggiungere, che si attua per virtù di
poesia, al richiamo di quello Spirito Canoro "clothed in its
changeless purity" (9). Da Platone ci sembra direttamente suggerita
l'espressione "harmonious madness", che ricorda la definizione
dell'atto poetico come "divina mania".
ODE AL VENTO DELL'OVEST
Vento selvaggio,
Tu, anima viva
dell'Autunno, invisibile presenza,
che come spettri, evasi alla deriva
Dal mago, aride
foglie con violenza
pallide, nere, febbricose premi,
turba segnata dalla pestilenza;
Tu, che nel
soffio tuo gli alati semi
rechi al giaciglio della terra nera,
nell'invernale fredda tomba, stremi
Di vita fino
a che la messaggera
sua tromba squilli al trasognato mondo
la tua sorella azzurra in Primavera
- E leni bocci
muove, vagabondo
gregge nell'aura, e piani e colli affolta
di vive tinte e balsamo giocondo -:
Tu, Spirito
selvaggio, che sul mondo
passi dovunque e susciti rivolta,
e distruggi e conservi - ascolta! ascolta!
Tu, nella cui
corrente e nel tumulto
del precipite cielo come sciame
d'aride foglie riddano in sussulto
Le nubi, scosse
alle avvinghiate rame
del Cielo e dell'Oceano, messaggere
di turbine e di lampo, e nelle trame
Cerulee del
tuo aereo flutto fiere
balzano erette come in sulla fronte
di Menadi le fulve capelliere;
E sono là,
dal torbido orizzonte
fino all'etereo culmine, la scura
chioma delle Bufere a venir pronte;
Tu, nenia dell'annata
moritura,
su cui la notte calerà l'immensa
cupola sepolcrale, architettura
Di congiunti
vapori la cui densa
marea vomiterà nera e sconvolta
pioggia e grandine e fuoco - ascolta! ascolta!
Tu, che destavi
il Mare Nostro azzurro
dai sogni estivi, mentre lo cullava
dei cristallini gùrgiti il susurro
Nell'isola
pumicea, a Baia flava,
e rimiravi in seno all'onda aprica
un mondo trasognato che tremava
(Era un palagio,
era una torre antica
folta di fiori e muschi azzurreggianti:
dolci, che il senso, a dirli, si affatica!)-,
Tu, che al
passaggio tuo convelli e schianti
la librata oceanica potenza,
sì che dal fondo i fiori pullulanti
E quella selva
limacciosa, densa
di foglie esangui, tutto in una volta
riconoscendo la tua voce immensa
Allividisce
e trepida travolta
d'orrore, e si dispoglia - ascolta! ascolta!
Fossi un'arida
foglia che tu incalzi!
Nuvola fossi del tuo volo alata!
onda, che al giogo tuo ansimi e balzi!
Partecipe alla
tua foga indomata,
libero come te cui nulla infrena,
e accompagnarti nella tua svagata
Aerea fuga
come a la serena
mia fanciullezza, quando la mia voglia
di vincerti pareva un sogno appena;
E allora mai,
premuto dalla doglia,
ti assalirci con supplichevol tuono:
Vieni a levarmi, nube, flutto, foglia -
Io, sugli aculei
della vita prono
e sanguinante; e un peso d'ore assai
gravoso m'incatena, e curvo io sono:
Io, che ti
sono simile! E tu vai
rapido, altero, e mai domato - mai!
Fammi tu cetra
come la foresta
e cadano le foglie in tua balìa,
ma tu da noi agita dolce e mesta,
O nembo di
terribile armonia,
la canzone autunnale e in me converso,
Spirito fiero, sii l'anima mia!
Languide foglie
in seno all'universo,
reca i morti miei sensi a germi nuovi
e tra gli umani, a la malia del verso,
Quasi faville
e cenere sommuovi
da un fuoco eterno la parola mia,
ché il sonnolento mondo ti ritrovi
Sul mio labbro
squillante profezia! - -
Oh! Vento, se l'inverno è qui che giunge,
può mai la Primavera essere lunge?
Non il carezzevole
fluire di una melodia ritmicamente conclusa nel giro di singole strofe,
come nell'ode A un'Allodola. Qui, nell'Ode al Vento dell'Ovest - visione
di palingenesi cosmica, messaggio di palingenesi sociale -, si annuncia
subito una vasta e profonda agitazione, un moto rapinoso, irrazionale,
che scavalca versi e strofe annullandone quasi la percezione, con
improvvise cesure, imperiose scansioni, dopo ognuna delle quali s'innalza
e prorompe un nuovo flutto di possenti armonie. Mirabile esempio di
trascrizione in modi romantici della classica terzina dantesca, le
cui simmetrie e il cui equilibrio - "una calma e sostenuta energia",
diceva Shelley - vengono travolti e sconvolti da una forza aggressiva,
un impeto dionisiaco mai conosciuti. E mentre l'architettura dantesca,
con le sue ferme clausole di verso e di strofe, suggeriva un'idea
di frontalità, qui la compagine si volge in senso ascensionale,
direi gotico; e vi è un paradossale contrasto tra la forma,
pur "chiusa", e quella prepotente tendenza a un ritmo aperto,
libero.
La lirica si svolge in due momenti: il primo, di tre sequenze, ritrae
"impressionisticamente" l'azione del Vento sulla terra,
nel cielo, sul mare; il secondo, di due sequenze, trapassa in antifona
morale. Il poeta, profondamente commosso da quella rivelazione d'energia
e d'agitazione cosmica, esprime al Vento le sue ansie, le sue nostalgie,
il dolore di un'esistenza impedita e chiusa, le fiduciose istanze
della sua anima. Ma sia ch'egli s'indugi a descrivere, o che si confessi
e solleciti esaudimento ai propri voti, avvertiamo sempre nella lirica
un moto colloquiale, anzi, una specie di confronto drammatico, in
cui la parte dell'uomo è nella parola, quella del Vento nell'azione.
Le prime tre sequenze, col precipitare del ritmo o col solo ampio
devolversi del periodo, danno l'impressione di una corrente perpetua,
sostenuta anche dalle copiose assonanze ed allitterazioni del singolo
verso e per più versi successivi. Le due sequenze finali invece,
e specialmente l'ultima, in corrispondenza al carattere meditativo
e aggressivamente drammatico del discorso, hanno un andamento più
rotto, con pause via via più frequenti, con un periodo di poche
proposizioni, e perfino di una sola, brevissima.
In tutta l'evocazione del paesaggio mediterraneo, nella terza sequenza
Il l'allegro agitato" cede a un dolcissimo "cantabile",
alla cui assorta cadenza finale l'impeto riprende, con la recisa energia
di un monosillabo - "thou" - in rima, e dopo il punto fermo.
L'ode riassume non pochi motivi e atteggiamenti peculiari della personalità
shelleyana. La percorre una specie di "ebrezza metafisica e quell'impeto
che sembra tendere verticalmente verso una realtà la cui presenza
è tanto violentemente quanto indistintamente sentita"
(10) (E Chinol); impeto, non solo in senso verticale, ma anche espansivo,
come se il poeta volesse abbracciare il cosmo e identificarvisi diffuso
e confuso col Vento: "Wild Spirit, which are moving everywhere
... be thou me, impetuous, one!". Un anelito di liberazione dalle
"chains of Earth's immurement", "chains which Life
for ever flings / On the entangled soul's aspiring wings" (11);
un grido de profundis di chi si senta mancare sulle spine della vita,
sotto il grave peso delle ore che irretiscono e prostrano la sua anima;
l'aspirazione ad avvolgere in fraterno amplesso, non solo gli elementi,
ma soprattutto il genere umano, tra cui spargere l'inestinguibile
seme di un verbo sociale e operare con squilli di profezia il risveglio
dall'ignavia servile a una fede di libertà e di progresso;
tutto questo complesso di moti e d'intenzioni noi sentiamo agitarsi
nella grandiosa apostrofe al Vento considerata nella sua ideale sostanza
e nel suo tono sacrale (il triplice scongiuro "ho, hear",
l'espressione "by incantation of this verse"), senza lasciarsi
prendere dal gioco delle immagini che turbinando e accavallandosi
con impeto orgiastico, come spesso in Shelley, ritraggono episodicamente,
con tutti quei particolari che la visione poetica suggerisce, le scene
e i momenti dell'azione.
Il Vento qui evocato non è poi solo il soffio dell'Autunno;
la stagione resta un dato occasionale, condiziona una delle forme
che lo Spirito assume, operando in conseguenza. Ma questo Vento autunnale,
che cederà il campo alla sorella primaverile, ossia l'aura
serena dello zefiro, e attraverso la primavera si attesterà
compiutamente quale "preserver", viene ad essere in definitiva
una manifestazione di ciò che la fisica della Stoa, e poi la
filosofia panteistica del Rinascimento e del Romanticismo tedesco,
definivano "anima mundi". Quest'anima, convertendosi, promuove
dialetticamente la vita del cosmo. L'adesione al principio panteistico
e il concetto di distruzione e rigenerazione perpetua sono nel pensiero
dello Shelley fin dagli anni giovanili.
L'epiteto "wild" (selvaggio) replicatamente attribuito al
Vento - insieme con "tameless", "fierce", "uncontrollabe",
che ne rappresentano le varianti, anzi meglio, le componenti specifiche
- indica una vergine forza di natura che nulla può contenere,
ma che si attua sempre e ovunque con assoluto arbitrio. L'immagine
"tangled boughs of Heaven and Ocean" (gli intrecciati rami
del cielo e dell'oceano), oggettivamente assurda, esprime tiri rapporto
cosmologico, quella compenetrazione degli elementi del creato che
è pur basilare nella Weltanschatuing romantica, quasi un novalisiano:
"Muss Alles ineinander greifen", tutto deve reciprocamente
compenetrarsi (12).Anche i motivi dell'evasione dal terreno, per attingere
una sfera dove nulla si opponga agli slanci dell'anima, e della nostalgia
d'infinito, e del volersi inserire negli elementi liberi e imperituri,
sono un retaggio di spiritualità romantica. C'è chi
ricorda il Monti ispirato da Goethe nei versi Al Principe D. Sigismondo
Chigi, il Lamartine di "L'isolement", lo Hölderlin
della Abendphantasie (13). Ma potremmo richiamare il Goethe di Ganymed
e del Faust, il Petöfi di A. Gólya (La cicogna), il nostro
Leopardi nell'Infinito.
Ugualmente caratteristico dell'anima romantica è nello Shelley
il sentimento della fraternità cosmica. In Alastor si annuncia
come un solenne atto di amore verso tutti gli esseri, gli elementi,
i fenomeni del creato - "beloved brethren" (14) - e fa pensare
a Goethe che riconosceva "fratelli nel tacito bosco, nell'aria,
nell'acqua"(15); a Hölderlin che conversava "coi fiori
del mondo" (16), si stringeva a ogni cosa vivente, figlia di
un unico padre, chiamava fratello l'essere primaverile (17). Quando
Shelley dice di se stesso al Vento: "one too like thee"
(uno troppo simile a te), in queste parole non è solo un rapporto
di energia, non solo un asserto di coscienza titanica, ma vi è
pure, fondamentalmente, il richiamo a quel vincolo di fratellanza
per cui noi uomini, di fronte alle apparizioni della natura elementare,
avvertiamo "a secret correspondence with our heart" (18),
una segreta corrispondenza con l'animo nostro.
Il paesaggio italiano - tra cui sorsero le liriche al Vento, all'Allodola,
alla Nuvola - approfondì nel poeta e rese più caldo
il sentimento della fraternità cosmica; gli rivelò anche
quanto della propria sostanza ed eccellenza l'antica poesia classica
dovesse alla comunione con la natura (19). Per intendere appieno il
passo: "And by incantation of this verse, / Scatter, as from,
an unextinguished hearth / Ashes and sparks, my words among mankind!
/ Be trough my lips to unawakened earth / The trumpet of a profecy!"
(e all'incanto del mio verso diffondi, come faville e ceneri da un
inestinguibile focolare, le mie parole tra il genere umano. Sii, dalle
mie labbra, per la terra immersa nel sonno, lo squillo di una tromba
profetica), bisogna tener presente "la passione di riformare
il mondo" (20) che lo Shelley ebbe sempre vivissima e che, come
appare dai suoi scritti in poesia ed in prosa, lo induceva a considerarsi
uno spirito eletto, investito dalla missione d'illuminare gli uomini
- eco di concezioni settecentesche -diffondendo tra loro un credo
di evoluzione e di perfezionamento sociale. Per quanto dichiarasse
di "aborrire" la poesia didattica, in realtà questa
tendenza è largamente attestata dalla sua opera e dalle sue
confidenze epistolari (21). "Io ho cercato d'impiegare l'armonia
del linguaggio metrico, le eteree combinazioni della fantasia, i rapidi
e sottili trapassi delle umane passioni, tutti quegli elementi insomma
che essenzialmente contengono la poesia, a favore di una morale liberamente
e comprensivamente intesa, col proposito di accendere nell'animo dei
miei lettori un virtuoso entusiasmo per quelle dottrine di libertà
e di giustizia, per quella fede e quella speranza in qualcosa di buono,
che né violenza, né travisamenti, né pregiudizi
potranno mai totalmente estinguere nel genere umano" (22). Anche
quando l'autore, più tardi, aveva perduto la speranza di provocare
coi mezzi della poesia quelle riforme che il suo ardente umanitarismo
e la sua ragion rivoluzionaria postulavano per l'emancipazione del
genere umano; anche quando egli si era sempre più ritirato
in se stesso, rassegnandosi a "esercitare la sua fantasia per
diletto proprio e forse di altri pochi" (23), malinconicamente
consapevole che il "poeta è un usignolo il quale sta nell'ombra
e canta per consolare con dolci suoni la propria solitudine (24),
anche allora la sua adesione e la passione alla causa dei fratelli
umani rimase intatta: "Il sistema sociale quale si presenta oggi
dev'essere scalzato dalle fondamenta con tutte le sue superstrutture
di norme e forme prima che si debba trovare qualcosa di non deludente
nei nostri rapporti con chi non sia dei pochi spiriti eletti. Il rimedio
a cui alludiamo non è dei più facili, ma non per questo
i pochi generosi hanno meno coraggio per tendere con ogni loro sforzo
verso tale soluzione" (25).
Nel Vento dunque, agitatore cosmico per eccellenza e strumento di
rinascita, il poeta scorge come la mitica proiezione di se stesso,
e al Vento chiede impeto e sinergia di fede, per sollecitare quella
"primavera", grandioso rinnovamento etico-sociale quale
è descritto nel quarto atto del Prometheus, a cui il suo spirito
anela, e che dovrà pure inverarsi. L'ultima parte dell'ode
ha carattere di elevata eloquenza, in un tono spiccamente personale
e patetico.
Improvviso, ma non imprevisto è il trapasso dalla prima alla
seconda parte dell'Ode: dal momento "fenomenico", che ritrae
l'azione del Vento nella natura, al momento "morale" in
cui il poeta dà voce alle emozioni, aspirazioni, attese, che
l'elemento cosmico ha da sempre destato, e desta anche ora, in lui.
Dà voce soprattutto al suo prepotente anelito di comunione
e assimilazione motivato dall'affinità elettiva che sostanzialmente
lega il proprio essere a quella Potenza universale. E' il noto motivo
dell'evasione - assunzione - immedesimazione cosmica proprio dall'anima
romantica: dai prodromi agli estremi epigoni del movimento. Già
Goethe, del periodo stürmeriano, invocava: Un alto, in alto,
urge lo slancio, e le nubi discendono lievi, le nubi si piegano all'anelante
amore: a me! a me!... Oh, nubi -nel vostro grembo: in alto!"
(Ganimede). E così nel Faust: "Oh se l'avessi un'ala prepotente
da strapparmi alla terra ed inseguirlo (il Sole) nella sua corsa infaticabilmente!"
- E Petöfi: "Perché l'uomo ancora non ebbe da Dio
quelle ali?... I suoi piedi lo possono assai condurre lontano - in
alto giammai!... Che importa l'andare? E' vano desio. Il fondo dei
cieli è anelito mio!" (La cicogna) E Wagner: "Nell'ondeggiante
mare dell'armonia stellare; nel palpito profondo, nel respiro del
mondo... naufragare... affondare... senza... coscienza... Suprema
voluttà! (Tristano e Isolda, tr. V. Errante). Il nostro Leopardi:
"Così tra questa immensità s'annega il pensier
mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare".
Ma Hölderlin, soprattutto, elabora questo motivo della integrazione
cosmica in sempre nuove, preziose variazioni e modulazioni, e per
di più con un afflato religioso estraneo al poeta inglese:
"Come lieto, allora, con gli esseri tutti mi precipitavo dalla
solitudine del Tempo tra le braccia dell'Infinito!" (Alla Natura);
"Vorrei le vette dei monti vagare e di lassù gittare all'aquila
rapida il grido, ché come un dì tra le braccia di Giove
il fanciullo beato, da questo carcere me nei templi dell'Etere levi"
(All'Etere).
In Shelley il motivo dell'attrazione simpatetica uomo-vento giuoca
su due piani: il piano "caratteriologico-affettivo" della
sostanziale affinità di caratteri nell'uno e nell'altro soggetto:
"indomito, rapido, altero, fiero, impetuoso"; e il piano
"ideologico" della comune funzione, o missione, a cui sono
destinati entrambi: il Vento a riscuotere, rivoluzionare, rigenerare
il mondo fisico purificandolo di ciò ch'è morto e disfatto,
e spargendo al tempo stesso i semi della rinascita; il poeta operando
analogamente nell'ambito della società umana. Questo duplice
legame simpatetico - seppur sottaciuto - è ben presente alla
coscienza del poeta fin dall'inizio dell'Ode. Non appena pronuncia
l'appello: "Vento selvaggio, Tu, anima viva dell'autunno!",
egli sente già di parlare al "suo simile"; nella
seconda parte dell'Ode lo dice esplicitamente: "One too like
thee!" (uno che troppo ti è simile).
Per quel che riguarda l'altro legame, da noi definito "ideologico"
in quanto inerente all'azione rivoluzionario-rigeneratrice dei due
soggetti, ricordiamo che l'associazione e l'equivalenza funzionale
tra Vento e Uomo, prima che in quest'Ode, era stata da Shelley ideata
nel poema la Rivolta dell'Islam, dove compare Laone, eroe tipicamente
shelleyano pervaso da spirito messianico, il quale, deciso a riscuotere
dal letargo la moltitudine, diffonde la sua parola che illumina e
soggioga. Il suo canto, simile al vento dell'ovest che reca ovunque
i semi della futura rinascita, popola di pensieri il mondo, fuga la
tenebra e vanifica la maledizione che grava sul genere umano -. Già
qui è prefigurata l'allegoria della nostra Ode.
Il problema politico-sociale impegna Shelley dalla prima giovinezza
alla fine della vita (26). Diciottenne, all'università di Oxford,
s'iniziava già a quello che sarebbe stato il suo radicalismo
leggendo il trattato Political Justice di William Godwin; e confidava
a un amico di avere "in preparazione un romanzo costruito principalmente
per esprimere opinioni metafisiche e politiche per mezzo della conversazione"
(27). A due anni dalla morte era occupato a portare avanti il saggio
Philosophical View of Reform, a proposito del quale confessava di
"aver disertato gli aulenti giardini della letteratura per avventurarsi
nel gran deserto sabbioso della politica" (28). Non è
nostro proposito occuparci in questa sede della maggiore o minore
consistenza e coerenza delle idee, dei progetti, degli scritti politici
shelleyani. E' risaputo che tanto alla sua epoca quanto ai nostri
giorni la sua formazione e il suo intendimento in fatto di politica
sono stati di volta in volta giudicati come propri di uno spirito
superficiale, confusionario, contraddittorio, infantile, visionario
e via di seguito. "Spacciatore di chimere" lo ha definito
qualcuno. Sia come sia, l'argomento non interessa chi si proponga
unicamente di cogliere il significato dell'Ode al Vento dell'Ovest.
Per intenderla nella sua pregnanza emotiva, nei suoi contenuti, nella
sua tensione di messaggio ideale all'Umanità, occorre sostanzialmente
tener presenti la passione riformistica dell'autore; la sua radicale
condanna delle istituzioni che soffocano la libertà e impediscono
il sano sviluppo civile e spirituale della società; la sua
vocazione e ansia messianica; il proposito di servire la causa del
rinnovamento con fedeltà, slancio, dedizione da missionario
dell'Idea. La rivoluzione come egli la intende non è eversione
violenta, con spargimento di sangue, ma si configura come un processo
da attuarsi mediante la diffusione del Pensiero, l'opera della Parola
(sono termini-chiave nell'ode al Vento e in tutta la produzione shelleyana),
Parola-Azione, l'autentico contributo ch'egli può e vuoi dare.
Nell'organizzazione dell'universo quale esso realmente è (per
l'"effettuale verità della cosa", direbbe Machiavelli),
il Bene e il Male sono inestricabilmente congiunti, e la Necessità
è una forza amorale da cui gli uomini non possono permettersi
di dipendere. Il compito di rinnovare il mondo ricade sulle spalle
di guide sagge, giuste, moralmente virtuose, un'esigua schiera di
uomini a cui si può sicuramente affidare la diuturna, scoraggiante
mansione d'indirizzare e scortare la società umana verso lo
storico Millennio (C. Baker). Nelle mani di questi esseri virtuosi
è riposta la responsabilità di liberare il mondo dal
Male. Perché, dice Shelley, "quello che sembra essere
un fattore di corruzione ingenito nella natura umana è in realtà
il risultato d'istituzioni politiche non consone alla Natura"
(29). Il Bene non potrà non attestarsi "quando si elimini
tutto ciò che vi è di consunto nel sistema politico
e religioso". A proposito di religione non è superfluo
ricordare che l'"ateismo" shelleyano va inteso in un senso
ben delimitato, cioè come rifiuto del Dio adirato veterotestamentario,
e come generico atteggiamento anticristiano, anche in forme sentimentalmente
esasperate nella prima giovinezza. In seguito, riconoscendo l'essenza
e il valore del pensiero etico di Gesù Cristo, il poeta concepì
per il Figlio dell'Uomo profonda ammirazione. Rimase tuttavia anticristiano
per l'immutata convinzione che il genuino insegnamento di Cristo fosse
stato manipolato, falsificato, pervertito dalle sopraggiunte generazioni
di teologi.
Per quanto riguarda la formazione politica di Shelley, non c'è
dubbio che suo primo e autorevole maestro sia stato il Godwin da cui
ha derivato principi e indirizzi fondamentali: radicalismo, migliorismo,
non violenza ecc., anche se poi nella sua visione ideologica siano
via via confluiti elementi di altri autori: Platone, Rousseau, Hume,
Holbach, Condorcet ecc. Al Godwin, tipica figura di razionalista illuministico,
egli scriveva dopo averne letto l'opera: "Non voglio pubblicare
nulla che non conduca alla Virtù" (30). Né la Virtù
soltanto gli aveva messo innanzi il maestro, ma anche gli altri fattori
essenziali della convivenza sociale, quali la Verità, la Giustizia,
la Libertà, l'Amore degli uomini, la Ragione destinata a trionfare
della Necessità a cui era deterministicamente sottoposto il
mondo; la Fede nella perfettibilità dell'uomo, illuminato e
capace insieme di agire su se stesso gradualmente migliorandosi. Shelley,
nel suo migliorismo, si spingeva a posizioni che né Godwin
né altri illuministi avrebbero condiviso: egli postulava una
età dell'oro non in senso retrospettivo, ma prospettivo (31),
destinata insomma all'uomo dell'avvenire per il grado di perfezione
da lui raggiunto e la conseguente felicità (eudemonismo!) realizzatasi
in questo processo. Come nel Godwin, anche nella visuale di Shelley
l'uomo è portatore di una colpa, non però quella originale,
che non esiste. Una saggia riforma delle istituzioni avrebbe portato
al superamento della tendenza a peccare, che nell'uomo non è
ingenita ma socialmente indotta.
Di primaria importanza nell'insegnamento del Godwin è il ripudio
della violenza come molla di progresso (in termini a noi più
familiari: come "levatrice della storia"). E' l'amore che
dev'essere predicato e propagato tra gli uomini. Shelley stesso ribadisce
ripetutamente e risolutamente l'astensione dalla violenza nell'azione
rivoluzionaria. E proprio per questo condanna la Rivoluzione francese,
considerandola "il classico esempio di come potesse riuscire
disastroso un mutamento in apparenza mirabile". Radicale sì,
nella convinzione che il Male debba essere estirpato dalla società
umana; rivoluzionario sì, nel propugnare e perseguire quest'impresa;
ma avverso a ogni forma di violenza. Solo per le vie dell'Amore, e
attraverso la diffusione della verità, e con l'esortazione
e l'educazione alla speranza, alla sopportazione, all'assiduo perfezionamento
di se stessi, si perverrà alla meta nel corso di un graduale
miglioramento. In un solo caso è ammesso il ricorso alla violenza:
come diritto all'insurrezione se i governi per opporsi alla volontà
della nazione impiegano le forze armate. Ma anche questa extrema ratio
pesa non poco sulla coscienza di Shelley.
Con la scorta di questi essenziali riferimenti si può individuare
il sostrato ideologico dell'Ode al Vento dell'Ovest, una creazione
viva e perennemente vitale nel campo della lirica universale: in virtù
del suo affiato titanico e messianico, della fede, della speranza,
dell'amore (termini che anche un "laico" può usare!)
che la informano e la infiammano; in virtù della sua irresistibile
forza di trascinamento, d'irrefutabile appello, di promessa ("Può
mai la Primavera essere lunge?") a "tutte le nazioni indistintamente
sorelle", come diceva il Poeta. Così noi leggiamo quest'Ode,
e assorbiamo nelle intime fibre la luce e il fuoco del messaggio,
vibrante e inequivocabile per il nostro intelletto e per la nostra
anima, anche se altri, giganti di dottrina e di acume, ma un tantino
ritardati di fantasia e di sentimento, evidenziano in essa incongruenze
e assurdità. Per la lirica di Shelley - oggi non particolarmente
rivisitata e delibata in quelle che pure son le sue più alte
manifestazioni - il metro e la chiave ce la suggeriscono le parole
di Faust: ''Gefühl ist Alles", il sentimento è tutto!
LA NUVOLA
Io reco alle
corolle sitibonde
i vividi scrosci dal mare e dalle riviere;
sui meridiani sogni delle fronde
mi calo e le copro d'un velo di ombre leggiere.
Dalle mie penne scrollo le rugiade
e desto i soavi germogli con murmure blando:
li desto sii dal seno della Madre,
che in sé li cullava volgendosi al Sole e danzando.
Vibro sui piani un rapido flagello
di grandine - sbiancano i prati appena io lo
piombo -,
poi stempero la grandine in ruscello
di pioggia, e scoppio in un riso, e passo in un
rombo.
Volo sui monti
e la mia neve staccio:
ne geme la grande foresta dei pini, sgomenta;
il mio bianco guanciale me ne faccio
e dormo così fra le braccia della tormenta.
Il Lampo è il mio pilota, che ha per trono
le torri sublimi dei miei celestiali manieri;
sotto, in un antro, è incatenato il Tuono,
che a tratti si scrolla e sobbalza in ululi fieri.
Su terra e mare quella guida mia
con un movimento leggiadro mi sa pilotare,
conquiso da l'amabile malia
dei Genii che scorrono i fondi purpurei del
mare.
Sui ruscelli, sui laghi, sulle fonti
- dovunque egli sogni - su fiume, su clivo, su
cresta,
in seno alle correnti e in seno ai monti
- dovunque egli sogni - il Genio ch'egli ama,
s'arresta.
Io, nel sorriso dell'azzurro ho tregua,
e un blando tepore, mentr'egli - piovendo -
dilegua.
Quando con
occhi di meteora s'alza
l'Aurora sanguigna e spiega la fiamma dell'ale,
poi sul mio veleggiante alito balza,
la stella del giorno si vela d'un bianco mortale.
Così, d'una montagna sulla cresta,
che scossa da un tremito fondo sussulta ed
oscilla,
l'aquila batte, e un attimo s'arresta,
e tutta nell'oro dei fulgidi vanni sfavilla! -
Quando il Tramonto, dai marini seni,
ardente di pace e d'amore aneliti esala,
quando dai fondi ceruli sereni
la Sera il suo manto radioso di porpore cala,
me riposante nel mio nido trova,
con ali raccolte, d'aerea colomba che cova.
La Vergine
dal globo fuoco e argento,
cui nomina Luna chi lingua mortale favelli,
scivola fioca sul mio pavimento
spianato dai venti notturni in labili velli,
e il lieve tocco del suo piede udito
dagli angeli soli, dovunque furtivo s'incastri
e rompa del mio tetto il frale ordito,
s'affaccia ed occhieggia un subito giubilo d'astri.
Oh! come sgorga, oh! come vola e sciama
(io guardo e sorrido) quel grappolo d'api, prorotto
dalla mia sempre più disfatta trama:
quei fiumi, quei laghi, quei mari che tremano
sotto,
sono lembi di cielo, ch'io lasciai
cadere e, caduti, di stelle e di luna smaltai.
Io cingo il
Sole d'una zona ardente,
d'un cinto di perle la Luna, d'un'ombra i vulcani:
ruotano gli astri vorticosamente
quando apro il mio làbaro all'impeto degli uragani.
Da riva a riva pendula mi getto
a guisa di ponte; Sui fervidi gorghi salmastri
poggio e mi spiano, simile ad un tetto
che al Sole fa schermo ed ha le montagne a
pilastri;
e l'arco glorïoso sotto il quale
tragitto, col Nembo la Neve la Folgore, e avvinte
le Potenze dell'aria al trïonfale
mio carro, è l'Iride bella di multiple tinte;
tinte che il fuoco dell'empireo intrise,
quando - sotto - la Terra umida rise.
Figlia dell'Acqua
e della Terra io fuggo
al Ciel che mi nutre, m'insinuo nei pori del
mare,
urgo nel suolo, cangio e non mi struggo;
ché quando la pioggia è passata e torna a brillare
l'immacolato etereo padiglione,
e i Venti ed il Sole con fasci di luce convessi
novellamente inarcan la magione
dai domi sublimi soffusi d'azzurri riflessi,
io, dal mio cenotafio, rido e taccio -
Ma già da gli abissi che covano piogge mi
svello:
bimbo dall'alvo, spettro dall'avello,
mi levo improvvisa e il mio cenotafio disfaccio.
D'impostazione
nettamente diversa è la lirica The Cloud. Qui non parla più
il poeta ma il fenomeno stesso personificato, così che la finzione
acquista più che mai il carattere di un mito allo stato nascente.
Non avvertiamo però una vera ispirazione lirica, né
ritroviamo quell'alternanza e compenetrazione di elementi oggettivo-sensitivi
e di presenza spirituale che improntava l'Ode to the West Wind e To
a Skylark. Qui tutto procede in tono piuttosto discorsivo, sia pure
attraverso una serie d'immaginosi quadretti squisitamente elaborati,
i quali richiamano un genere e un gusto pittorico-vignettistico di
remota tradizione alessandrina.
Arridenti, prestigiose nella loro varietà e nella loro vivezza,
sono le immagini con cui lo Shelley - da artista più che da
poeta - ritrae la metamorfosi della Nuvola e il suo operoso intervento
nel creato; ma sotto questa lussureggiante imagery, non lievita la
sostanza ideale notata negli altri componimenti, e nessuno potrebbe
eccepire al lettore di non aver saputo guardare in profondità,
oltre la bellezza della figurazione, per scoprire ricchi nuclei e
rapporti di pensiero. E' pur vero che lo Shelley, per quanto abbia
occhio spesso acuto per le forme esteriori del creato, non a queste
direttamente volge il proprio interesse, ma vive sempre in un suo
universo ideale, dove "tutto riveste i colori della sua anima
e tutto si abbellisce dei mille arabeschi della sua sensibilità".
E' pur vero che nella contemplazione della Nuvola - quando essa reca
vita e ristoro oppure diffonde sgomento e distruzione; quando vaga
sognante sulla distesa del mare o si scalda nel sorriso del cielo
azzurro; quando veleggia sotto le ali fiammeggianti dell'aurora o
si raccoglie nei quieti ardori del tramonto; quando gode al volubile
gioco degli astri o spiega il suo labaro al soffio degli uragani -
s'insinuano i più diversi moti dell'anima shelleyana. Ma ciò
non toglie che il paesaggio qui evocato resti decisamente sul piano
di una resa figurativa, e non traluca in vivo suggerimento metaforico
nel senso altre volte notato. Soltanto la strofa finale accenna un
inserimento nella sfera dell'idea, un'elevazione dal fisico-sensitivo
all'intelligibile, mediante l'epigrammatico asserto: " change,
but cannot die", per cui anche la Nuvola, lungamente e insistentemente
contemplata nella sua realtà fenomenica, si rivela poi simbolo
di ciò che, perennemente trasformandosi, dura e conserva tuttavia
la propria identità: l'Essere nel suo processo metamorfotico
e palingenetico. Il Notoupolos definisce questo simbolo - dell'uno
e molteplice -espressione di un costituzionale platonismo dello spirito
shelleyano, senza consapevole riferimento alla dottrina del Filosofo
(32). Tornando ai quadretti di cui si compone la lirica, siamo tratti
a intravedere in essi, nella loro successione, un che di schematico,
un prevalere di sedulità e di compiacimento compositivo sull'autentico
estro poetico, e per questo l'impressione che ne ricaviamo è
di permanente intrinseca frammentarietà. In definitiva, tutte
quelle immagini, che pure sono strettamente inerenti all'oggetto,
non risultano forse più divaganti e dispersive di quanto sembravano
essere, e non erano, le similitudini riferite all'Allodola? O si dirà
che l'autore, per ritrarre la mutevole vicenda della nuvola, non avrebbe
potuto procedere altrimenti?... Per noi il fatto rimane. Per noi The
Cloud rappresenta il prodotto di una virtù immaginifica, la
quale, nonostante tutto, procede un po' per forza d'inerzia, anticipando
in certo modo i lusus dannunziani di Versilia e di Undulna, naturalmente
- ed è anche questione di diversa temperie epocale - senza
le morbidezze sensuali del poeta italiano, senza l'assoluta gratuità
della rappresentazione; soprattutto con più "entusiasmo"
e, ancor sempre, con quella possibilità di apertura metafisica
che conferma lo spiritualismo shelleyano.
La mutevolezza della Nuvola non induce nel poeta sensi di malinconia
come quelli espressi nel componimento Mutability del 1814. Qui la
visuale era essenzialmente soggettiva, si rimpiangeva la perdita che
a noi reca il tramutarsi di ogni cosa bella e diletta; l'animo di
chi contemplava le immagini del creato, si rattristava al pensiero
della loro effimera consistenza e sapeva di sognare per poi "ridestarsi
e piangere". Nella Nuvola invece il mutamento è visto,
e fiduciosamente consentito, come un perenne svolgersi di nuova vita,
ritmo provvidenziale dell'universo e dilettosa varietà di spettacolo.
La combinazione di metri e di rime che il poeta adotta in The Cloud
si rivela, come sempre, appropriatissima; le vaghe cadenze di cantilena
nei versi in sede dispari, accentuate dalla rima interna, e il più
largo abbandono nei versi di sede pari rendono mirabilmente il tono
fiabesco del racconto (33).
NOTE
1) "Il mondo del terrore lo attrae... I fantasmi di tale mondo
avventuroso escono dai libri e gli prendono la fantasia in sogno ad
occhi aperti... Una specie di estasi scendeva su di lui" (E.
CHINOL, P. B. Shelley, Napoli 1955, p; 39 sg.). Chinol riferisce ancora
un giudizio di T.J. Hogg: "La mente di Shelley inclinava alla
superstizione" (op. cit., p.57). E il poeta stesso confessa:
"While yet a boy I sought for ghosts, and sped / Trough many
a listening chamber, cave and ruin, / And starlight wood, with fearful
steps pursuing / Hopes of high talk with the departed dead. / I called
on poisonous names with wich our youth is fed..." (Ancor da ragazzo
andavo in cerca di Spiriti, attraversavo di corsa camere tese in ascolto,
grotte e rovine, boschi tralucenti di stelle, inseguendo con passi
timorosi speranze di eccelsi colloqui coi defunti. Io invocavo nomi
di venefica potenza, dei quali si nutre la nostra fanciullezza), (Hymn
to Intellectual Beauty, str, V, in "Shelley's Poems", vol.
I, Introduction By A. H. Kosqul, London, London-New York 1953, p.
182). Questa edizione delle liriche dell'A. verrà citata in
seguito con la sigla S.P.
2) "Accanto al mondo visibile, multicolore ma instabile, esisteva
per Shelley un mondo invisibile, pieno delle potenze attive, le cause
primigenie di tutto ciò che ci si presenta nella mutevole veste
del mondo visibile" (W. CLEMEN, Shelleys Geisterwelt, Frankfurt
M., 1948, p. 67).
3) W. CLEMEN, op. cit., p. 23.
4) Tutte le volte che parliamo di metrica, ci riferiamo naturalmente
al testo originale inglese, non alle rispettive nostre versioni.
Anche Wordsworth e J. Hogg cantarono l'Allodola, ma quale distanza
tra la strofa shelleyana e quella da loro adottata! Così Hogg:
"Bird of the wilderness. / Blithesome and cumberless, / Sweet
be thy matin o'er moorland and lea! / Emblem of happiness, / Blest
is thy dwelling-place - / O to abide in the desert with thee!".
Un ritmo piuttosto meccanicamente cadenzato, che non suggerisce per
nulla l'anelante assurgere di quel volo, né il rapimento di
chi lo contempla. Il senario acatalettico di To a Skylark è
una tripodia trocaica che corrisponde accentuativamente al metro itifallico
della poesia latina, inserito come ultimo membro nel verso archilochio:
"Solvitur acris hiems grata vice véris et favóni"
(Orazio, Odi, I, 4; 1), ed ai versi epodici di certe canzoni goliardiche
medievali o sequenze liturgiche come "Ave maris Stella"
(attribuita a Venanzio Fortunato). Metro derivato dal dimetro trocaico
catalettico, secondo alcuni studiosi. Cfr. C. ALBIN, La Poésie
du Bréviaire, p. 449. Shelley lo accoglie anche nelle strofe
di Arethusa e di Lines: When the lamp is shattered. In italiano ricordiamo
di averlo incontrato sdrucciolo, e con intonazione canzonatoria, nel
Giusti. Per quanto riguarda la strofe quinaria, che uno studioso tedesco
argutamente definisce: "una bellezza misconosciuta" (W.
KAYSER, Kleine deutsche Versschule, Bern 1944, p. 43), dato il rarissimo
uso che ne fecero i poeti di tutte le epoche, lo Shelley ne inserì
qualcuna occasionalmente nella sua produzione più giovanile
(cfr. Poems from St. Irvyne I e III; To Death - rispettivamente -
in S.P., pp. 23, 24, 27, 45); poi con sempre maggiore frequenza nella
successiva, ma sempre in componimenti di carattere tutt'altro che
lirico (S.P., p. 292, p. 294, p. 300 sgg.), e perciò con una
giacitura di rime alquanto triviale. Una strofe pentastica armoniosamente
congegnata la troviamo in A Lament (pubbl. 1824):
O World! O life! O time!
On whose last steps I climb,
Trembling at that where I had stood
before;
When will return the glory of your
prime?
No more - Oh, never more!
Nella nostra versione, pur ormeggiando in qualche modo l'andamento
della strofa shelleyana, ce ne siamo disimpegnati e abbiamo reso come
la nostra tradizione metrica e la natura stessa della nostra lingua
consigliavano.
Un tedesco, semmai, potrebbe concedersi di rifare con felice risultato
questo modulo ritmico, come ad esempio il Weinheber, in una poesia
d'intonazione trasognata:
Glocken und Zyanen,
Thymian und Mohn.
Ach, ein fernes Ahnen
hat das Herz davon
.....................
Seh die Schiffe ziehen,
fühl den Wellenschlag,
weisse Wolken fliehen
durch den späten Tag -
(Im Grase)
5) E' quella stessa "rarefazione del tessuto connettivo di pensiero"
di cui parla Mario Praz, e per la quale "lo Shelley ha goduto
di poco favore presso i moderni, che spesso dimenticano l'estasi musicale
dei suoi canti" (M. PRAZ, Il libro della Poesia inglese, Messina-Firenze
1951, p. 366). Molto opportunamente al Santoli, nel trattare del misticismo
musicale di Wackenroder, ricorrevano alla mente versi dello Shelley:
"I pant for music which is divine", mi struggo dal desiderio
di musica, che è divina, cfr. V. SANTOLI, Wackenroder e il
misticismo estetico, Rieti 1929, p. 70.
6) Defense of Poetry.
7) Sempre allo Spirito della Natura il poeta chiede dono e impulso
di canto: "I wait the breath, Great Parent, that my strain /
May modulate with murmurs of the air ecc.". (Alastor, S.P., p.
164); "Make me thy lyre... Be through my lips to unawakened earth
/ The trumpet of a prophecy!" (Ode to the West Wind, ibid., p.
331).
8) Cfr. J. A. NOTOUPOLOS, The platonism of Shelley, Durham, North
Carolina 1949, p. 270 sg.
9) Vestito della sua immutabile purezza, Queen Mab, I, 182.
10) E. CHINOL, op, cit., p. 360. E' la Sehnsucht romantica: "impulso,
verso qualcosa di pienamente ignoto, che si manifesta semplicemente
mediante un bisogno, un senso di disagio, di vuoto che cerca di essere
riempito" (Fichte).
11) Catene del carcere terreno - catene che la vita getta per sempre
sulle ali anelanti dell'anima impigliata, cfr. Queen Mab, v. 188 e
Revolt of Islam, v. 958,
12) Novalis (ed. Minor), I, 160.
13) Vorremmo notare di passaggio che il rapporto del poeta tedesco
con l'Infinito, o con le forze e le essenze della Natura, ha un'accentuazione
assai diversa da quella del poeta inglese. Mentre in Shelley si avverte
principalmente ansia di libertà e di espansione cosmica dell'io,
s'avvertono moti passionali e ideologici, in Hölderlin spira
una tenerezza, urge un afflato religioso, che hanno radice nel Gemüt
e nella formazione pietistica dell'autore. Come sempre in Hölderlin
"la prima radice d'ogni parola, il primo impulso d'ogni suo moto,
è la pietas", cfr. A. PELLEGRINI, Hölderlin, Firenze
1956, p. 383). "Shelley spiritualizza le forze della natura,
ma non le divinizza. Lo spirito che nel Vento occidentale appare quale
un essere dotato di tanta potenza, rimane sempre Spirito della terra;
non è - come in Hölderlin (all'Etere) - lo spirito di
un mondo ultraterreno che si rivela quale Ente divino", cfr.
W. CLEMEN, p. 369 del saggio Shelleys Ode to the West Wind, in "Anglia",
LXIX, 3, pp. 335-375.
14) Fratelli amati, Alastor, vv. 1-17.
15) Faust, I, v. 3226 sg.
16) An den Aether.
17) An den Frühling.
18) MELVIN T. SOLVE, Shelley: His Theory of Poetry, Chicago - Illinois,
1927, p. 63. Mette conto di ricordare un passo del Tieck: "Nulla
di ciò che esiste nella natura può apparirci estraneo,
perché nell'uomo, centro del cosmo, si aduna intimamente collegato
tutto ciò che fuori di lui è isolatamente sparso, così
che tutti i domìni dell'essere hanno in lui quasi i propri
rappresentanti, in virtù dei quali l'uomo si sente vicino e
amico del tutto" (Kritische Schriften, I, 152).
19) "Il vento, la luce, l'aria, la fragranza dei fiori mi danno
(in Italia) sensazioni violente" (a Claire Clairmont nel 1821).
"Comprendo ora perché i Greci furono poeti così
grandi... Essi vivevano in continuo commercio con la natura e si nutrivano
dello spirito delle sue forme" (a Peacock, 26 gennaio 1819).
20) Prometheus, Prefazione.
21) Si veda in proposito M. T. SOLVE, op. cit., cap. I, "The
poet as teacher".
22) Revolt of Islam, Prefazione.
23) Lettera a Peacock; 26 gennaio 1819.
24) Defense of Poetry.
25) A Leigh Hunt, maggio 1820.
26) Anche negli anni del soggiorno in Italia, da esule (1818-1822),
anni magici della sua più alta produzione poetica, Shelley
continuerà ad occuparsi di politica: comporrà il più
cospicuo dei suoi scritti politici, Philosophical View of Reform (La
Riforma in visuale filosofica); seguirà puntualmente l'evolversi
della situazione inglese; dedicherà i più veementi suoi
versi polemici a personaggi e avvenimenti di spiccato rilievo nella
sua patria: The Mask of Anarchy (La mascherata dell'Anarchia), Peter
Bell the Third (Peter Bell Terzo), Swellfoot the Tyrant (Edipo il
Tiranno) ecc.. Su questo periodo di appassionata partecipazione e
feconda produzione politica si legga il nutrito e variegato saggio
di MARIA CRISAFULLI JONES, P.B. Shelley: l'impegno politico nella
produzione letteraria tra il 1819 e 1822, in Paradise of Exiles -
Atti del Convegno Internazionale di Pisa, Maggio 1985" - ETS
Editrice, Pisa, 1988.
27) Lettera a J.J. Stockdale, 18 dicembre 1811.
28) Lettera a John e Maria Gisborne, 6 novembre 1820.
29) Spesso si è accostato, quasi un precursore, lo Shelley
a Marx. Del resto lo stesso autore del Capitale si espresse su di
lui, paragonandolo a Byron, nel modo seguente: "La vera differenza
tra Byron e Shelley è questa: coloro che li capiscono e li
amano si rallegrano che Byron sia morto a trentasei anni, perché
se fosse vissuto più a lungo sarebbe diventato un reazionario
borghese; e si addolorano che Shelley sia morto a ventinove anni,
perché egli era essenzialmente un rivoluzionario e sarebbe
sempre stato uno delle avanguardie del socialismo"; cfr. C. BRINTON,
The political Ideas of the English Romanticists, Oxford, 1926.
30) Lettera a W. Godwin, 10 gennaio 1812.
31) A una rinnovata età dell'oro sono avviate le generazioni.
Questa convinzione è rispecchiata tra l'altro nel "dramma
lirico" Hellas: "The world's great age begins anew, / the
golden years return" (vv. 1060-61), la grande età del
mondo ricomincia, l'età dell'oro ritorna".
32) Op, cit., p. 270.
33) Nella versione italiana avviene il contrario, ossia il ritmo cantilenante
è nei versi di sede pari.
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