§ Lettura di una societą vitale

Un'identitą per l'Italia




Tomino Capeto, Gianfranco Langatta, Franco Levi
Collab. Vanni Marini, Flavio Albini



Da molto tempo viene regolarmente chiesto di chiarire che cosa sta accadendo in Italia e quale nesso logico ci sia negli ultimi nostri tumultuosi eventi. La gente è disorientata e in effetti nel breve giro di poco superiore ad un anno le abbiamo viste di tutti i colori: crisi dei partiti e crisi della lira, crisi delle imprese e crisi delle istituzioni, crisi della finanza pubblica e crisi dei consumi vacanzieri, crisi dei conti con l'estero e crisi della sicurezza collettiva, crisi della politica come impulso ed orientamento storico e della qualità della vita quotidiana nelle varie realtà nazionali e crisi nelle stesse realtà locali. Insomma, crisi a tutto campo, crisi di sfiducia in tutto e di tutti contro tutti, e il tutto condito da eventi ad alto tasso di impressività: picconate conseguenti, conflitti tra alte cariche dello Stato, vittorie elettorali delle istanze eli rottura dell'unità nazionale e statuale, magistrati di grande carica professionale e simbolica che saltano su devastanti cariche di tritolo, imprenditori e politici importanti che finiscono in galera o sotto eventualità di galera, preannunci di rivolte fiscali, credibilità internazionale sotto i tacchi.
Venti anni fa le copertine dei grandi settimanali esteri recitavano "Italy in agony". Oggi qualcuno scrive "Finis Italiae", la fine dell'Italia che tutti insieme abbiamo creato e vissuto negli ultimi decenni. Ce n'è abbastanza per chiedersi che cosa sia avvenuto, e quale logica segreta (non dietrologica, anche se qualcuno ricomincia ad avere sospetti) stia sotto la crisi e gli eventi che abbiamo sommariamente e incompletamente elencato.
Confessiamo che la nostra prima reazione, di ironico qualunquismo, sarebbe quella di rispondere che un Paese che in poco più di una dozzina di mesi ha subito tutte le disgrazie possibili è un Paese immortale, visto che sfideremmo la più potente nazione del mondo (anche il Giappone, o la Germania, e persino gli stessi Stati Uniti d'America) ad attraversare una storia come la nostra e a restare comunque a galla. Ma l'ironico qualunquismo non è il nostro forte, e allora accettiamo con serio impegno la provocazione a spiegare quel che, ovviamente secondo noi, accade.
E qui scatta la sorpresa: impossibile fare un discorso filato, senza essere interrotti da una corale sindrome da stadio: la colpa è tutta di chi ci ha rovinato; li vogliamo tutti in galera, con relativo sequestro dei beni e successiva loro vendita all'incanto; li vogliamo tutti umiliati fino alla gogna (li facciamo vedere in manette in televisione); è tutto uno schifo, un marciume. Diventa inutile ogni tentativo di ragionare. Il grido "Sono tutti delinquenti" è più forte di ogni dichiarato desiderio di capire.
Di fronte a questa reazione irrazionale, la nostra seconda collettiva propensione, sempre di ironico qualunquismo, sarebbe quella che passi la buriana: nella cultura generale italiana la contestazione globale è esercizio corrente, anzi, ricorrente, il disprezzo per i più potenti è una costante, il successo del Masaniello (gruppettari o salottieri che siano) è immancabile; poi, però, (lentamente o d'un colpo), la spettacolarietà delle contestazioni del Masaniello tende a far meno presa e la gente si interessa d'altro, magari con un supplemento di sconsolato cinismo. Ma di fronte alle rabbiose reazioni dei nostri interlocutori ci sentiamo in dovere di continuare a capire e spiegare, magari partendo dalla loro rabbia.
Cominciamo in proposito a pensare che il problema italiano stia nella dislocazione esterna della vitalità della gente: una volta essa era tutta volta all'affermazione di se stessi, oggi si tramuta in rabbia verso gli altri. La rabbia è la grande vincitrice degli ultimi tempi, ed è la rabbia che va capita, perché non fatta solo di giusti, giustissimi sentimenti di indignazione e di catarsi rivoluzionaria; ma anche di più intime componenti di paura e di vendicatività. Abbiamo letto in un recente libro (Rabbia e vendicatività, edito da Bollati, dal quale trarremo tutte le frasi virgolettate di questa nostra riflessione) che "la rabbia esplode sempre nei periodi di riattivazione del problema del Sé": la concezione di se stessi consolidatisi negli anni non basta più; se ne cerca più o meno consapevolmente una nuova, altrettanto gratificante; non la si trova, e questo fatto crea paura; si tenta di darne la colpa a qualcuno, che diventa il nemico su cui scatenare rabbia e anche vendicatività, visto che la vendicatività è "il tentativo disperato di prevenire l'angoscia della perdita del senso d'identità".
Vale questo ragionamento per la società contemporanea? Noi crediamo di sì. La nostra identità tradizionale, la concezione di noi stessi che avevamo coltivato per gli ultimi decenni è in crisi o almeno non ci basta essere un Paese sviluppato e ricco, che si è trasformato dal di dentro o dal basso, fuori di ogni modello ideologico; e non ci basta più, sul piano individuale, essere imprenditori, fantasiosi, ricchi consumatori e ricchi viaggiatori, proprietari di auto, di case prime e seconde, di telefonini cellulari. Vorremmo essere diversi, specialmente quelli di noi che meno si accontentano di ciò che hanno già raggiunto (i super agiati, o i lombardo-veneti e i valdostani, ad esempio).
Cerchiamo, allora, più o meno consapevolmente una nuova concezione di noi stessi: vogliamo essere più europei, più solidi industrialmente, e anche finanziariamente, più dotati di servizi di qualità, più compenetrati in istituzioni che funzionino, più stimati all'estero, più rispettosi delle regole e dei doveri, fiscali come penali. Moltissimi di noi non si accontentano più delle proprie conquiste passate, ma vogliono cose ben più avanzate. Da Superego grandioso.
Siamo una società con gente che sta uscendo dalla povertà e con gente ricca; con gente che vuole ancora rischiare e investire e con gente che si è adagiata nella rendita; con gente che vuole internazionalizzarsi e con gente che si rinserra nel proprio localismo territoriale; con gente, in altre parole, che si riconosce nel proprio sviluppo passato (in quanto fatto da tutti e con posto per tutti), ma che non si riconosce ancora in tiri futuro voluto da alcuni, in cui forse non c'è posto per tutti. Una società impastata cresce tutta insieme e lentamente -, se si ritrova in sfide avvertite come parziali, si spacca in due paure e in due rabbie: la paura e la rabbia di chi ritiene di perdere identità se non raggiunge rapidamente nuove dimensioni e concezioni di se stesso; e la paura e la rabbia di chi vede nei processi in atto pericoli di marginalizzazione e di nuova povertà.
Se ci guardiamo intorno, riconosciamo i sintomi di queste due paure: ritroviamo i sintomi della prima negli imprenditori più avanzati, negli operatori del terziario innovativo (consulenti, finanzieri, eccetera), nelle grandi tecnostrutture (da quelle monetarie a quelle commerciali, a quelle della ricerca), nelle regioni più "europee" del Paese, non escluse alcune aree del Mezzogiorno d'Italia. Ritroviamo i sintomi della seconda nei lavoratori industriali (a rischio di posto di lavoro, a rischio di restare i soli a pagare per tutti), nei piccoli imprenditori industriali e terziari (sempre più impauriti dal restringimento delle loro opportunità), nei dipendenti pubblici (a sempre minori tassi di piccolo privilegio).
Le paure e le rabbie devono infatti essere riversate su qualcuno. Nessuno, almeno nel nostro Paese, è così masochista da attribuire le stesse colpe proporzionali all'intensità delle proprie paure e delle proprie rabbie: non vediamo nessun imprenditore che ammetta di non aver saputo creare nuovi prodotti, nessun operatore terziario che ammetta di aver venduto spesso fumo, e persino a carissimo prezzo; nessuna grande tecnostruttura che ammetta propri errori di diagnosi o di comportamento; nessun lavoratore autonomo che ammetta di aver scialato (in auto, in lussi, in viaggi), invece di prepararsi alle attuali difficoltà; nessun dipendente pubblico che ammetta di aver sfruttato troppo (ed aumentato a dismisura) l'inefficienza delle strutture nelle quali esercita la sua professione. Le colpe, le paure, le rabbie sono indirizzate altrove: lo sviluppo è stato di tutti, le difficoltà e le responsabilità sono del sistema, del politico, dello Stato.
Quando il Superego collettivo non è più grandioso e non ha la forza di una nuova ricerca di grandiosità, la colpa è del Superego formale (lo Stato, la politica, il potere) E qui scatta non solo l'attribuzione di colpa, ma anche la voglia di vendetta, quella vendicatività che sola può tenere a bada "la depressione legata sulle proprie insufficienze" e sola può far `sperare di poter riguadagnare la propria potenza": lo Stato va delegittimato, scardinato, smembrato; la politica va disprezzata e resa inutile, messa sotto accusa permanente; il potere va umiliato ed i suoi membri messi in galera.
Chi, per onestà professionale di magistrato o per calcolo intellettuale e politico, dà corpo reale a questa collettiva ansia di vendetta diventa un eroe ("l'eroe è una persona che mette in pratica i sentimenti di vendivicatività degli altri"). E alla gente interessa poco la diversa qualità degli eroi vendicatori (possono essere Di Pietro o Bossi); interessa poco "la labilità del confine fra giusta punizione e rappresaglia"; interessa solo lo spurgo della rabbia e della paura della propria identità in crisi.
Sentiamo già qualche voce irata che prende a sospettare che noi si voglia difendere i corrotti dalla indignazione della gente. E allora dobbiamo precisare che, percorrendo i sentieri interpretativi che abbiamo già riassunto, ci siamo sentiti crescere dentro ulteriormente la riprovazione, l'odio, il disprezzo per quanti per immoralità personale e civile hanno tradito il senso del potere, della politica, dello Stato; e, con tale tradimento, hanno permesso che le energie della gente divenissero da vitali e feconde che erano, rabbiose e vendicative. Chi, a qualsiasi titolo, esercita potere e funzioni pubbliche ha il dovere di incanalare in direzione vitale le energie della società; altrimenti in quest'ultima, in un momento critico di ripensamento del proprio Sé, finisce per dislocare la propria energia in emozioni regressive di paura, di rabbia, di vendicatività.
Come se ne esce? Se dovessimo dare retta ai libri, diremmo che se ne può uscire solo capendo che "l'atto vendicativo non vuole solo punire ma vuole che la vittima ammetta le colpe e chieda perdono", (è in fondo l'ipotesi del condono dopo ampia confessione proposto dal giudice Colombo vero e proprio dottor Sottile della Procura della Repubblica milanese). Se dovessimo dar retta alla nostra dose di piccolo qualunquismo, diremmo che la gente aspetta l'ultima più emozionante fase dei fuochi d'artificio (quelli che scoppiano più in alto e con maggior rumore) per poi tra qualche mese rituffarsi nei propri problemi e in nuove emozioni.
Se dovessimo dar retta alla cinica constatazione che siamo di fronte "anche" ad uno scontro di potere, diremmo che ne usciremo soltanto dopo una lunga e crudele guerra di logoramento (tra differenti gradi di sentenze, di campagne d'opinione, di interventi occulti). Se dovessimo invece dare retta alla nostra logica di sempre di capire la società e la cultura e la politica italiana, dovremmo dire che ne usciremo soltanto se ciascuno di noi, al più presto, farà un suo impegnativo sforzo di ridefinizione della propria identità, dei propri interessi, della propria strategia per il futuro: nella sua professione, nella sua azienda, nel suo lavoro, nella sua comunità locale, nella sua vita. Solo se faremo tutti insieme un tale sforzo non avremo paura d'aver perso la nostra identità passata e di non riuscire a costituirne una nuova; e solo non avendo paura avremo meno rabbia e vendetta da esercitare e da chiedere.
Scrivevamo qualche anno fa: "Allo Stato appartiene il diritto, il senso della vita appartiene a noi stessi"; oggi lo ripeteremo, chiedendo con forza che chi fa Stato, politica e potere ci garantisca il diritto e stia nella legalità; ma chiedendo altresì a tutti che riprendano il gusto di costruire da se stessi il senso della vita individuale e collettiva.


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