A)
Il paradosso dell'invarianza
Se la critica
e la creazione poetica sono duplice eppure unitaria "operazione
assoluta dello spirito" (R. Serra), sicché l'insorgenza
della parola ha la sua metafisica nella soggettività trascendentale,
che è fonte primaria per percepire e conoscere il mondo, è
pur vero che, nella seconda operazione, la realtà non è
negata nella virtualità del "mondo possibile", ma
è solo contraffatta, sub specie aeternitatis, nella figura.
In questo procedimento fenomenologico, che relaziona il mondo reale
al soggetto facitore di fantasmi poetici, vi è uno scarto all'interno
del quale si sottopone il dato empirico dell'osservazione o della
riflessione a un processo di straniamento che restituisce la realtà
modificata rispetto a se stessa, epperò sempre identica nella
trasvalutazione che la parola ha voluto e saputo operare. La pluralità
del mondo, la sua caoticità fenomenica, la molteplicità
delle relazioni oggettive non avrebbero senso al di fuori della unificante
e razionalizzante attività coscienziale dell'io che doppia
la realtà fenomenica e la sublima nella forma più alta
di conoscenza, quella 'poetica' che ri-crea nell'assoluto mitico i
dati dell'esperienza.
Nuova ed altra forma di agnizione è la critica letteraria,
dove l'interpretazione è di per se stessa creazione, allorché
il dialogo del critico con la propria intelligenza è sollecitato
dal testo che rimane, pur sempre, Work in progress in grazia della
'delega' ermeneutica che ciascun autore rimette a quell'alter ego
che è, più semplicemente, il lettore.
L'interpretazione è sempre in cammino ed è continua
creazione, mai parassitaria dipendenza dall'autorità di tino
schema precostituito nei suoi valori e nelle sue componenti ideologiche.
Da qui una husserliana strategia dell'epoché che metta in crisi
non la realtà in quanto tale, ma in quanto "si autopresenta"
presumendo arrogantemente di sé e della sua autosufficienza.
Leggere la realtà vuol dire interpretarla, metterla in dubbio
e ricrearla alla luce della coscienza individualissima dell'io che
fonda, così, un'esperienza soggettiva. Tale condizione presume,
dunque, un oggetto: il testo o il mondo. Nell'uno e nell'altro caso
il critico o lo scrittore tira le somme della sua relazione con l'oggetto
che gli è dinanzi e interpreta e interpretando crea. Non arbitraria,
però, è codesta creazione, ma risultante di due componenti:
il possesso di strumenti critici (non enumerabili in questa sede)
e la dialettica interiore che chiama in causa l'uomo e la sua storia,
le sue esperienze, la sua appartenenza (generazionale), i suoi archetipi,
il suo "premondo", sicché il soggettivo si riconverte
nel flusso della storia e ritorna all'oggettivo, risemantizzato dalla
parola unica e irripetibile di ciascun autore.
In questa prospettiva, fenomenologica e protoheideggeriana, ci sembra
che debba situarsi una lettura 'possibile' del Macrì narratore,
alius et idem rispetto al critico.
Nella precedente analisi (1) della sua scrittura, avevamo già
indicato, a proposito eli Pagine di un diario, la fondamentale tendenza
di Macrì all'escavazione interiore che nasce dal rovello esistenziale
e si fa querelle circa I'inclinazione del piano della storia".
Avevamo, altresì, ricondotto quelle Pagine a una matrice storica
esistenziale-generazionale che si era epifanizzata in Fogli per i
compagni, momento iniziale del 'secondo' periodo macriano (1942-1952),
quello parmense, succeduto alla 'prima' stagione (2) fiorentina (1930-1938)
vissuta nell'orbita del "Frontespizio", di "Letteratura"
e di "Campo di Marte", sicché coglievamo una sostanziale
continuità, mai risolta nonostante l'esperienza della guerra,
cresciuta all'ombra di un'autobiografia spirituale costante e progressiva,
fino alla ripresa di Husserl, del 'primo' Heidegger, di Unamuno in
fusione con Vico e con Kant. Poi lo iato apparente, nell'impegno creativo,
prodotto dall'intensissima attività di docente universitario
e di critico negli anni 1952-1988 (il 'terzo' tempo), infine la ripresa
della pratica meditativa pura nel momento del consuntivo bilancio
della vita.
Ed ecco rifiorire, nell'appagante e liberale solitudine che la relazione
con se stesso gli impone, il suo giovanile impeto di analisi del mondo.
Da qui il rapporto fra sé e gli altri, rapporto mai pacificato,
ma sempre ridiscusso da un continuo, corrosivo interrogarsi per trovare
un senso alla vita vissuta e a quella da vivere. In questa fase, nel
mezzo della coscienza che razionalizza l'esistente, irrompe l'umorismo,
sua antica e naturale 'qualità', che scardina e sovverte gli
equilibri convenzionali istituiti fra l'io e il mondo.Mister Trascendental
e Schibalopoli (3) avevano espresso, celandola nell'ironia che tutto
di-verte e sublima, una visione cupa, cinicamente pessimistica della
realtà, non latente una profondissima, umana pietas dalla quale
esalava una incoercibile tensione verso la rigenerazione (si pensi
all'omonimo dramma di Svevo) e verso la palingenesi dell'Umanità
in nome di un umanismo neoilluminista, laico ed aperto al dubbio.
Allora lo stesso linguaggio, venato di espressionismo landolfiano,
in Schibalopoli assumeva un ruolo non di denuncia, ma di provocazione.
All'urlo, che può prorompere dall'angoscia di una catastrofe
genetica imminente, che responsabilizza l'individuo e lo chiama in
causa nella sfera privata e collettiva, Macrì oppone un tono
ilarotragico, invertendo l'oraziano sintagma (amoto ludo seria quaeramus)
nel camuffamento della verità che procede, innanzi tutto, dall'adozione
dello pseudonimo, il quale apparentemente sdoppia e distanzia, nell'alterità,
l'incombente angoscia dell'io. Nel rinvio, continuo e reciproco, dal
mondo reale al mondo possibile, dalla verità alla menzogna
che, di quella, è occultamento funzionale e rende ambigue e
discusse le coordinate assiologiche, nella dialettica fra mimesi e
simbolo-metafora-allegoria, sicché tutto e nulla è la
verità, psèudos e alètheia coincidono e si neutralizzano
nella creazione poetica che è realtà 'altra' ed autonoma;
ma pur sempre realtà radicata nell'uomo e nel concreto dell'ora
che egli è chiamato misteriosamente a vivere il 'quarto' tempo
di Macrì segna certamente il ritorno alla narrativa pura che
sintetizza, sotto lo schermo fantastico e allegorizzante, la sua visione
del mondo in un preciso momento della sua vita e della nostra Storia.
Non, dunque, soluzione di continuità rispetto alle prime prove
narrative (4), ma una costante e mai definitiva problematizzazione
del rapporto fra l'io e gli altri (Dasein mit anderen), che, come
già accadeva in Mister Trascendental, si risolve, in primo
luogo, nel rapporto fra l'io e se stesso (Un fil di fumo), in un processo
di rivisitazione critica, fenomenologica, ora ironica, ora nostalgica,
ora palinodica, dell'esperienza vissuta.
In Macrì la materia sentimentale, costantemente nutrita dall'assenza
di certezze (il pathos e il gouffre dei tempi di Fogli e di Pagine)
(5) è dirottata, insieme con la verità, in uno spazio
ludico, sicché il suo porsi di fronte alla vita e alla morte,
da cui scaturisce il novello impulso alla scrittura creativa, si fa
gioco, organizzato in strutture diaristico-meditative nelle quali
s'aggroviglia e si mescida una trama di dubbi metafisici, di incupimenti
interiori, di metaforiche esperienze di perdita e di lutto. Ma questo
magma soggiace ad un canone: il paradosso dell'invarianza (pseudonimo-ortonimo;
realtà-finzione; menzogna-verità; pianto-riso ecc.).
Nei racconti di Macrì, che proporremo al lettore, il connubio
fra il tragico e il comico grottescamente proietta sull'esistenza,
individuale e collettiva, una luce affine a quella che vi proiettava
il palazzeschiano codice di Perelà. La meditazione sul crepuscolo
di giovinezze e di stagioni è gelosamente liofilizzata dall'Autore
nella vaghezza ilare di una analisi degli aspetti in apparenza più
banali del quotidiano. Qui, si direbbe, è Rodi. Fondamento
di questa scelta è l'epoché fenomenologica, husserliana,
che ridiscute ogni certezza e la risolve in accorata, ma arguta fino
al comico, pietas della sorte universale che tutti, indistintamente,
travolge (Vita da cani). Il sentimento della morte che, aequo pede,
pulsat pauperum tabernis regumque turris, è camuffato e alleggerito
nell'osservazione e nell'idillio del 'tragico quotidiano' (Voluptas
pendendi) o del fantastico surreale (La D.C.) e metafisico (Teoria
e prassi degli oggetti smarriti con anticipo sulla distrazione) o
nell'ironico autocompatimento di una vita cresciuta e destinata a
dissolversi in un filo di fumo (Un fil di fumo). Un'inquietudine,
mai sopita e coesa al dubbio metafisico, evapora in atmosfere surreali
o allucinate, dalla forte tensione visionaria o evocativa.
Se Palazzeschi, con Pirandello, Swift, Pessoa, Machado, rappresenta
l'archetipo culturale più remoto nella formazione di Macrì
narratore, non si può escludere, ci sembra, una collocazione
ideale della sua scrittura sulla linea che va da Bontempelli, a Flaiano,
a Campanile, a Calvino. Macrì ama partire da margini inesplorati,
da un universo quotidiano minimo e impercettibile, intimamente autobiografico,
che si offre a modello del mondo e a specchio delle sue tragedie.
In questo gioco, contesto di realtà e di fantasia, di possibile
e di assurdo, di nobile e di grottesco, di razionalità e di
mistero, Macrì si accosta ai segreti ultimi delle cose procedendo
non attraverso la strada maestra della filosofia sistematica, ma attraverso
una scorciatoia che conduce alla medesima meta speculativa dei filosofi:
il senso della vita e il suo destino. Ma l'uno e l'altro restano contumaci,
se si eccettua la certezza della morte e del nulla. Troppo ardui argomenti
e pedanti, già trattati da altri con cipigliosa severità.
Solo il gioco e il riso possono riscattarli (e con essi il dolore)
nella sfera del sublime.
Il rovello esistenziale, la costante ricerca della verità,
l'"infinito desiderio di conoscenza l'affidarsi ingenuo e paurosamente
eroico al rovescio della medaglia dell'essere, all'angoscia, al sogno,
all'impossibile" (6), l'assuefarsi "a prendere tutto sul
serio", il non voler "rinunziare al pensiero divenuto passione"
(7), il rispondere a se stesso "che la verità dell'oggetto,
il valore del trascendente, il significato dell'ultima morte non possono
avere in noi la forma della speranza" (8), l'interrogarsi sul
valore e sul fine "dell'esistenza tra le altre esistenze"
(9) , il voler sperimentare intus et in cute "tutta la gamma
dei sentimenti", la loro fisicità, per l'essere vivo col
sangue, gli affetti, la polis" (10) e incarnato nella storicità
dell'hic et nunc, il "recuperare la dimensione corporea all'interno
di una concezione integrale della persona"(11), insomma tutta
la complessa e scoperta riflessione esistenziale della stagione giovanile
dura fin nei suoi scritti creativi di codesto suo 'quarto' e fecondissimo
tempo. Ma altra è la veste che la ricopre. E' mutato il tono
o, se si vuole, la scelta formale. Lì l'epos del 'quotidiano',
qui il ludo parodico che ipostatizza e ricicla il pianto in riso,
la pietà nella derisione dell'autoironia. Vittima sacrificale
il lector ingenuus, immolato sull'altare di un mito già boccaccesco:
il mito dell'intelligenza.
Al centro di queste prose è, sempre e comunque, l'uomo, con
il suo bagaglio di esperienze, in un ben preciso passo della Storia.
La riflessione contenuta in Fogli e Pagine è ora come un fiume
carsico, dalle repentine e imprevedibili emersioni. Spesso Macrì
ama associarsi a Landolfi (12) che sente consentano e 'correo' nell'assunzione
del fantastico, del metafisico, del surreale a strumento di lettura
della realtà e delle sua sublimazione nella sfera della letteratura.
Ma, se nel Mar delle blatte esplode (salvo poi ad attenuarsi negli
scritti successivi) una carica di tritolo kafkiano e scorre una pennace,
dionisiaca vena espressionistica sotto la coltre derivata dai suoi
archetipi (Gogol e Dostoevskij) e l'avventura interiore "è
condotta al limite della follia", in Macrì, vuoi per formazione,
vuoi per l'ancestrale retaggio della sua terra genesiaca, mediterranea
e non brumosa, che bergsonianamente dura fra le pieghe della sua anima,
risplende la solarità di un humour oraziano, radicata già
nel culto fescennino del riso e nell'apollineo archetipo paterno.
Palazzeschi ci sembra il trascendentale 'esemplare' dello stile narrativo
di Macrì per quel suo voler abituare "a ridere di tutto
quello di cui abitualmente si piange"; e, se l'uomo "non
può essere considerato seriamente che quando ride, [ ... ]
bisogna educare al riso i nostri figli, al riso più smodato,
più insolente" (13). Il riso esorcizza il patetico e lo
solleva sul piano del sublime.
In questa luce, la risata cinica e apparentemente dissacrante (anche
all'indirizzo della morte) di Macrì rutila di umana e dolente
simpatia. Il suo divertito funambolismo, affidato alla mitraglia dei
numeri, delle elencazioni seriali e sinonimiche, alle fantasticherie,
dove libera è la mente di volare e trascorrere sulle umane
debolezze, al realismo magico, al fiabesco, evade talvolta in evocazione
nostalgica prontamente marcata e resa innocua dalla vigile e impietosa
arguzia che repentina s'impenna e spiazza il lettore. Ciò avviene
quando nella memoria incombono i fantasmi larici. Essi fanno capolino,
ad esempio, nel balbettio della piccola pronipote che gli richiama
la "strappina" per certe sonorità di fricative e
gutturali sorde affidate a un mi còcoro mimetico della gallina
che ripete il suo verso ed eponimo di una prosa ("Mi còcoro"
nella lingua d'una bambina duenne) dove "musicale" gli appare
"tutta la lingua di [ ... ] Bianca: 'primitiva', ossia mimica
- mnemonica -rituale - danzata". Ed è la stura al recupero
memoriale ("Il pallino musicale fu sempre di famiglia" ecc.)
che in clausola si fonde con la mestizia, ben presto fugata, dell'ora
presente: "E ora mestamente avanzo e sprofondo nel cieco futuro,
quando la bimba in oggetto, cinquantenne e sola, si piegherà
su questi poveri fogli sorridente e pensosa, e comparo (14) quel quando
a questo momento presente di fatuo diletto". Ma subitanea interviene
la stoccata giocosa che spiazza il lettore ingenuamente incappato
nella rete del patetico: "Ho detto sola per giustificare la fitta
parentela qui agente, detta in salentino strappina".
Altre volte quei fantasmi irrompono dalla regressione allo stadio
prenatale (15) (La mano Paterna) sollecitata da una bizzarra voluttà
di prendersi gioco di una "insinuante e implacabile" intervistatrice
a Madrid, oppure si travestono con gli abiti dello stesso Autore che,
in La D.C., adottando il modello formale della fiaba surreale, paternamente
favoleggia di un fantastico mondo (il pianeta Marte) agli increduli
e confusi fratelli minori (Peppino e Bianca). La D.C. chiude la trilogia
della prose "trascendentali" preceduta da Mister T. e Schibalopoli.
L'adozione di una prospettiva straniante ribalta il punto di vista:
l'Autore reale deputa l'implied Author a rappresentarlo nella veste
di Simeone, una sorta di collodiano grillo parlante. Solo nella dimensione
mitico-fiabesca gli è possibile adire il sogno e i suoi incantesimi,
dove finalmente si placa nell'ironia l'insostenibile leggerezza dell'essere.
In definitiva, nelle prose di Macrì il reale è assunto
dalla coscienza nella sua fenomenicità e guardato alla maniera
del calviniano Cosimo che, nel Barone rampante, sale sull'albero (allegoria
dell'eterna ciclicità della vita) e vi consuma l'esistenza,
rifiutando di mettere piede in terra perché "chi vuole
guardare bene la terra deve tenersi alla distanza necessaria"
da essa. In quella distanza è lo pneuma fra follia e saggezza.
Lì le ragioni del baloccarsi di Simeone, novello Astolfo, col
lettore, lì la scelta di tendergli trappole e l'inesauribile
gioco del concedersi e negarsi, del catturare e nascondere il vero.
Come Apollo che scortica Marsia. Ma senza l'ira del Dio.
Il linguaggio, rapido e incisivo come negli scritti teorici, traduce
senza mediazione gli impulsi del cuore e assolve perfettamente alla
funzione ludica, veicolando mimeticamente le intenzioni del narratore
fool, giocoliere bizzarro e imprevedibile, perennemente vocato al
gioco intellettuale come ai tempi della sua milizia alle "Giubbe
rosse": 'straparla, scioccheggia, strologa, berlinga, fabula,
affabula, conciona, si insulta ed approva, si accetta e ripudia, non
dice il vero né mai il suo contrario.
Ma sotto quella acrobatica funambolìa si cela l'uomo-Macrì,
con le sue disillusioni, il suo sgomento, la sua crisi, il suo scontare
la morte... scrivendo. Che poi è la sua epochè grazie
alla quale lo "sguardo del filosofo si rende veramente libero
[ ... ] dai vincoli più forti e più universali, e perciò
più occulti dell'essere -già - dato del mondo"
(16).
(1 - continua)
NOTE
1) Cfr. G. PISANO', Lo 'spazio' creativo di Oreste Macrì, I,
in "Sudpuglia" XVIII, 4, Dicembre 1992, pp. 87-101 e II,
ivi,
XIX, 1, Marzo 1993, pp. 88-98.
2) Su questo periodo si veda, almeno, O. MACRI' Ricordo di Eugenio
Montale "fiorentino", in "La Fortezza", II, 2,
1991, pp. 17-23, M. CANCOGNI, L'adorazione [ma, in realtà,
l'adozione] di Macrì in Quei frequentatori alle Giubbe Rosse,
"Nuova Antologia", CXXVll, Ott.-Dic. 1992, p. 235 e ss.
e i recenti articoli di G. PISANO', Il ragazzo delle "Giubbe
Rosse", in "Quotidiano" del 7.2.1993 e di A. DOLFI,
Macrì, coscienza del Novecento, in "La Nazione" dell'11.2.1993,
p. 6.
3) Su queste due prose cfr. G. PISANO', Lo 'spazio' ecc. II, cit.,
e, per i relativi rimandi bibliografici, le note 85 e 86.
4) Le prime prove di Macrì sono censite nel mio Lo "spazio"
ecc., cit., I, pp; 93-94.
5) Anche per Fogli per i compagni si rinvia al mio contributo sopra
citato, I, pp. 94-95 e nota 35; per Pagine di un diario si veda lo
stesso saggio nella sua seconda parte (II, pp. 88-98).
6) O. MACRI', Esemplari del sentimento poetico contemporaneo, Firenze,
Vallecchi, 1941, p. 15.
7) Ibidem, p. 18.
8) Ibidem, pp. 21-22.
9) Ibidem, p. 24.
10) Ibidem, p. 316.
11) Cfr. G. LANGELLA, L'essere e la parola - La stagione ermetica
di Macrì, in "Studi novecenteschi", XVII, 40, dic.,
1990, p. 313
12) Cfr. intervista rilasciata da O. Macrì a L. GATTESCHI,
Per quarantacinque anni ho esplorato il pianeta Machado in "Tuttolibri",
"La Stampa" del 1.4.1989, p. 5.
13) In Controdolore, 1913, passim.
14) Si osservi il leopardismo (comparo; quel; questo; presente) risemantizzato
in chiave giocosa.
15) Si veda anche O. MACRI', Leggenda familiare, in "Quotidiano"
del 7.2.1993.
16) E. HUSSERL, La crisi delle scienze europee, Milano, Il Saggiatore,
1961 (cito dalla sezione antologica in S. MORAVIA, Filosofia, storia
e testi, Firenze, Le Monnier, 1986, p. 377).
La D. C., come
già detto, completa il ciclo delle prose 'trascendentali'.
Simeone si rivela un affabulatore straordinario che sceglie una chiave
parodico-fantastica per riflettere sulla caoticità del mondo,
sulla labilità delle sue forme, sulla fiducia nella scienza
che, come il cane che si morde la coda, può essere capace dell'universale
rovina ("Premetto brevemente quanto voi ben sapete in tutto l'universo
che si sta popolando: la iattura del traffico. Da voi si è
arrivati a cinque macchine per persona, da noi (su Marte) già
trent'anni fa a venti per individuo, compresi gli infanti").
Solo proiettando iperbolicamente in un futuro lontano e surreale ("Dopo
51 anni") la realtà presente e spostando il baricentro
dell'osservazione su un altro pianeta, è possibile istituire
un visionario statuto gnoseologico o, se si vuole, la paradossale,
comica deformazione dell'esistente visto dall'alto non del calviniano
albero, ma, addirittura, dalla lontananza siderale di un altro pianeta.
A ben guardare, però, si copulano, con le linee fantastiche,
distopiche, paradossali della fiaba, accenti autobiografici. Il ritorno
"dopo 51 anni" al suo paese simula, verosimilmente, uno
dei pochi e distanziati ritorni dell'Autore reale (Macrì) nel
Salento e nella natìa Maglie, dove appare come un essere giunto
da chissà quali mondi, un marziano, insomma, a chi in quell'ambiente
periferico ha trascorso tutta la sua vita. In questo caso i fratelli
inhiantes (Peppino e Bianca) ne sono simbolo. Ai loro occhi il fratello,
insigne e celebre, si illumina di una luce extraterrestre, sicché
qualunque cosa dica, qualunque affermazione paradossale faccia, è
sempre creduto:
Voi fate il biglietto
intenzionale, ossia col solo pensiero [ ... ]. in tre decimi di secondo
[ ... ] venite disintegrati. Prima la disintegrazione si operò
in molecole, poi in atomi, quindi in particelle [ ... ], protoni,
neutroni ecc. [ ... ]. Si spera di ridurre ancora fino a una sorta
di spiritualizzazione totale per cui [ ... ] uno dice tra di sé:
Roma, e si trova a Roma.
Ciò dà
l'abbrivo all'Autore di scivolare sul piano del fiabesco camuffando,
ancora una volta, la verità e ironizzando prima di tutto su
se stesso, poi sui suoi ingenui interlocutori ("Ma durante il
viaggio che cosa si vede? Che cosa si sente?"), infine, indirettamente,
sul lettore e sul mondo.
Si osservi il credulo stupore dei fratelli avvertito da Simeone, che
incalza e dinamizza l'ordito fino a metaforizzare una situazione reale
e biografica nelle parossistiche iperboli della fabula. In codesta
sua disposizione non v'è sadico compiacimento, ma umana, paterna,
sorridente pietas.
La prosa, sotto il velame dell'ilarità, nasconde una profonda
tristezza: i tre anziani protagonisti (Simeone e i suoi fratelli)
sembrano ritornare fanciulli, nonostante l'esperienza della vita che
non basta, sembra dirci l'Autore, a conoscere il mondo. In codesta
'primitiva' condizione spirituale, tutto è credibile, l'impossibile
diventa possibile, il mito realtà.
Solo a una fantasia fanciulla (altri paradossi dell'invarianza: il
vecchio-fanciullo, il mito-realtà ecc.) è dato questo
divino privilegio. La "terza età" restituisce l'uomo
saggio alle fiabe e ai miti. Eppure, in essi si annidano, talora,
le più grandi verità, come quella che vuole l'intero
universo avvolto nel mistero e destinato ad autodistruggersi.
Simeone, il fratello maggiore nella realtà biografica, incarna
la figura paterna che si tende animicamente verso le sue creature,
consapevole del vero e pietosa della loro condizione di orfanezza.
Fortemente allusivo, nell'explicit, di chissà quali pensieri
(forse, però, intuibili, ma non rivelabili) il racconto si
chiude con un apparente ripudio della terra genesiaca e vitale ("Tanta
rozzezza dei terrestri, per di più constatata sulla pelle dei
miei poveri fratelli, mi fa cadere le braccia") e un calembour
(origine della sigla D.C.). In realtà è un'antifrasi
che malcela la nostalgia dell'impossibile, definitivo ritorno. E',
questo, un ulteriore esempio dell'ilarotragica abilità dell'Autore
di non dire il vero nè mai il suo contrario. E' l'ultimo e
il più sublime paradosso dell'invarianza.
Quanto alla disintegrazione cosmica non è arduo scorgervi l'inquietante
metafora del Nulla cui l'uomo è destinato dalla morte.
Un fil di fumo è una prosa breve, in cui Simeone ironizza su
uno dei miti negativi del nostro tempo, oggetto di crociata massmediale,
il fumo. Demonizzato da spots igienisti e da associazioni affini,
sembra quasi il capro espiatorio di tutti i malanni dell'umanità.
Procedendo controcorrente, l'Autore, che non ha mai vinto la sua battaglia
contro la sigaretta, rivisita la sua vita, misurandola sull'effimero
per eccellenza: il fumo, Operazione, in apparenza, fatua, ma allusiva
di una ben più dolorosa coscienza, quella della vanità
dell'esistenza che, ritmata dalle sigarette, esita nel nulla, evaporando
senza lasciare traccia. In realtà, sotto la coltre del gioco,
dello sberleffo anticonformista, del sorriso ammiccante e un po' provocatorio,
si esercita la disposizione di Simeone al divertimento, al riso beffardo
e superiore del saggio, alla parodia: un Magnifico Rettore, Donato
Valli, ilarizzato e ridotto al rango notarile di capnomensore, mentre
il protagonista si immagina sul letto di morte a sfumacchiare ancora
all'indirizzo di Atropo. Ma quella estrosità canzonatoria,
da perenne monello ("Ho cominciato a fumare intorno ai 12 anni"),
non è immune da inquietanti risvolti.
Si noterà l'affettuosa adesione ai ricordi e ai lari ("Mio
nonno, mio padre, mio zio erano concessionari di tabacco"). Irrompono,
ma pianissimo, i luoghi semantici della 'dimora vitale' (l'una fabbrica
allogata in un ex-convento, attiguo a una chiesa settecentesca in
Cursi, a 3 km. da Maglie in provincia di Lecce") che si dilata:
dallo spazio prenatale (si legga, di Macrì, Leggenda familiare,
in "Quotidiano" del 7.2.93), a quello genesiaco e, infine,
antropologico: il Salento delle lavoratrici di tabacco, bodiniano,
archetipico. Il recupero memoriale rispolvera sottili nuances colte
negli afrori di un l'aroma lievemente acre e gradevole" o in
tecniche arcaiche ("si trinciava con certe macchinette e il trinciato
s'arrotolava in apposite cartine, dotate di un sottile strato di colla,
che alla fine dell'operazione veniva leccato e la sigaretta era conclusa
e imboccata") dietro le quali si intravede un millenario e feudale
mondo georgico: "Fumavano tutti e l'aria salentina si aromatizzava
di tali essenze fin dalle aie dei campi, dove le foglie raccolte s'infilavano
e aggregavano in spaghi a mezzo di lunghi aghi, detti cuceddre".
Ma quando l'idillio sta per tracimare in elegia, ecco la coscienza
abrupta del letterato che spezza bruscamente il filo dei ricordi infantili
e si riappropria della sua condizione di ottantenne, catapultato fra
sofisticatissime tecnologie d'avanguardia: il calcolatore marca Toshiba
/BC - 8018.
Si osservi la precisione analitica con cui si descrive l'ordigno,
in ossequio allo scientismo tecnologico, oggi imperante, che tutto
numera. Perfino gli uomini. Ed ecco che ai connotati del piccolo mondo
georgico della fanciullezza (aromi, essenze, aie, campi, foglie di
tabacco, spaghi, cuceddre) fanno riscontro quelli di un tempo metallico
e disumano (sigle, numeri, modularità ecc.) Lo iato fra i due
registri temporali è netto e profondo: di mezzo, solo... un
filo di fumo che, surrealisticamente, è andato dilungandosi
fino a raggiungere quota 18 Km., pari a quasi tutta la vita di Simeone,
dimensionata su questo strano metro (licenza liceale, laurea, docenze,
ecc. oppure battesimo - estrema unzione).
La saga dei numeri (un nugolo di cifre in vorticosa progressione)
mitragliati da una penna, incapace di soste, ben assolve, infine,
alla funzione di allegorizzare quanto... fugaces labuntur anni.
B) I 'racconti'
di Simeone/Oreste Macrì
LA D. C.
Dopo 51 anni tornai al mio paese sulla Terra per rivedere i miei due
fratelli. Fin dal primo giorno si erano accorti che mi mancava il
mignolo della mano sinistra. Dapprima finsero di nulla, dato che si
accorsero che io cercavo di nasconderla. Ma un giorno Peppino mi chiese
con discrezione.
- Scusami, Oreste, che cosa ti è capitato alla mano? Non mi
ricordo...
Lo interruppi:
- E' stato un incidente di volo. Incidente incredibile, dato che la
D. C. oggi su Marte è perfetta e da vari anni non ha subito
mancanze di questa fatta. Neppure un'unghia va dispersa.
Mi accorsi che non avevano capito nulla, e mi guardavano sbalorditi.
- Ma che cosa è la D. C.?
- Trattasi dell'Istituto Marziano della Disintegrazione Corporea,
praticata ormai anche per brevi viaggi, perfino per andare in visita
da amici nello stesso quartiere, comodità naturalmente concessa
ai più abbienti per ora.
- Spiegati meglio.
- Premetto brevemente quanto voi ben sapete in tutto l'universo, che
si sta popolando: la iattura del traffico. Da voi si è arrivati
a cinque macchine per persona; da noi già trent'anni fa a venti
per individuo, compresi gl'infanti. Non si poteva andare oltre: inquinamento,
incidenti mortali, ecc. Con la eliminazione di terzi e quarti mondi
c'era alimento e divertimento per tutti; una pacchia cosmica, e quindi
inverosimile aumento di derrate alimentari, masserizie, oggetti di
lusso, ecc., e rispettivi camion, tir, ecc. Quindi la organizzazione
scientifica e ingegneresca della Disintegrazione Corporea. Immaginate
di dovere andare da Firenze a Roma, distanza che per noi marziani
sarebbe enorme. Voi fate il biglietto intenzionale, ossia col solo
pensiero... Scusatemi se mi servo di analogie terrestri. Fatto il
biglietto, entrate in una speciale cabina di materia spaziale (sarebbe
lungo spiegarvi di che si tratta); materia, comunque, che si adatta
perfettamente al vostro corpo, compresa l'anima, e per captare e imbrigliare
l'anima ce n'è voluto, ma lasciamo andare. Intanto avete acceso
una speciale luce dentro di voi...
- La luce dentro di noi? Che cosa vuoi dire?
- Beh, lasciate stare. In parole povere, inglobato un raggio cosmico,
vi disponete a compiere il detto viaggio comodamente.
- E poi? Quanto tempo ci vuole?
- In tre decimi di secondo, nel caso enunciato, venite disintegrati.
Prima la disintegrazione si operò in molecole, poi in atomi,
quindi in particelle e atomi: protoni, neutroni, elementi transuranici,
quanta, ecc. Si spera di ridurre ancora fino a una sorta di spiritualizzazione
totale, per cui non ci sarà bisogno di cabine, raggi cosmici
e roba di questa fatta; uno dice tra di sé: Roma,, e si trova
a Roma. Tornando al viaggio nei limiti della scienza odierna, la sensazione
è piacevolissima, come un'immersione e diffusione nel cosmo.
La coscienza diventa vigile e acuta, moltiplicata per i miliardi e
miliardi di particelle atomiche, di cui siete composti.
Peppino incalzò:
- Ma durante il viaggio che cosa si vede? Che cosa si sente?
- E' impossibile che ve lo traduca in termini terrestri. Già
la lingua su Marte non si usa più: si discorre, per così
dire, con emanazioni radar, dico radar per darvene una pallida idea.
Le nostre ugole e corde vocaliche si sono essiccate. Io e pochi altri
abbiamo conservato il linguaggio, ma lo esercitiamo di nascosto e
con vergogna; antieconomico. Figurati che un discorso rispondente
a 100 pagine scritte noi lo emaniamo in un paio di secondi. D'altra
parte, l'abitudine a questi viaggi è tanta, che, in definitiva,
non si vede e non si sente nulla oltre la detta impressione vagamente
cosmica; anche perché si arriva a destinazione in un milionesimo
di secondo, e si spera di arrivare addirittura prima di partire.
- E poi - incalzò mia sorella.
- Niente. Dopo disintegrato ti ritrovi reintegrato, insomma, ricomposto
esattamente come prima. La cabina, aderentissima come una camiciola,
si dilata, esci fuori e il viaggio è compiuto.
- Ma il mignolo che ti manca?
- E' stato un incidente inopinato, gravissimo, uno scorno per la scienza
e l'etica marziane dopo decenni di perfetto funzionamento della D.
C. Partito dal Mare della Tranquillità al Lago delle Tempeste
(sono stati conservati ironicamente i nomi dati dai primi astronomi
terrestri) l'anno passato, mi trovai senza il mignolo all'arrivo.
Fu uno scandalo. Tentarono di indurmi a nascondere la decurtazione,
dietro profumato indennizzo, ma io non accettai in nome della stessa
scienza, e mi sottoposi a innumerevoli visite del corpo e dell'anima,
giacché, come ho accennato, l'anima è stata finalmente
trovata ed è oggetto di ricerca scientifica come qualunque
materia organica e inorganica. Sul mio caso sono uscite innumerevoli
pubblicazioni di relazioni scientifiche e tecniche.
- A tanta perfezione si è arrivati gradatamente? chiese la
Bianca.
- Sì, certamente. Del primo marziano, che eroicamente si sottopose
all'esperimento, non arrivò nulla o quasi: un po' di cenere
intrisa di qualche goccia di sudore. Del secondo qualche capello,
che fu sepolto in un bellissimo sepolcro di cristallo nell'apposito
Cimitero della D. C., che contiene queste testimonianze del suo progresso
scientifico. E così via. Ora, detto Cimitero è inattivo;
rigurgita di visitatori, che contemplano, in quelle teche trasparenti,
quel poco di cenere sudata, quei pochi capelli, una gamba o un orecchio
o un naso o un'unghia o un molare o un comedone; c'è anche,
come a Pompei, un luogo riservato a particelle di organi genitali
e a relitti di congiungimenti in quelle cabine; luogo riservato alle
visite degli adulti.
Mi accorsi che i miei fratelli erano frastornati e trasecolati; al
punto che Peppino mi chiese: - In quel Cimitero della D. C. c'è
anche il tuo mignolo?
- Non hai capito nulla. Il mignolo fu il mio membro sparito, altrimenti
dovrebbe stare il mio corpo nel sepolcro.
- Ma perché non ti sei fatto fare una protesi?
- Certamente. Anzi, su Marte i chirurghi non usano più protesi,
ma rifacimenti integrali, naturali. Non ho voluto, fiero del mio piccolo
arto mancante.
Tanta rozzezza dei terrestri, per di più constatata sulla pelle
dei miei poveri fratelli, mi fece cadere le braccia, sì che
ripresi l'astronave quasi subito, mezzo usato per non terrorizzare
quella gente ancor primitiva, e me ne ritornai sul mio felice e bel
pianeta, lasciando a loro la sigla politica della D. C., anche se
non c'entra per nulla.
SIMEONE
UN FIL DI FUMO
All'occasione del compimento dei miei 80 anni, ho voluto celebrarli
acquistandomi - pur refrattario a simili ordigni - un minuscolo electronic
calculator, marca Toshiba - BC - 8018. Come prima operazione dei miei
80 anni mi sono dato a calcola e il numero di sigarette fumate nella
mia vita trascorsa come su un unico lunghissimo filo di fumo. "Medio
pitillo y cenirero el mundo" (Mezza sigaretta e ceneriera il
mondo). Ho cominciato a fumare intorno ai 12 anni. Mio nonno, mio
padre, mio zio erano concessionari di tabacco, che veniva essiccato,
manipolato e conciato, per essere avviato alla manifattura leccese,
in una fabbrica allogata in un ex-convento attiguo a una chiesa settecentesca
in Cursi, a 3 Km. da Maglie, in provincia di Lecce. Era lavorato da
un centinaio di "fimmene te lu tabaccu", alle quali si propinava
del latte a che ovviasse alle polveri d'emanazione e contatto. A fine
lavorazione, venivano gli ispettori per il controllo sulla buona lavorazione
e il conseguente apprezzamento, ben trattati e serviti con pranzo
succulento, ai fini d'una propizia ebbrezza, e qualche dono alimentare
(niente tangenti in quei tempi).
In casa nostra circolavano grandi foglie di tabacco greco e balcanico,
ottimamente curate, d'aroma lievemente acre e gradevole. Si trinciava
con certe macchinette e il trinciato s'arrotolava in apposite cartine,
dotato di un sottile strato di colla, che, alla fine dell'operazione,
veniva leccato e la sigaretta era conclusa e imboccata. Fumavano tutti
e l'aura salentina si aromatizzava di tali essenze fin dalle aie dei
campi, dove le foglie raccolte s'infilavano e aggregavano in spaghi
a mezzo di lunghi aghi, detti cuceddre con d schiacciata.
Tornando al mio piccolo calcolatore, ho fatto questo conteggio.
Oggi anni 80 meno i 12 accennati: anni 68 di fumo, moltiplicati per
giorni 365 si perviene a giorni 24.820. Ho goduto sempre di discreta
salute, per cui ho fumato sempre, meno - facciamo - 50 giorni per
piccole influenze e raffreddori; quindi 24.770 giorni utili di fumo;
moltiplicati per 15 sigarette giornaliere si perviene a sigarette
371.550. Come media dei diversi tipi di sigarette fumate, in ragione
di cm. 5 per parte di sigaretta fumata, ho calcolato di aver fumato
una sola sigaretta di cm. 1.857.750, pari a metri 18.577, quindi a
km. 18 e mezzo, arrotondando.
Calcolo di dilungarmi su questo pianeta per almeno 12 anni ancora.
Ossia fino ai 92. I medici asseriscono che, avendo fumato più
di 4 sigarette quotidiane, mi sono tolto tali 12 anni ca.: epperò
mi sono inibito di partire a 104 anni. Bah! Una volta sull'autostrada,
di notte e dopo lungo percorso da Maglie a Firenze, stavo per appisolarmi
presso il casello di Roncobilaccio; accesi una sigaretta e mi salvai.
Non è finita con il piccolo calcolatore. Senza starvi a sciorinare
delle singole cifre, mi sono divertito a sapere a quale chilometro
dei detti 18 e mezzo di fumo mi sono trovato nei momenti dei grandi
accadimenti della mia vita: licenza liceale, laurea, docenze, matrimonio,
medaglia d'oro nel Comune di Maglie, sempre cara mia città
natale, ecc.
Ho misurato anche le tappe chilometriche fumarie nell'ordine dei Sacramenti:
dal battesimo (numero negativo algebrico decimale, -12 ca. se non
erro) all'estrema unzione, per la quale, se non avrò la forza
io stesso, dovrebbe stare a calcolare il chilometro esatto qualche
mio parente, come Checco nipote, o amico, come Donato Valli, o condomino,
come il signor Lelli.
Infine mi piacerebbe s'incidesse sulla mia làpide: "[
... ] nato a zero km. è morto a tot Km. del suo filo esistenziale
di fumo tabagico", con segno di Croce, sempreché non sia
stata inferta scomunica per questo triste ed esilarante anelito di
vita; 10-2-1993.
SIMEONE
(Oreste Macrì, p. c. c. 1)
NOTE
1) Avverto, in qualità di suo trascrittore fedele, che Simeone
non ha nulla a che fare con me, ancorché quel che racconta
è capitato esattamente anche a me; ma non si tratta di un sosia.
Simeone, infine, come me è autore di 943 pubblicazioni letterarie
e di ca. 300 raccontini di questa fatta, per la massima parte inediti.
Si aggiunga ancora che non è un mio pseudonimo né un
apocrifo come quelli di Antonio Machado e Fernando Pessoa. Forse alla
sua identità si potrebbe arrivare con l'enigma alchemico di
Nicolas Barnaud ("non è... non è... non è..."),
usato da Nerval nella Pandora. Si trova a Bologna su un antico sepolcro.
Chi ha fumato?