"Essendo
la musica scienza di relatione: et avendo per soggetto il numero sonoro:
non senza proposito viene ad essere parte matematica et parte naturale"
Joseffo Zarlino, 1571
Si può
facilmente rintracciare nel corso dello svolgersi della teoria musicale
un costante riferirsi all'elemento numerico per piegare all'umana
comprensione un fenomeno tanto restio a farsi imbrigliare entro categorie
classificatorie quale è quello sonoro.
Su queste stesse pagine abbiamo gettato uno sguardo, ormai parecchio
tempo addietro, sugli sforzi compititi da Pitagora sul suo monocordo
per elaborare una teoria matematica degli intervalli che svelasse
il segreto di altrimenti istintive consonanze.
Le teorie elaborate da questo brillante matematico, più noto
a dire il vero per il suo teorema sui triangoli che per le sue ricerche
musicali, pesarono con tutta la loro autorità sulla cultura
della classicità prima, attraverso pitagorici quali Archita,
Euclide e - non ultimo - Platone per poi proiettarsi con vigore immutato
su tutto il Medioevo con Boezio.
Si ricorderà, a proposito di medioevo, la suddivisione operata
ad uso didattico delle aree della conoscenza tra Quadrivium, ove venivano
accomunate le quattro arti liberali dette razionali -aritmetica, geometria,
astronomia e musica -, e Trivium, composto dalle arti liberali dette
retoriche - grammatica, logica e retorica -, la cui acquisizione nel
complesso costituiva l'istruzione inferiore del tempo.
L'inserimento della musica tra le conoscenze scientifiche può
far sorridere molti; tuttavia chi è mosso al riso dimostra
capacità classificatoria - e dunque di sintesi - inferiore
senz'altro a colui, o meglio a coloro che oltre un millennio fa inserirono
la musica tra le scienze del Quadrivium.
E questo per tutta una serie di motivi, ai quali accennerò
solo sommariamente: per capire almeno parzialmente quale era il ruolo
ricoperto dalla musica e dalle altre forme di conoscenza nel Medioevo,
bisogna quanto meno chiedersi verso quale obiettivo era indirizzato
il bagaglio culturale ritenuto allora indispensabile; la meta da raggiungere,
infatti, era la maturazione spirituale dell'uomo, e non lo sviluppo
di attività profittevoli o di capacità creative.
E viaggiando sulla rotta indicata da questa constatazione, le sorprese
non mancano: si scopre, ad esempio, che lo studio della musica non
era, quale generalmente lo intendiamo noi, studio pratico orientato
all'uso espressivo di uno strumento - il che veniva all'epoca considerato
basso artigianato - ma era al contrario volto verso l'aspetto teorico-speculativo
intorno al suono.
Oggetto per eccellenza di studio era l'armonia delle gère,
ovvero la musica che si riteneva prodotta dal moto sincronico dei
corpi celesti, unica arte dei suoni che valesse la pena studiare.
Tale musica veniva classificata da Severino Boezio come Musica Mundana,
musica dell'universo, e veniva contrapposta alla Musica Humana e,
un gradino ancora più basso, alla Musica in quibusdam constituta
instrumentis, ovvero - più semplicemente -la musica strumentale.
E, in questa prospettiva, la matematica rappresenta il machiavello
per cogliere l'essenza della musica in termini non retorici e con
un sufficiente margine d'astrazione.
Questo è il fulcro intorno al quale ruota l'idea che della
musica aveva l'uomo del medioevo, idea creditata dall'età classica
e che per molti aspetti sarà propria dell'attuale modo di pensare
alla musica: con la progressiva perdita dei riferimenti tonali ingenerata
dalle nuove tecniche compositive e dai nuovi orientamenti creativi,
si è riscoperto il numero in funzione di alias della tradizione:
quel che non rientra più nell'ambito delle regole della buona
composizione, e che quindi non trova giustificazione nell'alveo della
tradizione stessa, deve cercare altrove dei punti di riferimento.
In questa necessità di avallamento scientifico della prassi
compositiva si ha l'indizio di una nuova era creativa: abbiamo già
ricordato Pitagora; non minore fortuna ha avuto Rameau nel collegare
il fenomeno acustico degli armonici con la funzione centrifuga o centripeta
degli accordi costruiti sui vari gradi di una scala rispetto ad un
comune centro tonale; oggi si cercano fondamenti 'naturali' ancora
più in profondità, scomponendo il suono nelle sue più
recondite formanti timbriche.
Quello che ora faremo altro non sarà che gettare lo sguardo
sulle tecnologie che vengono applicate alla scomposizione e ricomposizione
numerica dei segnali sonori, per poter delineare un quadro delle ricerche
intraprese sulla scorta dei risultati sviluppati in questa direzione.
A partire - grosso modo - dalla seconda metà degli anni Quaranta,
si è sviluppata una nuova tecnologia, basata su alcune considerazioni
all'apparenza banali, e tuttavia nella realtà dei fatti a tal
punto ricche di implicazioni che a buon diritto si può affermare
che gran parte dell'attività umana sia oggigiorno se non basata,
quantomeno supportata dai frutti di tali implicazioni.
La più basilare di tali considerazioni vuole che una informazione
possa essere comunicata attraverso un minimo di due simboli, posti
tra loro in combinazioni variabili per numero e dislocazione.
Dato questo presupposto si è considerato che questo minimo
set di simboli poteva facilmente essere assimilato allo stato di un
qualunque dispositivo che potesse essere verificato in due - e non
più di due - distinte condizioni, quali ad esempio acceso e
spento, o magnetizzato e smagnetizzato, e per questa caratteristica
definito bistabile.
Il computer altro non è se non la macchina di più generale
utilizzo in grado di gestire dispositivi bistabili per l'elaborazione
di informazioni: anche 'informazioni' di tipo acustico, dunque, a
patto di fare uso di rappresentazioni numeriche dei suoni.
Vediamo dunque perché e come ingegneri, fisici e matematici,
cioè studiosi a tutta prima estranei al mondo creativo della
musica, hanno invece messo a frutto le loro conoscenze e le loro esperienze
in collaborazione con compositori e strumentisti, andando a formare
quella strana genìa dei musicisti informatizzati.
I primi esperimenti di applicazione degli elaboratori alla Musica
si sono svolti quasi per scommessa presso l'Università dell'Illinois
grazie a due informatici che si dilettavano di musica, Lejareen Hiller
e Leonard Isaacson e, considerando il fatto che l'elaboratore a disposizione,
un Illiac, era orientato ai problemi scientifici, come del resto la
quasi totalità degli elaboratori allora in circolazione, e
che mancavano ancora dispositivi in grado di convertire sequenze numeriche
in tensioni elettriche da inviare ad amplificatori ed altoparlanti
in modo da produrre suoni, i primi esperimenti sono stati necessariamente
rivolti alla produzione auromatica di composizioni 'per iscritto':
l'elaboratore, cioè, attraverso delle regole generali di composizione
introdotte dai programmatori in combinazione con numeri generati in
maniera pseudocasuale dall'elaboratore stesso, veniva messo nelle
condizioni di 'comporre' brani che spaziavano dalla semplice melodia
di poche battute fino alla composizione di medie dimensioni a più
voci ed in vari stili.
Questi esperimenti, datati 1955 e culminati nel 1957 con la famosa
'Illiac Suite' per quartetto d'archi, la prima composizione generata
dall'elaboratore Illiac pubblicata ed eseguita in pubblico, venivano
svolti quasi contemporaneamente sull'altro fronte, in Unione Sovietica,
su un elaboratore Ural da un altro informatico appassionato di musica,
il professore Rudolph Zaripov, autore tra l'altro di un libro tradotto
in italiano dall'editore Muzzio nel 1979 con il titolo "Musica
con il calcolatore", la cui lettura rende perfettamente il clima
che si respirava ai tempi di quelle ricerche così fuori dalle
righe.
L'apparente similarità degli studi condotti dagli americani
da una parte e dal sovietico dall'altra, nasconde però implicazioni
ben distinte: in America si diffonde infatti il mito dell'Intelligenza
Artificiale (AI, Artificial Intelligence), ampiamente supportato da
letteratura e cinematografia e contornato dalle allora imperversanti
'questioni morali, intorno all'uso sempre più diffuso dell'automazione
nei vari processi, non ultimo quello intellettivo; ed è quindi
nell'ottica dello sviluppo di autonome capacità di acquisizione
e sintesi delle conoscenze da parte dell'elaboratore che si muovono
gli esperimenti di Hiller e Isaacson, partendo dal presupposto che
una macchina in grado di creare prodotti artistici rivela capacità
intellettive assimilabili a quelle umane.
Nell'Unione Sovietica, invece, Zaripov frena il pionieristico entusiasmo
per le capacità dei computer - che pur lo contagia - e intravede
forse per primo una più immediata arca di utilizzo per queste
ricerche: considerando che il ruolo dell'analista-teorico è
quello di dedurre regole sintattiche e grammaticali con le quali interpretare
su un piano più astratto le opere di un repertorio già
esistente, o quanto meno in itinere, l'elaboratore può dimostrarsi
un valido collaboratore nella verifica della esattezza delle deduzioni
dei teorici; infatti, come accennato, l'elaboratore 'compone' semplicemente
generando in maniera apparentemente casuale dei numeri - interpretati
come frequenza di diversa altezza secondo determinate tabelle - che
vengono poi selezionati in base alle regole compositive introdotte
dai programmatori nella memoria del computer sotto forma di istruzioni
selettive.
Queste istruzioni altro non sono che regole tratte dalle grammatiche
musicali stilate dai teorici intenti nello studio e nell'analisi dei
repertori: se la composizione elaborata dal computer dimostra palesi
affinità col repertorio cui si riferisce, è dimostrata
l'esattezza delle regole formalizzate dai teorici.
Un ulteriore passo in avanti l'informatica musicale lo ha compiuto
quando l'elaboratore non si è limitato alla mera produzione
di partiture da suonare, in un secondo momento, con gli strumenti
tradizionali, come è il caso della 'Illiac Suite', ma si è
proposto nella veste di generatore di suoni e, dunque, di esecutore.
E' nel 1957 che uno dei 'grandi padri' della computer music, Max Mathews,
compie i primi esperimenti di sintesi dei suoni attraverso un elaboratore,
e questo avviene negli storici laboratori di ricerca della BELL, l'attuale
AT & T, l'ente telefonico americano famoso nell'ambiente informatico
per i suoi contributi alla tecnologia software.
Tuttavia questo ulteriore passo non è importante per il fatto
puro e semplice che l'elaboratore-musicista è ora - per così
dire - autosufficiente, dall'elaborazione della partitura fino alla
sua esecuzione: è invece la tecnica della composizione che
si arricchisce di uno strumento che consente di comporre il suono,
garantendo così al compositore un controllo totale sulla partitura,
dal più generale aspetto formale fino alla più particolare
sfumatura timbrica.
E' il realizzarsi dell'utopia cullata dai musicisti che fino ad allora
si erano cimentati con la costruzione del suono attraverso la manipolazione
dei nastri e degli oscillatori analogici. La natura perfettamente
numerica del computer permette un puntuale controllo dei parametri:
e tale controllo, contrariamente a ciò che accadeva nel caso
della manipolazione diretta di supporti magnetici e strumenti a tensione
continua, è perfettamente quantificabile, e dunque rappresentabile
e riproducibile.
Un'utopia, si diceva.
Un'utopia alimentata da musicisti lungoveggenti, quale era, ad esempio,
Edgar Varése, che nel 1936 diceva: "Sono certo che verrà
il giorno in cui il compositore, una volta realizzata graficamente
la sua partitura, potrà affidarla ad una macchina che ne trasmetterà
fedelmente ed automaticamente il contenuto musicale all'ascoltatore".
Un'utopia realizzata, visto che l'elaboratore è ormai a tutti
gli effetti un complesso e potente supporto all'estro del compositore.
Un'utopia a ben guardare ancora disertata dai diretti interessati,
i compositori. Pierre Boulez ha scritto: "L'apparizione delle
tecniche informatiche richiede l'apprendimento di nuove discipline:
matematica, programmazione elettronica, fisica acustica fanno parte,
in una certa misura, del bagaglio intellettuale degli allievi musicisti".
Ma è proprio vero che l'allievo musicista può dirsi
oggi dotato di questo ampio bagaglio culturale extramusicale? O non
è proprio questo - la non capacità/volontà di
avvicinare discipline così dense e distanti dall'ambito degli
studi strettamente musicali - ad aver tramutato un'utopia realizzata
in un'utopia tradita?
In effetti, un tentativo di avvicinare alla tecnologia digitale i
musicisti è stato compiuto, agli inizi degli anni Ottanta,
dalle case costruttrici di strumenti musicali elettronici con l'introduzione
di un protocollo standard, il MIDI (Musical Instrument Digital Interface),
studiato per facilitare la connessione e lo scambio di informazioni
tra strumenti di marche diverse.
Questo protocollo, sviluppato con finalità prettamente commerciali,
ha avuto tuttavia il merito - pur con tutti i limiti cui è
soggetto questo standard - di abbattere il muro di diffidenza che
si erigeva tra l'elaboratore ed il musicista, ora incentivato all'uso
del mezzo digitale dalla raggiunta facilità di utilizzo.
Malgrado questo risvolto a tuta prima positivo, dietro il MIDI si
cela la trappola del dilettantismo: il computer si trasforma troppo
spesso nel sostituto tecnologicamente evoluto dell'one man band box,
la scatola magica che tramuta virtualmente ogni persona in un complesso
orchestrale.
Quello che invece interesserebbe maggiormente il musicista, la logica
attraverso cui il computer manipola, registra ed esegue suoni e partiture
resta - per usare una terminologia mutuata dall'informatica - totalmente
trasparente all'utente finale.
Il protocollo MIDI è oltretutto fortemente orientato alla musica
di consumo, e dunque a tecniche compositive strettamente connesse
a criteri tradizionali: il che costringe il musicista entro argini
tonali e poco oltre, allontanando quindi il compositore colto. E'
quindi un passo indietro, giustificato solo da una politica di vendite
volta a larghe fasce di acquirenti.
In concreto, l'elaboratore applicato alla musica non si differenzia
poi molto, se non per potenza e generalità di applicazione,
dagli strumenti musicali tradizionali: necessita anch'esso di un più
o meno lungo tirocinio prima di poter essere sfruttato appieno.
Quel che ha scritto Boulez resta un punto fermo; l'alternativa è
l'approssimazione, il che non coincide né con gli interessi
dei compositori né con gli interessi degli ascoltatori.Troppo
poco tempo è trascorso dai primi esperimenti di Hiller ed Isaacson,
e ne è prova il fatto che tutti i temi relativi all'informatica
musicale toccati in questa necessariamente breve trattazione sono
ancora sul tappeto, dalla composizione automatica ai protocolli standard.
E, in definitiva, seppur al costo non lieve delle necessità
di una cultura extramusicale ben più salda ed ampia di quella
propria del musicista medio, la contropartita è ben soddisfacente:
l'informatica musicale è un terreno ancora vergine; ed è
un terreno estremamente esteso e ricco di risorse, luogo d'incontro
con le più disparate discipline, recenti e future. Per far
riemergere questa Nuova Atlantide, in definitiva, basta semplicemente
un po' di attitudine all'avventura.