§ Musica bistabile: il nuovo pitagoresimo

Suoni dal fondo del mare (3)




Sergio Bello



"Essendo la musica scienza di relatione: et avendo per soggetto il numero sonoro: non senza proposito viene ad essere parte matematica et parte naturale"
Joseffo Zarlino, 1571

Si può facilmente rintracciare nel corso dello svolgersi della teoria musicale un costante riferirsi all'elemento numerico per piegare all'umana comprensione un fenomeno tanto restio a farsi imbrigliare entro categorie classificatorie quale è quello sonoro.
Su queste stesse pagine abbiamo gettato uno sguardo, ormai parecchio tempo addietro, sugli sforzi compititi da Pitagora sul suo monocordo per elaborare una teoria matematica degli intervalli che svelasse il segreto di altrimenti istintive consonanze.
Le teorie elaborate da questo brillante matematico, più noto a dire il vero per il suo teorema sui triangoli che per le sue ricerche musicali, pesarono con tutta la loro autorità sulla cultura della classicità prima, attraverso pitagorici quali Archita, Euclide e - non ultimo - Platone per poi proiettarsi con vigore immutato su tutto il Medioevo con Boezio.
Si ricorderà, a proposito di medioevo, la suddivisione operata ad uso didattico delle aree della conoscenza tra Quadrivium, ove venivano accomunate le quattro arti liberali dette razionali -aritmetica, geometria, astronomia e musica -, e Trivium, composto dalle arti liberali dette retoriche - grammatica, logica e retorica -, la cui acquisizione nel complesso costituiva l'istruzione inferiore del tempo.
L'inserimento della musica tra le conoscenze scientifiche può far sorridere molti; tuttavia chi è mosso al riso dimostra capacità classificatoria - e dunque di sintesi - inferiore senz'altro a colui, o meglio a coloro che oltre un millennio fa inserirono la musica tra le scienze del Quadrivium.
E questo per tutta una serie di motivi, ai quali accennerò solo sommariamente: per capire almeno parzialmente quale era il ruolo ricoperto dalla musica e dalle altre forme di conoscenza nel Medioevo, bisogna quanto meno chiedersi verso quale obiettivo era indirizzato il bagaglio culturale ritenuto allora indispensabile; la meta da raggiungere, infatti, era la maturazione spirituale dell'uomo, e non lo sviluppo di attività profittevoli o di capacità creative.
E viaggiando sulla rotta indicata da questa constatazione, le sorprese non mancano: si scopre, ad esempio, che lo studio della musica non era, quale generalmente lo intendiamo noi, studio pratico orientato all'uso espressivo di uno strumento - il che veniva all'epoca considerato basso artigianato - ma era al contrario volto verso l'aspetto teorico-speculativo intorno al suono.
Oggetto per eccellenza di studio era l'armonia delle gère, ovvero la musica che si riteneva prodotta dal moto sincronico dei corpi celesti, unica arte dei suoni che valesse la pena studiare. Tale musica veniva classificata da Severino Boezio come Musica Mundana, musica dell'universo, e veniva contrapposta alla Musica Humana e, un gradino ancora più basso, alla Musica in quibusdam constituta instrumentis, ovvero - più semplicemente -la musica strumentale.
E, in questa prospettiva, la matematica rappresenta il machiavello per cogliere l'essenza della musica in termini non retorici e con un sufficiente margine d'astrazione.
Questo è il fulcro intorno al quale ruota l'idea che della musica aveva l'uomo del medioevo, idea creditata dall'età classica e che per molti aspetti sarà propria dell'attuale modo di pensare alla musica: con la progressiva perdita dei riferimenti tonali ingenerata dalle nuove tecniche compositive e dai nuovi orientamenti creativi, si è riscoperto il numero in funzione di alias della tradizione: quel che non rientra più nell'ambito delle regole della buona composizione, e che quindi non trova giustificazione nell'alveo della tradizione stessa, deve cercare altrove dei punti di riferimento.
In questa necessità di avallamento scientifico della prassi compositiva si ha l'indizio di una nuova era creativa: abbiamo già ricordato Pitagora; non minore fortuna ha avuto Rameau nel collegare il fenomeno acustico degli armonici con la funzione centrifuga o centripeta degli accordi costruiti sui vari gradi di una scala rispetto ad un comune centro tonale; oggi si cercano fondamenti 'naturali' ancora più in profondità, scomponendo il suono nelle sue più recondite formanti timbriche.
Quello che ora faremo altro non sarà che gettare lo sguardo sulle tecnologie che vengono applicate alla scomposizione e ricomposizione numerica dei segnali sonori, per poter delineare un quadro delle ricerche intraprese sulla scorta dei risultati sviluppati in questa direzione.
A partire - grosso modo - dalla seconda metà degli anni Quaranta, si è sviluppata una nuova tecnologia, basata su alcune considerazioni all'apparenza banali, e tuttavia nella realtà dei fatti a tal punto ricche di implicazioni che a buon diritto si può affermare che gran parte dell'attività umana sia oggigiorno se non basata, quantomeno supportata dai frutti di tali implicazioni.
La più basilare di tali considerazioni vuole che una informazione possa essere comunicata attraverso un minimo di due simboli, posti tra loro in combinazioni variabili per numero e dislocazione.
Dato questo presupposto si è considerato che questo minimo set di simboli poteva facilmente essere assimilato allo stato di un qualunque dispositivo che potesse essere verificato in due - e non più di due - distinte condizioni, quali ad esempio acceso e spento, o magnetizzato e smagnetizzato, e per questa caratteristica definito bistabile.
Il computer altro non è se non la macchina di più generale utilizzo in grado di gestire dispositivi bistabili per l'elaborazione di informazioni: anche 'informazioni' di tipo acustico, dunque, a patto di fare uso di rappresentazioni numeriche dei suoni.
Vediamo dunque perché e come ingegneri, fisici e matematici, cioè studiosi a tutta prima estranei al mondo creativo della musica, hanno invece messo a frutto le loro conoscenze e le loro esperienze in collaborazione con compositori e strumentisti, andando a formare quella strana genìa dei musicisti informatizzati.
I primi esperimenti di applicazione degli elaboratori alla Musica si sono svolti quasi per scommessa presso l'Università dell'Illinois
grazie a due informatici che si dilettavano di musica, Lejareen Hiller e Leonard Isaacson e, considerando il fatto che l'elaboratore a disposizione, un Illiac, era orientato ai problemi scientifici, come del resto la quasi totalità degli elaboratori allora in circolazione, e che mancavano ancora dispositivi in grado di convertire sequenze numeriche in tensioni elettriche da inviare ad amplificatori ed altoparlanti in modo da produrre suoni, i primi esperimenti sono stati necessariamente rivolti alla produzione auromatica di composizioni 'per iscritto': l'elaboratore, cioè, attraverso delle regole generali di composizione introdotte dai programmatori in combinazione con numeri generati in maniera pseudocasuale dall'elaboratore stesso, veniva messo nelle condizioni di 'comporre' brani che spaziavano dalla semplice melodia di poche battute fino alla composizione di medie dimensioni a più voci ed in vari stili.
Questi esperimenti, datati 1955 e culminati nel 1957 con la famosa 'Illiac Suite' per quartetto d'archi, la prima composizione generata dall'elaboratore Illiac pubblicata ed eseguita in pubblico, venivano svolti quasi contemporaneamente sull'altro fronte, in Unione Sovietica, su un elaboratore Ural da un altro informatico appassionato di musica, il professore Rudolph Zaripov, autore tra l'altro di un libro tradotto in italiano dall'editore Muzzio nel 1979 con il titolo "Musica con il calcolatore", la cui lettura rende perfettamente il clima che si respirava ai tempi di quelle ricerche così fuori dalle righe.
L'apparente similarità degli studi condotti dagli americani da una parte e dal sovietico dall'altra, nasconde però implicazioni ben distinte: in America si diffonde infatti il mito dell'Intelligenza Artificiale (AI, Artificial Intelligence), ampiamente supportato da letteratura e cinematografia e contornato dalle allora imperversanti 'questioni morali, intorno all'uso sempre più diffuso dell'automazione nei vari processi, non ultimo quello intellettivo; ed è quindi nell'ottica dello sviluppo di autonome capacità di acquisizione e sintesi delle conoscenze da parte dell'elaboratore che si muovono gli esperimenti di Hiller e Isaacson, partendo dal presupposto che una macchina in grado di creare prodotti artistici rivela capacità intellettive assimilabili a quelle umane.
Nell'Unione Sovietica, invece, Zaripov frena il pionieristico entusiasmo per le capacità dei computer - che pur lo contagia - e intravede forse per primo una più immediata arca di utilizzo per queste ricerche: considerando che il ruolo dell'analista-teorico è quello di dedurre regole sintattiche e grammaticali con le quali interpretare su un piano più astratto le opere di un repertorio già esistente, o quanto meno in itinere, l'elaboratore può dimostrarsi un valido collaboratore nella verifica della esattezza delle deduzioni dei teorici; infatti, come accennato, l'elaboratore 'compone' semplicemente generando in maniera apparentemente casuale dei numeri - interpretati come frequenza di diversa altezza secondo determinate tabelle - che vengono poi selezionati in base alle regole compositive introdotte dai programmatori nella memoria del computer sotto forma di istruzioni selettive.
Queste istruzioni altro non sono che regole tratte dalle grammatiche musicali stilate dai teorici intenti nello studio e nell'analisi dei repertori: se la composizione elaborata dal computer dimostra palesi affinità col repertorio cui si riferisce, è dimostrata l'esattezza delle regole formalizzate dai teorici.
Un ulteriore passo in avanti l'informatica musicale lo ha compiuto quando l'elaboratore non si è limitato alla mera produzione di partiture da suonare, in un secondo momento, con gli strumenti tradizionali, come è il caso della 'Illiac Suite', ma si è proposto nella veste di generatore di suoni e, dunque, di esecutore.
E' nel 1957 che uno dei 'grandi padri' della computer music, Max Mathews, compie i primi esperimenti di sintesi dei suoni attraverso un elaboratore, e questo avviene negli storici laboratori di ricerca della BELL, l'attuale AT & T, l'ente telefonico americano famoso nell'ambiente informatico per i suoi contributi alla tecnologia software.
Tuttavia questo ulteriore passo non è importante per il fatto puro e semplice che l'elaboratore-musicista è ora - per così dire - autosufficiente, dall'elaborazione della partitura fino alla sua esecuzione: è invece la tecnica della composizione che si arricchisce di uno strumento che consente di comporre il suono, garantendo così al compositore un controllo totale sulla partitura, dal più generale aspetto formale fino alla più particolare sfumatura timbrica.
E' il realizzarsi dell'utopia cullata dai musicisti che fino ad allora si erano cimentati con la costruzione del suono attraverso la manipolazione dei nastri e degli oscillatori analogici. La natura perfettamente numerica del computer permette un puntuale controllo dei parametri: e tale controllo, contrariamente a ciò che accadeva nel caso della manipolazione diretta di supporti magnetici e strumenti a tensione continua, è perfettamente quantificabile, e dunque rappresentabile e riproducibile.
Un'utopia, si diceva.
Un'utopia alimentata da musicisti lungoveggenti, quale era, ad esempio, Edgar Varése, che nel 1936 diceva: "Sono certo che verrà il giorno in cui il compositore, una volta realizzata graficamente la sua partitura, potrà affidarla ad una macchina che ne trasmetterà fedelmente ed automaticamente il contenuto musicale all'ascoltatore".
Un'utopia realizzata, visto che l'elaboratore è ormai a tutti gli effetti un complesso e potente supporto all'estro del compositore.
Un'utopia a ben guardare ancora disertata dai diretti interessati, i compositori. Pierre Boulez ha scritto: "L'apparizione delle tecniche informatiche richiede l'apprendimento di nuove discipline: matematica, programmazione elettronica, fisica acustica fanno parte, in una certa misura, del bagaglio intellettuale degli allievi musicisti".
Ma è proprio vero che l'allievo musicista può dirsi oggi dotato di questo ampio bagaglio culturale extramusicale? O non è proprio questo - la non capacità/volontà di avvicinare discipline così dense e distanti dall'ambito degli studi strettamente musicali - ad aver tramutato un'utopia realizzata in un'utopia tradita?
In effetti, un tentativo di avvicinare alla tecnologia digitale i musicisti è stato compiuto, agli inizi degli anni Ottanta, dalle case costruttrici di strumenti musicali elettronici con l'introduzione di un protocollo standard, il MIDI (Musical Instrument Digital Interface), studiato per facilitare la connessione e lo scambio di informazioni tra strumenti di marche diverse.
Questo protocollo, sviluppato con finalità prettamente commerciali, ha avuto tuttavia il merito - pur con tutti i limiti cui è soggetto questo standard - di abbattere il muro di diffidenza che si erigeva tra l'elaboratore ed il musicista, ora incentivato all'uso del mezzo digitale dalla raggiunta facilità di utilizzo.
Malgrado questo risvolto a tuta prima positivo, dietro il MIDI si cela la trappola del dilettantismo: il computer si trasforma troppo spesso nel sostituto tecnologicamente evoluto dell'one man band box, la scatola magica che tramuta virtualmente ogni persona in un complesso orchestrale.
Quello che invece interesserebbe maggiormente il musicista, la logica attraverso cui il computer manipola, registra ed esegue suoni e partiture resta - per usare una terminologia mutuata dall'informatica - totalmente trasparente all'utente finale.
Il protocollo MIDI è oltretutto fortemente orientato alla musica di consumo, e dunque a tecniche compositive strettamente connesse a criteri tradizionali: il che costringe il musicista entro argini tonali e poco oltre, allontanando quindi il compositore colto. E' quindi un passo indietro, giustificato solo da una politica di vendite volta a larghe fasce di acquirenti.
In concreto, l'elaboratore applicato alla musica non si differenzia poi molto, se non per potenza e generalità di applicazione, dagli strumenti musicali tradizionali: necessita anch'esso di un più o meno lungo tirocinio prima di poter essere sfruttato appieno.
Quel che ha scritto Boulez resta un punto fermo; l'alternativa è l'approssimazione, il che non coincide né con gli interessi dei compositori né con gli interessi degli ascoltatori.Troppo poco tempo è trascorso dai primi esperimenti di Hiller ed Isaacson, e ne è prova il fatto che tutti i temi relativi all'informatica musicale toccati in questa necessariamente breve trattazione sono ancora sul tappeto, dalla composizione automatica ai protocolli standard.
E, in definitiva, seppur al costo non lieve delle necessità di una cultura extramusicale ben più salda ed ampia di quella propria del musicista medio, la contropartita è ben soddisfacente: l'informatica musicale è un terreno ancora vergine; ed è un terreno estremamente esteso e ricco di risorse, luogo d'incontro con le più disparate discipline, recenti e future. Per far riemergere questa Nuova Atlantide, in definitiva, basta semplicemente un po' di attitudine all'avventura.


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