§ Nostoi

Il generale Turno




Antonio Errico



(Dedico questo racconto a mio padre e ad Antonio Verri. Da mio padre ho imparato a vivere la vita, da Antonio a vivere la scrittura. Se poi ho fatto confusione è colpa mia)

Perché mi stai cercando? Sono giorni - o forse anni, forse sono anni - che vengono a dirmi che mi stai cercando, che frughi la città di porta in porta, che vuoi sapere dove mi rifugio - formica, pensi tu di me, o volpe che cerca un buco nella terra, fondo -; che cosa vuoi, cos'hai da dirmi ancora, ora ch'è ormai finita la battaglia da un giorno - o un anno? a volte mi confondo, mi sperdo nel contare il tempo, a volte -, ora che siamo in questa guerra nuova, senza bandiera, io e te, di retroguardia, reduci da storie che non confessiamo, soldati senza reggimento.
Che cosa vuoi? Non mi nascondo. Vedi, faccio il mio lavoro e non mi chiedo perché e per chi, se sia sbagliato o giusto, se combatto per libertà o per tirannia, se per una verità o per menzogna.
Non so, e d'altra parte, poi, non mi riguarda, non ho ragioni da dare o domandare, non ho onore da difendere, né terra, né madre o sposa o figli. Nulla.
Di tanto in tanto penso a quel che è stato e mi sembra tutto così assurdo: Pallante, il tradimento delle Dire, Lavinia, il duello con te fino alla sera.
Certe volte non riesco a spiegarmi neppure come sia potuto accadere. Qui mi chiamano generale Turno. Mi fa ridere: generale Turno.
Ho preso la divisa a un ragazzo di vent'anni sorpreso nel gelo di un'alba da un cecchino. C'è ancora il foro del proiettile sul cuore, come un piccolo fiore nel taschino.
Generale Turno. Forse mi chiamano così perché sono il più vecchio, perché ho molto passato e molta guerra.
Com'è stato inutile il passato, inconcludente, stupido.
Il tuo sogno d'impero, il mio ostinato resisterti: inconcludenti, stupidi. Cosa rimane di tutto questo adesso.
Sono anni - o secoli? non so se anche a te succede qualche volta che il tempo si riavvolga dentro la memoria, si faccia groviglio grumo intrico - che tento di capire se i nostri nomi abbiano una storia, se sfuggano allo scuro che si spande sulle avventure degli uomini o se siano già precipitati in quell'abisso che non conosce fondo, che è mistero, vuoto, silenzio, estraneità a ogni luogo.
Ventitré novembre. Quindicesimo mese di assedio.
Raffiche di mitra. Colpi di mortaio. Sulla strada si accumula fango, costruisce trincee per bambini, per donne che strisciano da un angolo all'altro. Un camion è rimasto infangato. C'è nebbia.
Nel cortile della scuola di fronte anche oggi alzano tende.
Le tende resistono poco. Verso sera, ogni sera, dalla collina arriva un vento gelido che schianta i paletti, abbatte i teloni.
La notte è senza riparo. Da sessanta giorni manca la corrente elettrica. L'acqua è rossastra; bisogna bollirla. Le donne cercano di accendere il fuoco con le sterpaglie raccolte nel bosco vicino.
Ora le vedo inginocchiarsi. Pregano. Piangono. Piangono e pregano. Ancora colpi di fucile. Rombo d'aerei. Fuoco di contraerea. Un piccolo gruppo cerca di arrivare fino al forno. Sono sei. Hanno otto, dieci anni. Dal cortile al forno ci sono duecento metri, uno più uno meno. Corrono curvi a zigzag. Corrono. Cadono. Si rialzano. Corrono. Il forno è lontano. Arrivano in quattro. Due rimangono nel fango. Stasera li porteranno nel cortile.
Che cosa vuoi da me, che devi dirmi, adesso che è diverso il tempo e la distanza che c'è tra noi e il destino che fu nostro ci libera da ogni rancore, dal rimorso, che cosa vuoi che ti dica adesso?
Quella volta io sapevo come sarebbe finito il duello.
La notte prima vidi tutta la battaglia. Mi passò negli occhi senza sonno, ansiosi, per immagini frante, strappate, cangianti, come fossero figure di delirio o presagi.
Tutta la notte vidi la battaglia: vidi lo scompiglio, la rovina, le fughe senza scampo, disperate, udii le urla delle mischie sulla pianura.
Erano agitati i cavalli quella notte; li sentivo scalpitare come fanno quando sentono che arriva il temporale.
All'improvviso mi sembrò di avere voglia di piangere.
Era una sensazione che non avevo mai provato prima, una cosa che non sapevo fare. Non è così Turno, mi dissi, che si aspetta la battaglia.
Uscii piano, attraversai il cortile, entrai nelle stalle. Il cavallo aveva sete. Gli diedi acqua e biada. Poi appoggiai la fronte sul suo collo. Chiusi gli occhi. Piansi.
Non è così, mi dissi, che si aspetta la battaglia.
Quanto tempo è passato. In certi giorni, in certe notti, ho l'impressione di essere - come dire - una statua funeraria che qualcuno ha innalzato in questa città a memoria di una gloria o di un sogno, una di quelle statue a grandezza naturale che ornano i parchi.
Sarà per questo che mi chiamano generale Turno. Sarà per la leggenda di combattente fiero che mi porto dietro, quella leggenda che mi pesa più di quanto pesa a un guerriero ferito l'armatura, più dell'averti implorato di restituire a Dauno il mio corpo nell'ora odorosa d'acacia in cui s'alzarono pianti e grida di vittoria.
Adesso resto qui mattino e sera, di sentinella a una finestra; annoto su fogli grigi quel che vedo, quel che sento, cresco con gli occhi i gerani sul balcone della casa di fronte. Li vedi? Dimmi se sono ancora fioriti, anche se non è primavera, o se li copre la neve, dimmi se c'è ancora la casa, se c'è ancora il balcone, se si affaccia qualcuno, se sono arrivati i rinforzi, se la strada è deserta, se noti ombre furtive, se scurisce, c'è vento, se piove, se vedi combattere là sull'altura.
Devo annotare qualcosa, tra poco verranno a ritirare il rapporto; vengono sempre ch'è buio, non mi guardano in faccia, nessuno ancora si è accorto.
La bomba a mano rotolò qui sul davanzale bianco. Sentii pungermi gli occhi. Da allora ogni sera descrivo una guerra che non posso vedere: descrivo l'orrore, il dolore di questa città insudiciata, ammalata.
Da un anno, quasi da un anno, ogni sera riporto su questi fogli che accade, quello che immagino accada ascoltando voci sirene rumori, decifrando i passi per strada - se sono lenti o precipitosi - costruendo ritirate e avanzate, assalti e imboscate con le poche parole che riesco a sentire.
Scrivo seguendo la linea del fianco della mano, sto attento ai particolari, mi sforzo di essere puntuale, preciso.
Le guerre in fondo si somigliano tutte, basta averne conosciuta una sola.
Ventiquattro novembre. Quindicesimo mese di assedio.
Convogli di camion attraversano il quartiere scortati da cinque blindati. Non so dove vanno. Non riesco a vedere che cosa trasportano. Soldati, credo. Viveri no, certamente. Non li lascerebbero passare così.
Sul lato orientale vedo bagliori. Un incendio, forse. Imbrunisce.
Alcuni uomini - non sono vecchi, non sono giovani - escono dal campo, si riparano dietro un muro, aspettano in silenzio. Arriva un camion da ovest, scarica fucili, munizioni. Serviranno questa notte per la battaglia con i cani. Ogni notte branchi di cani affamati circondano il campo.
Ho saputo che stanotte seppelliranno una ragazza; è morta dissanguata dopo il parto.
Adesso è buio. Qualcuno esce per strada. A quest'ora i cecchini non sparano più.
A quest'ora cominciano a bombardare.
Tu da che parte stai stavolta, Enea?
Tu che conosci il tempo dell'assedio, quel tempo lungo che tramortisce e sfibra, i giorni incerti senza un equilibrio, tu che conosci lo stringersi di armate intorno alle mura della tua città affannata, e il disagio di guardare in faccia i figli, le notti sugli spalti silenziosi, la rabbia di sentirsi senza scopo, i fantasmi che ripetono resisti, tu da che parte stai, stavolta?
Tra poco verranno a prendere il rapporto, a darmi le consegne per domani. E' sempre uguale la consegna, dice: guardare, generale Turno, guardare.
Immagino che dica così. E' un foglio. Io lo piego, lo infilo nella tasca sul petto sotto il foro. Poi torno alla finestra. Cerco di ricordare. Mi tengo sveglio con le sigarette. Guarda: ne infilo una nell'incavo tra l'indice e il medio perché mi bruci le dita quando si consuma. Ho contato il tempo che ci vuole; cosa può succedere in quattro minuti, cosa può succedere più?
Mi insegnò mio padre a restare sveglio in questo modo.
In realtà non è veglia e non è sonno; è una coscienza ansiosa, insicura, che aiuta il ricordo: dà movimento alle immagini, voci alle figure, colore ai luoghi.
Ho imparato a ricordare senza commozione. Ora riesco a percepire il sussurro delle ombre che si sono radunate nello spazio cieco di questi occhi, so come interrogarle, come ascoltare le risposte. Nello spazio dei miei occhi le ombre ripetono battaglie, ripetono tutto quello che poi io vedrò accadere e scriverò sui fogli grigi del rapporto.
Ti dico: le guerre si somigliano tutte. Basta averne vissuta una sola per poter raccontare di cento, di mille altre guerre.
Ma da qualche giorno in questa città avviene qualcosa che non riesco a vedere, che non riconosco, qualcosa che sfugge al ricordo o che sfonda il contorno che racchiude la storia.
Ho paura che sia finito il mio tempo, che questo guardare non abbia più senso ho paura di non saper riconoscere il gioco che insidia i destini.
Tra poco verranno a prendere il rapporto. Devo scrivere qualcosa anche stasera. Dimmi, ti prego, se dalla finestra vedi fumo d'incendi o camini, dimmi se vedi croci nuove sul prato, se vedi giocare bambini, se i cani annusano i corpi nelle pozzanghere, se brillano scudi, se resistono ancora le porte, se dentro le case preparano fughe. Dimmi se maschere d'uomini si aggirano, raspano tra le macerie, se vedi corvi volare, soldati accampati dentro le chiese, se vedi manovre di carri, se scavano fosse per coprire i massacri, dimmi quello che vedi stasera, ti prego, per l'ultima sera.
Venticinque novembre. Quindicesimo mese d'assedio.
Ultimo rapporto.
Sono arrivati. Avanzano i reparti della fanteria. I paracadute hanno coperto il cielo.
Rastrellano il quartiere. Abbattono le croci.
Sparano con i mitra alle finestre.
Portano via tutti. Li caricano su camion neri.
Lo sapevo che sarebbe finita così. Ma dovevamo tentare.
Valeva la pena tentare.
Ora il cortile della scuola è deserto.
Nevica. E' il primo giorno che nevica.
Un carro armato passa su un'aiuola. Schiaccia una bambola bionda rimasta nell'aiuola.
Ma dovevamo tentare.
Questo è tutto.
Turno. Il generale.
Tu da che parte stai, stavolta, Enea? In questa guerra che confonde eserciti e confini, gli stranieri e i vicini, i Rutuli e i Troiani, in questa guerra che è rissa di figli e di padri, tu da che parte stai?
In questi giorni intorpiditi, velenosi, di segni oscuri, di fuggiaschi, coprifuochi, in questi giorni che non hanno notti, interminabili, furiosi, tu da che parte stai?
Io sono stanco, Enea. Il generale è stanco. Lascio questa presenza inutile, il mio terrore imbavagliato, lascio questa finestra cieca, la pena di una città violata.
Tu recita la tua parte come devi.
Io ho bisogno di scordare. Di scordare tutto: i ragazzi reclutati, le coincidenze spaventose, le urla dei deportati, le fontane disseccate, le camicie insanguinate, i massacri alle frontiere.
Non voglio più memoria.
Doveva finire così: la città rivoltata, i nemici che invadono, incendiano, io li avevo già visti, come allora anche ora. Li avevo già visti.
Le schiere dei Volsci distrutte, Camilla caduta. Ho sentito Latino ripetermi: pensa, la guerra, Turno, che cosa insensata la guerra. E ho visto piangere Amata e Lavinia, poi amata sospesa a mezz'aria, legata a una trave, Lavinia strapparsi i capelli, ferirsi la faccia, Latino sconvolto coprirsi di fango, e il palazzo risuonare di gemiti e grida, straripare la smania.
E' quasi sera. Come allora anche ora, Enea, è quasi sera.
Come allora una civetta mi sbatte sugli occhi le ali.
Ma ora non ti chiedo più pietà della vecchiezza del padre, come allora ti chiesi pietà. Questa volta è diverso. Questa volta ho un rimpianto di meno.
Tieni. C'è il colpo in canna.
Spara quando arrivo a quell'aiuola.


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000