§ Memorie di un giornalista

Otto anni e una domenica (4)




Gennaro Pistolese



1935-1943: riassume il periodo "corporativo" della mia scheda di lavoro.
Sì, "corporativo". Un termine oggi non certo elogiativo, in quanto rappresentativo di interessi particolari, contrastanti normalmente con quelli generali. Ma durante il ventennio questa qualificazione aveva un significato, tentava un significato tutto diverso. Aveva alle sue spalle le Corporazioni romane di mestiere, poi quelle medioevali, che in certi momenti hanno pure combinato gli interessi padronali con quelli dei dipendenti - e parliamo delle Corporazioni di taluni mestieri artigiani -, il successivo solidarismo più ideologico che non organizzativo e quindi le Corporazioni fasciste. Queste considerate come sintesi e sede di rappresentatività e convergenza fra datori di lavoro e prestatori d'opera.
Questo sistema, dopo le enunciazioni, le promesse, le lusinghe della carta del Lavoro, che ebbe come artefice principale Giuseppe Bottai - per me esemplare uomo politico, per costruttività, coerenza ed autocritica, che fra l'altro si vantava molto dopo - e lo ha detto anche a me - di aver avuta come consegna quale ministro dell'Educazione quella di fare dell'ordinaria amministrazione e di aver invece inventato la Carta della Scuola - alla metà quasi degli anni Trenta cominciava ad entrare in funzione.
Esso tuttavia ha sempre proceduto stentatamente ed in mezzo a contraddizioni. Avrebbe dovuto essere elettivo e non lo era. Avrebbe dovuto conciliare interessi e posizioni diversi ed invece subiva e rispecchiava un'autorità superiore. Era perciò suscettibile delle più opposte definizioni. Ve n'è stata una anche mia: quella di Corporazioni gerenti di una lotta di classe esperita dallo Stato per conto dei lavoratori. Siffatta definizione però nel dopoguerra mi fu contestata da un mio vecchio collega ed amico, al quale avevo concorso ad aprire le porte dell'IRI, di cui è divenuto fra i maggiori managers. Egli invece attribuiva al corporativismo la funzione di gerente da parte dello Stato della lotta di classe per conto dei datori di lavoro.
Entrambi avevamo la stessa origine in una Confederazione dei lavoratori, ma lui era andato a finire all'IRI e pur tuttavia la pensava così, ed io alla Confindustria. Due differenti visuali, dunque, ma non tanto lontane tuttavia che però hanno evidentemente a che fare con diverse esperienze e misurazioni.
Da ciò comunque deriva la flebilità di questa tematica, che sempre durante il fascismo ha trovato più scontenti che soddisfatti: tutti per lo meno tolleranti.
Ma questa è l'eterna vicenda del modo fra l'altro di intendere la socialità nel suo complesso. Ora, ad esempio, si teme lo sfaldamento del "welfare state", ritenuto variabile indipendente rispetto alle disponibilità ed in polemica con chi in esse vuole farlo rientrare; ma c'è stato sempre e c'è chi da questo "welfare" mai definito e forse definibile ha preteso sempre di più.
Comunque in questo corporativismo agli inizi delle mie ricerche di lavoro, complementare di quello giornalistico in materia coloniale, sono entrato anch'io, nel '35, prima come funzionario e poi come dirigente della Sezione corporativa della Confederazione dei Lavoratori del Commercio.
Avevo alle mie spalle un grosso bagaglio di articoli in riviste pure importanti, ed in forza di esso e di un'informazione di stampa secondo cui questa Confederazione apriva le sue porte ai giovani laureati che riteneva meritevoli, mi sono state offerte 600 lire come stipendio mensile.
Ho fatto così le mie esperienze che mi ricordano anzitutto la dirigenza ad alto livello di un Presidente, Riccardo del Giudice, pugliese, di Lucera. Da lui ho imparato molto, ed in questo campo lo ricordo come un iniziatore per me.
Era laureato in filosofia, è stato poi sottosegretario con Bottai all'Educazione Nazionale come non ho mancato di ricordare altra volta. Nel dopoguerra ha ricominciato a studiare, laureandosi in giurisprudenza ed è poi divenuto uno fra i maggiori avvocati ed esperti in diritto marittimo. Ecco, ad esempio, quali possono essere e quali siano stati alcuni uomini del Sud. Di questo reciproco meridionalismo ricordo il "don" con il quale scherzosamente precedeva il mio nome, anch'esso inconfondibilmente meridionale.
Di questa Confederazione i tratti interni che più rivivono nella mia memoria sono ovviamente numerosi. Il primo è che fra le Confederazioni dei lavoratori era di maggiore rilevanza solo rispetto a quella del credito e dell'assicurazione. Quindi rispetto alle Confederazioni maggiori, minori stipendi, dislivelli interni di capacità e di preparazione.
Ma qualcuno era certamente di spicco e tale doveva rivelarsi o poco dopo o ancora più tardi. Uno di essi è divenuto intorno agli anni '60 presidente della Confcommercio. Un altro durante il ventennio presidente della Confederazione dei Lavoratori dell'industria e come tale partecipe del Gran Consiglio del 25 luglio ed ossequiente alle direttive del suo ministro, favorevole perciò al voto terminale del regime fascista e come tale poi fucilato a Verona: uno dei 5, con Ciano, De Bono, ecc. Si chiamava Luciano Gottardi, ed era a capo dei Sindacati alimentari a quei miei tempi. Io allora dovevo provvedere alle relazioni alle Corporazioni in merito al pensiero delle categorie di quella Confederazione. Ed al riguardo ricordo come Gottardi fosse disponibile in tutte le materie e questa sua virtù io attribuivo, forse pure malignamente, ad un certo tipo di studi che aveva compiuti e che gli fornivano l'alibi per intervenire su tutto. Ma se lo ricordo, è perché lui rappresentava certamente più di quanto avessi capito. Ma c'è anche un altro episodio importante per la mia vita successiva. Nella mia qualità di dirigente della Sezione Corporativa partecipavo in rappresentanza del Presidente della Confederazione ed insieme ai membri delle singole categorie rappresentate da essa alle riunioni delle singole Corporazioni. In una di esse e precisamente in quella delle Professioni e delle Arti, che aveva fra i suoi componenti Alessandro Pavolini, quello poi dell'ultima raffica, si tentò di procedere fra le varie all'esame del trattamento di lavoro dei dipendenti degli studi professionali, che rientravano nella mia orbita. Ne richiesi il rinvio, perché il Presidente della mia Confederazione potesse intervenire. Ma la discussione proseguì lo stesso, nonostante la mia opposizione. Ad un certo punto con ancora più convinta insistenza feci presente che se si fosse proceduto al voto io avrei votato contro e nella consolidata consuetudine dell'unanimità sarebbe stata la prima volta che ciò sarebbe avvenuto. A questo punto non se ne parlò più, ed io ne riferii al mio presidente, che protestò presso il Ministro per l'insolita procedura che si era tentato di adottare. Successivamente seppi che mi era stato dato del ragazzino per l'insolita, ma per me doverosa reazione, che mi costò un breve periodo di quarantena. Poi però sopravvenne la mia nomina a membro aggregato della Corporazione del Legno.
Ma già in quella fase la storia delle Corporazioni cominciava ad illanguidirsi, con il sopravvento del Comitato Corporativo Centrale, della Commissione per l'autarchia, ecc. Mussolini surrogava organi gli uni agli altri per desiderio di novità pure cronistica, annunciano quell'economia di guerra largamente mancante nella parte correttiva ed invece così pesante nelle conseguenze.
Di queste conseguenze ricordo l'enfasi nell'adozione dei succedanei. Uno di questi era il lanital, nel quale la lana non c'entrava proprio per niente. Si parlava allora di fibre autarchiche ed in questo quadro un rappresentante degli agenti di commercio mi mostrò un asciugamano che si sfilacciava da tutte le parti. Come reagire nell'interesse del consumatore, che pure era rappresentato nelle singole Corporazioni? Egli mi suggerì: con l'apposizione sulla cimosa di una scritta inerente alla composizione del tessuto.
Ne feci oggetto di una proposta contenuta in una relazione al Convegno di Forlì sulle fibre autarchiche. Ne riproposi il tema alla Corporazione dei Tessili, presieduta da Olivetti, che dopo aver fondato la Confindustria era stato ibernato in quell'organo, quale residuato di un persistente Istituto Cotoniero. Ma egli mi disse che non era il caso di parlarne. Non era il caso, ma a dirlo era stato proprio chi non doveva dirlo.
Un altro episodio di quegli anni - siamo all'indomani della "proclamazione dell'Impero" e Mussolini intendeva che "il posto al sole" conseguito richiedesse la costituzione di particolari organismi industriali: di imprenditori per le singole branche di attività: trasporti, mineraria, ecc. Dato che esisteva una legge disciplinatrice dei consorzi industriali, io proposi in vari scritti che essa dovesse riguardare anche queste Compagnie, forse così denominate proprio per sfuggire a detta legge. Mi incontrai con il Vice Segretario generale della stessa, Codina, poi grandissimo ed indimenticabile amico, che mi fece capire che tutto avveniva dietro le sollecitazioni di Mussolini e con molto flebile convinzione da parte degli industriali. Ma io continuai ad insistere fra l'altro ad un Convegno coloniale a Firenze.
E qui la fase della mia partecipazione alla fase corporativa in qualità di rappresentante dei lavoratori finisce, con le parole anche accorate per il distacco e di augurio di Del Giudice, che ricordo con tutto il cuore.
Fra le cose che egli ha lasciato vi è quel palazzo di via Lucullo, oggi sede dell'UIL. Egli l'acquistò in quegli anni per 4 milioni: con la parsimonia che l'aveva sempre distinto e con una piccola moto tardiva autoblu che era il solitario parco macchina di un'intera Organizzazione. 600 lire poi divenute 1500 lire mensili da parte mia, ma in compenso la soddisfazione di poter ricordare che si sapeva da parte di tutti andare a piedi.
Ci sono i tempi che cancellano i confronti, ma...
Forse anche in considerazione, fatale in certi casi, di quella contiguità corporativa medioevale fra artigiani e dipendenti di cui prima ho detto, proprio l'Artigianato diveniva il mio nuovo sbocco di lavoro.
C'erano stati i miei primi articoli in materia economica comparsi sul settimanale dell'Organizzazione. C'era il fatto che il nuovo segretario generale della stessa, nel lontano 1927, aveva partecipato ad un viaggio universitario in Tripolitania da me organizzato e che si era recato a Tripoli in quell'occasione, per lui economica, per prendere parte al concorso di direttore della Scuola di Arti e mestieri e mi offriva circa dieci anni dopo il posto di capo dell'ufficio Stampa e Studi. C'era ancora il fatto che il Presidente, Buronzo, mi ricordava per la fermezza del mio comportamento alla Corporazione delle Professioni e delle Arti di cui ho detto. E così mi trasferii a Piazza Venezia, con l'ufficio sotto i merli, con la nomina quale rappresentante dei fotografi a membro aggregato della corporazione della Carta e Stampa, in un'organizzazione allora aderente alla Confindustria.
Alla Confindustria di Volpi di Misurata, di Giovanni Balella direttore generale, di G.B. Codina, di cui prima ho detto.
Mi fu affidato anzitutto il compito di rinnovare il settimanale, ma quale giornalista nell'avviare un nuovo lavoro non si è attribuita da sé o non ha avuta questa responsabilità?.
Nel caso specifico avevo a che fare con un grosso periodico di un'importante categoria, verso la quale lo stesso Mussolini mostrava particolare attenzione, perché suo padre Alessandro era stato fabbro come si leggeva nelle osannanti biografie e genealogie di quei tempi. In più si trattava di un periodico che pubblicava gli articoli di fondo ed i discorsi del suo Presidente, che li scriveva e riscriveva, chiuso in una stanza per l'intera giornata. Mussolini, qualche anno dopo il cambio della guardia fra lui ed un ex federale di Torino, disse del Presidente uscente, non so se a giustificazione di quanto di più si attendeva dal successore, che "era un poeta". E se non ricordo male mi sembra che questo poeta veniva nominato cancelliere dell'Accademia d'Italia: ma quante ibernazioni o riesumazioni in quest'Accademia, a cominciare da Federzoni, reduce dalla presidenza del Senato, a finire a Giovanni Gentile rivivificato nel regime dal già ricordato discorso di rianimazione bellica al Campidoglio nel giugno del '43 e portato nell'orbita della Repubblica di Salò: gli ultimi due Presidenti di un Consesso, nato con feluche e divise di colore verde scuro e cancellato senza storia alle sue spalle.
E con questa iniezione di un ex federale di Torino (che in precedenza si era distinto per l'inaspettata "oceanica" accoglienza nella città sabauda piemontese offerta a Mussolini), appunto nell'Artigianato aveva inizio una fase maggiormente comunicativa, in chiave con i più generali indirizzi di partito. E difatti questo ex federale continuava ad essere gerarca di partito ed aveva la principale virtù di essere un ottimista e di affidarsi per il resto, che poi era tutto, ai collaboratori. E questi o li sceglieva con molta cura o aveva la fortuna di trovarli sul posto.
Egli aveva bisogno di molte idee, che attendeva: deluso talvolta, prontamente entusiasta in altre. E con lui il mio settimanale "L'Artigianato" divenne "L'Artigiano fascista", con tanto di telegramma di comunicazione al duce.
Ma a me è poi occorso all'indomani del 25 luglio di ripristinare la vecchia testata, senza bisogno di alcun telegramma, anzi nella maniera più distratta.
Questo giornale aveva nientemeno (per allora) trecentomila abbonati, ma gran parte di essi non lo sapeva perché l'abbonamento era compreso nel prezzo della tessera (di dieci lire), mentre i dovuti contributi erano pagati esattorialmente.
Gli articoli di fondo in quegli anni riguardavano unicamente la guerra, con tutto il rituale di commenti e di notizie allora rigorosamente applicato, sorvegliato solo a posteriori.
I contatti e le iniziative con gli Artigianati dei vari Paesi dell'Asse furono fra i tratti più rilevanti dell'iniziativa di questo presidente; in ciò facilitato dalla presenza in Roma di un Centro Internazionale dell'Artigianato, con un attivo segretario poliglotta e fra l'altro con un cognome che si confondeva con quello di Heghen.
Fra le varie iniziative fu attuata quella di un Istituto mediterraneo e coloniale dell'Artigianato, di cui mi fu affidata la direzione. Ma fu solo un organismo di buone intenzioni e di programmi per il tempo rimasti inattuati, fra l'altro con un Istituto di addestramento e formazione interessante nella fascia geopolitica. A questo Istituto fu assegnata un'area, fu dato un nome (ovviamente quello del fabbro di cui prima ho detto), ma il tutto rimase sulla carta.
Ampio, era invece il numero delle missioni all'estero: in Germania, Ungheria, Romania, Bulgaria, Croazia, Slovenia, Spagna e così via.
C'erano poi le visite di restituzione, e fra le più notevoli vi fu quella del Capo dell'Artigianato tedesco. Un uomo notevolmente massiccio: Hans Senhert, dalle cui confidenze cercavamo di ricavare indicazioni sul corso della guerra. Le nostre fonti diplomatiche sono state nel periodo quasi sempre scettiche e spesso largamente pessimistiche. Anche il nostro Ambasciatore a Berlino, prima del nostro intervento, Attolico (di cui sono noti pensiero, riserve, interventi), proprio essendo bene informato, ci manifestava dubbi e dietro la cautela mostrava più o meno chiaramente la diffidenza. Poi con il nostro nuovo ambasciatore Alfieri, un ex ministro della cultura popolare, lo stile divenne lo stesso di questo minculpop.
Naturalmente il capo dell'artigianato tedesco fu con un suo segretario ricevuto da Mussolini, e con quattro italiani, fra cui io. Il nostro Presidente ne prese occasione per presentare un paio di scarpe autarchiche, inventate e realizzate da un artigiano. Era l'epoca dei brevetti assurdi e dei tentati brevetti (questi ultimi tradizionali nelle vicende di questa categoria). Orbene, nell'attraversare a piedi Piazza Venezia, per raggiungere dalla nostra dirimpettaia sede delle Assicurazioni, dove vi erano gli uffici della Confindustria e dell'Artigianato ad essa aderente, il famoso Palazzo Venezia, Senhert ebbe a dire che gli sembrava di andare non dal Capo del fascismo - a lui non era mai stato possibile, pur rappresentando 4 milioni di artigiani, essere ricevuto da Hitler - ma dal proprio Borgomastro. Attraversando una piazza, andando da un capo - ma non quello - con a fianco qualcuno che portava una scatola, con dentro il paio di scarpe autarchiche. Scarpe, che naturalmente piacquero molto a Mussolini. Erano stivaletti di tela, ma con pretese invernali; avevano una suola fatta a tasselli mobili di legno, sui quali erano stati applicati dei bulloncini di gomma o presunta tale, ricavati comunque dalle gomme esauste di auto.
A Mussolini piacque soprattutto l'articolazione della scarpa, ma questa volta non dette ordini, come invece aveva fatto per la produzione in serie di mele giganti (da mezzo chilo ciascuna o poco più) che gli erano state presentate da agricoltori romagnoli. A me invece dette un ordine: l'unico da me ricevuto in tanti anni: "chiamate il fotografo". Chiamare il fotografo... In un'atmosfera ed in una realtà che già solo di qualche settimana precedevano il 25 luglio.
Ma prima di arrivare a questo 25 luglio, sempre vissuto anche da me come dirimpettaio del Palazzo Venezia (e così potevo vedere Mussolini nascosto dietro le tende azzurre d'oscuramento, con la luce perennemente accesa sul suo tavolo di lavoro nelle ore notturne, perché egli era "insonne" nel lavoro, ma assorto attento all'esterno, soprattutto quando c'era in più o meno lo spettacolare cambio della guardia al suo palazzo o quando intravedeva un vigile secondo lui non al posto giusto e con la divisa in regola, ecc.), più che tanti fatti, mi piace ricordare tante persone.
C'erano, in primis - come si scriveva una volta - i personaggi della Confindustria. Non parlo di quelli dell'Artigianato, gran parte dei quali aveva un futuro mancato alle spalle. Però nel mio ruolo di Capo Ufficio Stampa io avevo avuto due predecessori, con qualche cosa di diverso, perché uno fiorentino, del circolo di Ciano, anticipatore e realizzatore di varie iniziative fra cui la Fiera dell'Artigianato di Firenze ed infine valido imprenditore; e l'altro fondatore e direttore di un rotocalco con collaboratori di spicco, intimo di Balbo, di cui per un caso non ha diviso la morte nei cieli libici, pur rientrando nella cerchia di quanti comunque sempre erano a suo fianco, poi è divenuto avvocato.
Ma nella Confindustria c'era Volpi di Misurata: che come tanti industriali di allora erano ligi al sistema, non in quanto ne condividessero ideologie ma solo in forza di quella "filia del carabiniere" che io con la mia esperienza di vita professionale quarantennale, svolta con loro, ho dovuto ad essi attribuire. E non mi sembra che altri abbiano usata questa definizione, che a me piace, solo perché così ho potuto constatarla e verificarla.
E c'era il prof. Balella, la cui qualifica era di direttore generale, perché i mutamenti organizzativi del sistema organizzativo intervenuto nel '34 avevano comportato il cambiamento della precedente denominazione di segretario generale.
Quanti sottintesi dietro queste terminologie, spesso solo verbali mutamenti di funzioni, e spesso ancora inventati per motivi personalistici e di diversi rapporti interni di potere. Tutto ciò si traduce in un persistente nominalismo, che preclude qualsiasi più celere percorso e comunque lo rende sempre più difficile. Naturalmente anche oggi.
Balella era stato professore di diritto del lavoro; aveva preso certamente a suo modello quello di un suo non tanto prossimo predecessore, l'on. Olivetti, di cui prima ho parlato; aveva attorno a sé una qualificata cerchia di immediati collaboratori, taluni dei quali gli predisponevano dei "dossier" che facevano gola ai suoi omologhi: dossier di dati, previsioni, calcoli, solo economici, e non già dossier come si intendono quelli di oggi, che riguardano persone, presagi di avvisi di garanzia e così via.
Questi dossier erano divenuti famosi nelle riunioni e nei comitati tanto frequenti ed assillanti presieduti da Mussolini. Questi si piccava di domandare i dati più assurdi ed elementari (il prezzo del pane a Brindisi, ad esempio), e Balella era sempre pronto a dargli risposta, mentre presenti più direttamente responsabili restavano muti. Forse nelle valutazioni di Mussolini questa constatazione e l'origine ravennate di Balella gli valsero la nomina, da lui probabilmente non desiderata, a Presidente della Confindustria: nei primissimi mesi del '43, l'anno finale del regime.
Della sopravvenuta nomina di Balella, il suo predecessore Volpi ebbe solo notizia a comunicato ufficiale emesso. Era la timida procedura di un Mussolini, che evitava ogni comunicazione diretta, e che si affidava alla notizia Stefani normalmente diramata all'ora dell'ultimo giornale radio. Una specie di tranquillante per lui, ma non certo per il Paese.
Quest'abitudine è stata continuata anche dal Badoglio del 25 luglio, ma non da quello dell'8 settembre, perché questa volta c'erano di mezzo le autorità alleate.
E per continuare a parlare di Balella, ricorderò il suo zelo fascista formalmente praticato (un ossequio alla cripta dei caduti fascisti alla sede del partito, come anticipazione ad un incontro con il segretario di quel partito), ma soprattutto il suo criterio estremamente selettivo e preferibilmente interno di esprimere e far intendere, anche nella comunicazione, valori, principii e modi di essere dell'imprenditoria industriale, una apertura di spazio, abbastanza larga per quei tempi, per la mobilità e variabilità di giudizi rispetto al regime. Così egli è stato fra i membri del Gran Consiglio che il 25 luglio hanno provocato la fine del regime. Egli tuttavia non avvertì subito le conseguenze personali che gli derivavano, ma ne fu messo in guardia da un suo collaboratore, che facendolo nascondere gli ha praticamente salvato la sopravvivenza.
Ed io ho la ventura di aver conosciuto personalmente i dettagli della vicenda, certo secondari in questa storia complessiva, ma certo indicativi di un suo contesto, che come si sa apre sempre nuovi spiragli: per chi li cerca od ancora oggi pretende di presentarli come uno scoop di Balella, come tanti altri, ha ripreso la sua attività, ha riacquistato il suo spazio nel dopoguerra: con inserimenti imprenditoriali e bancari, ha avuto i benefici del carisma di un nome, ha avuto le sue affermazioni e le sue delusioni, si è compiaciuto di quanto secondo lui facevano degnamente alcuni suoi ex collaboratori (l'ha fatto anche con me quale continuatore della direzione del settimanale della Confindustria ''L'organizzazione Industriale"); è deceduto in età avanzata, forse con assilli di varia natura Superiori a quelli che prevedeva, in una logica che non ha nulla a che fare con quella riguardante i suoi famosi dossier, che per fortuna non concernevano il singolo.
Di Balella, che mi era stato detto non fosse un credente, mi è stato anche riferito che alle sue esequie abbia voluto fosse eseguito un brano di Wagner. Ci sono evidentemente interrogativi e risposte al riguardo. Ma ognuno scelga i suoi. Sempre in questa Confindustria, c'erano due capi del personale, di cui uno aveva competenza sugli uffici centrali e l'altro sulle organizzazioni esterne. Avevo dimestichezza con l'uno e l'altro, ma sapevo che era con le radici che bisognava mantenere i rapporti, e non già con quanti poi dovevano eseguirne le decisioni. Orbene, uno di questi all'esterno del Palazzo era preoccupato che gli abitudinari del caffè di tarda mattinata o primo pomeriggio - sempre usuali anche allora - anziché andare ad un bar d'angolo della piazza, frequentassero quello di sua moglie. E le esortazioni si basavano, come per ogni buon agente di commercio, sulla qualità offerta.
E l'altro capo del personale, napoletano, aveva la preliminare preoccupazione, non dico assorbente, di raccontare l'ultima barzelletta sul regime. Le ultime però erano sempre tante e dovunque egli fosse, con una cartella in mano o con una lettera da firmare, sospendeva tutto, e raccontava, cominciando sempre a ridere per primo. Ma in verità faceva ridere, perché quello era un regime che a molti suggeriva la nota risposta di "non potersi lamentare".
Questo succedeva. Ma esistono ancor oggi questi tipi di burocrazia?
Hanno a che fare con gli ordinamenti o con attitudini intramontabili? La barzelletta del periodo fascista ha i suoi predecessori, "il governo ladro", e fra i suoi eredi le contestazioni formali, satiriche talvolta, di dopo?
Ma altri personaggi, ed ho detto che li preferisco ai fatti perché sono loro in definitiva a rappresentarli e spesso a determinarli, si sono incrociati con la mia vita ed attività di giornalista. Si è detto che per volontà e doveroso acclimatamento di regime tutti fossero uguali. Non è vero. Forse per taluni c'è stato l'obbligato tesseramento perché si aveva famiglia. Per altri ci sono state le adesioni spinte all'obbligo ininterrotto di partecipare alle guerre che Si susseguivano, e perciò portate anche a convinzioni ideologiche e di coerenza prive di logica. Per altri ancora la "filia" di un ordine, che guardava a certi emblemi che stavano lì e la cui validità non sembrava avesse necessità di verifiche. C'erano poi le tante zone d'ombra, nelle quali molti trovavano riparo, difesa, punti costanti di riferimento per proprie più autonome scelte. Non sono mancati - e bisogna dar loro atto - quelli che si sono sempre opposti, dalle origini alla fine del regime: sono stati personaggi di un passato prefascista, giovani sopravvenuti a tutti i livelli, esiliati e confinati, le generazioni successive più numerose della resistenza. Di una Resistenza che ha cominciato ad essere reale, ma quasi timida all'indomani del 25 luglio, evidente, invece, decisa, mirata dopo l'8 settembre.
Una storia del ventennio, senza parlare dei precedenti da cui deriva (e si tratta di un altro discorso) non può non avere questo discorso. Lo dicono taluni storici, ma lo deve dire soprattutto chi questa realtà ha vissuto, dovendo stare con gli occhi aperti o come politico o come giornalista, ed io ho la ventura di essere in questa qualità da tanti decenni, come sa chi mi legge.
Ebbene, di questi personaggi, mi piace poter parlare anzitutto dei miei colleghi. Taluni erano fascisti, però con un ma. Taluni non lo erano, ma nessuno di molti di noi chiudeva loro le porte. Altri avevano alle spalle riserve, opposizioni al regime, ma lavoravano tutti insieme. Ognuno secondo coscienza nello scritto o nella parola, in forza delle spinte individuali, anche purtroppo delle pressanti sopravvenienze del momento.
Dei giornalisti fascisti con il ma, ne ricordo per ragioni di lavoro molti. Essi avevano quasi tutti a che fare con un ufficio stampa di seconda categoria quale il mio, all'Artigianato, pur dotato di un settimanale da 300 mila copie, come ho detto.
C'era anzitutto un direttore generale della stampa, Gherardo Casini, che prima era stato direttore del quotidiano "Il Lavoro Fascista" al quale aveva collaborato e che in piena politica antirazzista, quella della difesa della razza, mi raccomandava un pubblicista ebreo perché consentissi alla prosecuzione della stia collaborazione al mio settimanale. E' antisemitismo anche questo? O dobbiamo ricercarlo altrove?
C'è stato un direttore de "La Stampa", Alfredo Signoretti, che si è vantato con libri del suo fascismo, ma che nelle pieghe e nelle riserve rispetto ad esse aveva tante pregiudiziali, che poi riconosciute gli hanno consentito di reinserirsi nella nostra attività, fra l'altro con scelte per la libera impresa, nelle quali anni dopo, ma con continuità forse maggiore della sua, ero entrato anch'io.
C'è stato un Enrico Mattei, che io ho altrove definito, uno dei padri storici del giornalismo della mia generazione. Un giornalista sempre ed in tutti i tempi, fino alla sua morte, con gli occhi aperti e quindi che ha sempre capito quello che appunto come giornalista doveva capire: con giudizi ed attitudini che ricordiamolo, avevano anche come presupposto la difesa della testata per la quale si lavorava. Per molti editori è stata facile la sopravvivenza di queste aggiungendovi un "nuovo" che poi è stato eliminato. Non altrettanto abbiamo fatto noi giornalisti, che ognuno ha pagato la sua parte, avendola fatta tutta.
C'è stato ancora un Tomaso Sillani, Direttore della "Rassegna Italiana" - un ex nazionalista, che aveva l'ambizione di essere ricevuto dal Re, tant'è che un collega scherzosamente diceva che tale fatto dovesse essere accoppiato al cognome, come Piperno Alcorso del tempo - che aveva il solo difetto di pensare antifascista e di scrivere fascista. Ma lui non si è dato per inteso della verità di allora "chi si firma è perduto". Con lui ho realizzato varie iniziative, fra cui un grosso volume dedicato al ventennio della conquista della Libia, nonché un'agenzia dal titolo "L'Espansione Economica" (titolo certamente anticipatore per quei tempi) ed ho avuto i primi incontri domenicali, in anticipo di vari lustri rispetto a quelli dei Bellonci, con il maresciallo Giardino, con il generale Pirzio Biroli (uno dei comandanti della guerra in Africa Orientale), con l'esploratore Nesbitt, e così via. Molti di questi nomi non dicono oggi assolutamente nulla, ma per la toponomastica almeno lo dicono, anche se nell'indifferenza più totale dell'abitualità di chi ne ha la residenza o di chi deve ricercarlo nelle pagine gialle.
E veniamo ai colleghi ai quali non sono state chiuse le porte. Ho diretto un settimanale di cui ho detto. Ho redatto con responsabilità direttiva vari periodici derivanti dall'Unione editoriale d'Italia di cui mi propongo di dire in altra occasione, ma non ho mai preteso presentazione di tessere. Ci incontravamo fra colleghi per l'esame e nella concordanza del tema.
Uno di essi è stato Mario Missiroli, che ho conosciuto di persona molto più tardi, e del quale conoscevo naturalmente il passato.Di lui mi è piaciuto sempre tutto.
Orbene, di questo grande Missiroli, che era per necessità di sopravvivenza costretto a ricorrere pure alle collaborazioni di occasione, mi furono alternativamente indicati, per una rivista economica che curavo, come tema di un articolo, l'economia del lavoro invece di quella dell'oro (e questo allora era un tema di moda perché molto prometteva, pur nascondendo il vuoto) o la disciplina della macellazione in Italia.
Missiroli, che altri raccontano come a loro piace, a me è sempre più piaciuto così. Anche se dopo l'ho conosciuto e vi dirò come.
E ci sono anche nei miei ricordi i giornalisti con i quali avendo quello che avevano alle loro spalle, si lavorava tutti insieme.
C'è stato un Santi Savarino, già redattore della "Stampa" di Torino, dichiaratamente antifascista, ma che il giornale, per il rispetto di se stesso, per non licenziarlo come forse richiesto, aveva inviato a Roma quale critico teatrale. Ed era critico teatrale, anche perché autore di certe commedie recitate da Angelo Musco, un attore purtroppo dimenticato, ma celebrato del tempo.
Orbene, con questo Savarino abbiamo lavorato insieme per molti anni nel redigere una rivista economica. Ricordo di lui tutte le notizie più o meno rassicuranti che mi dava sul corso di un nostro intervento prebellico e bellico, che le sue fonti escludevano. L'ho rivisto alle esequie di una sua figlia prematuramente morta, ma alle quali era presente con particolare intensità emotiva quello che era stato suo direttore a "La Stampa`: un ex segretario del partito fascista, Augusto Turati, passato dalla direzione de "La Stampa" a Stampalia come rilevai ironicamente, perché mandato al confine nell'Isola di Rodi. E questa è un'altra storia che qualcuno approfondirà, se l'ansia di scoop, sia pure tardiva, vi sarà ancora.
Ma Savarino poi è diventato direttore de "Il Giornale d'Italia"; mi ha raccomandato il conterraneo Alfio Russo, che poi è diventato e perché diventasse direttore de "Il Corriere della Sera" e lui riteneva che a questi fini contasse qualcosa.
Io non contavo niente. Russo diveniva direttore ed io l'ho conosciuto solo quando a Milano divenivo anch'io direttore di un quotidiano, che in campo economico è il più antico d'Europa.
Ed infine c'erano i giornalisti fascisti, senza ma. Intransigenti al massimo rispetto a se stessi. Nella mia mente ce n'è uno rispetto a tutti gli altri.
Avrebbe dovuto esserci Vanni Teodorani, il genero di Arnaldo Mussolini, che ovunque secondo me avanzava prerogative che certamente non aveva. Dietro di lui c'era un certo Minguzzi, che a quel tempo doveva essere un suo press agent.
Ed invece a ricordarli per tutti c'è e si chiama Stano Scorza, fratello del Segretario del Partito, Carlo, dal quale ha nettamente diviso la scelta finale del 25 luglio. Lui ha fatto tutte le guerre possibili durante il fascismo, è stato prigioniero in India per alcuni anni, ha cercato faticosamente la via del recupero, ha immaginato cose inverosimili che mi raccontava -credeva e voleva fra l'altro un'Italia libera nel Mediterraneo e con ogni accesso aperto verso l'Atlantico: un'Italia dei sogni e lui in essa credeva e per essa in ogni occasione di combattimento era presente. Trascuro quanto professionalmente valesse, ma aveva iniziativa. Per Mussolini era un possibile direttore de "Il Resto del Carlino" a preferenza del parente Teodorani. Ma non se ne fece nulla. Nel recupero ha trovato sbocchi nelle relazioni pubbliche delle industrie farmaceutiche.
L'unica lettera di compiacimento per una relazione sull'azione politica degli anni '60, svolta da me nella Confindustria, ed alla relazione era presente il sempre presente Agnelli (e di lui penso che sia ostentatamente partecipe perché convinto di essere privilegiato, ma di essere meritevole sempre di più) è stata quella appunto di Scorza. E lo ricordo qui non certo per questo, perché nelle meditazioni con se stesso questi fatti tanto secondari non hanno radici.
Infine, io li ricordo, probabilmente però la grossa cronaca - non scomodiamo la storia - di questo secolo ha da dire con loro e di loro qualcosa più di me, due giornalisti: Arnaldo Mussolini, Margherita Sarfatti.
Il primo lo conobbi nei primi anni '30 nell'ex Palazzo della Regina Margherita in via Veneto a Roma, sede allora della Confagricoltura e poi dell'Ambasciata USA. Questo Arnaldo, il fratello Mussolini l'aveva voluto più vicino a lui perché questi con la morte del figlio Sandro era stato colpito inesorabilmente dal dolore. Ci incontrammo lì, in una sera, quasi all'indomani di un suo viaggio di studio o meglio di evasione in Tripolitania. Lui, tutto il contrario del fratello, mite, rassegnato, più consapevole del poco che riteneva di poter e voleva fare che del molto che gli altri gli attribuivano. Il fratello per lui ha fatto sì che il nostro Istituto di Previdenza dei giornalisti recasse durante il ventennio il suo nome. Arnaldo invece si è limitato nella sua vita ad essere sempre un distaccato e distante.
Parlammo della Tripolitania, di un suo articolo che avrebbe scritto per la pubblicazione che curavo, ma su tutto dominanti con gli occhiali l'abito scuro per il lutto del figlio, l'indifferenza rispetto al suo ruolo ufficiale, la natura prepotentemente privata del suo rapporto con Mussolini, che pure - si sa - aveva bisogno di sostegni esterni. Uno di questi, appunto il fratello, e che quando gli sono mancati secondo me ha franato.
Prima di franare, un altro sostegno è stato certamente per lui Margherita Sarfatti, e non parlerò dei suoi rapporti più personali con lui. Era in un palco di un teatro di Milano con lui all'inizio della marcia su Roma. Mussolini indifferente ufficialmente rispetto a quello che succedeva perché ad esserne responsabile era un quadrunvirato, ma all'indomani con la pretesa di difendere sulle barricate, con bombe e fucili, il suo giornale.
Sarfatti, una scrittrice, che ad un certo momento aveva scelta la propria abitazione romana proprio di fronte a quella villa Torlonia, residenza di Mussolini, autrice del prototipo delle biografie dello stesso: "Dux", con una grossa grinta con la quale rispondeva alle mie domande di principiante giornalista sulla letteratura africanista. Grossa grinta, novecentista risoluta ed anticipatrice, estrema prontezza di giornalista e scrittrice. Poi le sue delusioni, i suoi accantonamenti, certe sue postume estraneità, per molti anni forse con Fiammetta, sua figlia al fianco, che ricordo anche perché mia collega universitaria e pur essa allora tanto avvenente: un aggettivo oggi fuori uso, ma che diceva molte cose.
E con i nomi di questa estrazione, mi sembra di poter finire qui. Purtroppo rispetto ad ogni scritto i ripensamenti nel pro e nel contro non valgono dopo.
Ma altrove ho anche scritto che alle nostre spalle di giornalisti ci sono anche gli editori. E ciascuno di noi ha avuto a che fare con loro per rapporti di lavoro. A me invece è occorso di conoscerli e di avere pratica con essi solo perché ero a capo di un ufficio stampa, secondario, come ho detto dell'Artigianato.
Negli anni '30 ed all'inizio degli anni '40, anche gli editori che andavano per la maggiore venivano a sondare quanto per la loro inventiva ed iniziativa c'era dalla mia parte. Oggi vi sono altre tecniche di accertamento e di sondaggio. Ma allora probabilmente non c'erano, perché le tecnologie non avevano ancora compiuto i passi innanzi provocati dalla guerra.
E così Arnoldo Mondadori, da me altrove definito agente viaggiatore di se stesso, veniva a parlarmi del suo bilingue italo-tedesco per chiedermene sostegno; Valentino Bompiani sempre alla ricerca anche estetica del meglio faceva con me le prospezioni di campo per i reperti artigiani che potevano scaturirne; Gianni Mazzocchi, editore secondo me in anticipo di vari decenni rispetto ai quali doveva confrontarsi, escogitava con me una rivista per l'Artigianato dal titolo Artifex - a lui piacevano come per Domus le denominazioni in latino. Ma di Mazzocchi, con il quale a lungo ho lavorato, mi piace ricordare il fatto che sul comodino da notte aveva un taccuino, sul quale scriveva le idee che gli venivano nella parentesi della insonnia. Quelle idee erano le idee ed i fatti che all'indomani vivevano ed operavano con lui. Pensiamo anche a questo quando ci è dinanzi chi è riuscito e riesce a fare meglio di noi.
La mia fase, definita forse anche per comodità corporativa, è finita.
Sono arrivato anch'io al "mio" - ma perché mio solo? - 25 luglio. L'ho appreso la sera del 23, domenica. Con la voce di un Badoglio, che avevo conosciuto di persona 4 o 5 anni prima, allorché egli era contemporaneamente Capo di Stato Maggiore Generale e Presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Gli chiedevo un articolo per un'enciclopedia che un industriale tessile tentava di realizzare, come già Treccani, e di cui mi era stata affidata la consulenza. Ma in qell'occasione mi sembrò più impegnato nella lettura di un libro che non attento a quello che gli era intorno o che noi, per parte nostra, chiedevamo.
Ne ricavai la sola conclusione che della guerra - siamo sul finire del '38 - non dovesse nemmeno parlarsi. Invece il 25 luglio era non tanto distante, come non tanto lontano era pure l'8 settembre, ma rispetto ad essi allora Badoglio mostrava di non avere nulla a che fare, per la semplice ragione che erano molto più importanti i libri; e per lui, come ho saputo dopo, il bridge, la villa, gli assegni ordinari e straordinari, ecc.
Ma ricominceremo appunto da qui.

(4 - continua)


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000