Su
un punto del loro antimeridionalismo le Leghe hanno ragione. In passato
il Sud ha avuto una funzione importante, economica e politica, nello
sviluppo di tutta l'Italia. E' stata una funzione subalterna, perché
i centri di decisione stavano al Nord, ma in ogni caso decisiva nei
due periodi in Cui la società italiana si è trasformata
più profondamente. Nel periodo che non è ancora di decollo,
ma di trasformazioni iniziali, quello giolittiano del primo decennio
del secolo, il mercato meridionale costituiva la riserva SU Cui l'industria
settentrionale poteva costruire le sue prime fortune, all'ombra della
protezione doganale. E' inutile ricordare come nella stabilità
politica di quel periodo il Mezzogiorno avesse una funzione rilevante,
anche se l'apporto dei deputati meridionali era assicurato con i metodi
che meritarono a Giolitti l'appellativo di "ministro della malavita".
Per tutto il miracolo economico, tra il 1955 e il 1965, quando l'Italia
divenne davvero un Paese moderno, il Mezzogiorno fornì l'esercito
di riserva della forza lavoro per l'espansione dell'industria; nello
stesso modo i tedeschi che abbandonarono la Polonia, la Cecoslovacchia
e la parte del Paese occupata dall'Unione Sovietica furono alla base
del miracolo tedesco. Ma il Mezzogiorno fu anche, allora, un terreno
di incontro, di elevatissimo livello culturale, tra il movimento riformatore
dei contadini, guidato dai comunisti, e il riformismo democristiano,
quello della riforma agraria e della Cassa per il Mezzogiorno, che costituisce
uno dei momenti più alti di questo partito. Fu quello l'unico
periodo in cui si fecero davvero delle riforme in Italia, grazie all'equilibrio
dialettico tra forze opposte che costituiva il quadro di riferimento
per una società in trasformazione.
Oggi tutto ristagna ed il Mezzogiorno è soltanto Un onere. Nel
1990 il reddito pro-capite del Sud è stato il 56,6 per cento
di quello nazionale, mentre i consumi pro-capite sono stati il 69,5.
Il Sud consuma assai più di quel che produce e la differenza
è a carico del resto d'Italia. Le spese per personale e trasferimenti'
dello Stato sono equivalenti al 30 per cento dei consumi delle famiglie
meridionali. Si può capire che questo venga sentito come un peso.
Il punto è che a tutto questo non si può dare una risposta
becera. Il federalismo e l'autonomismo sono stati a lungo una bandiera
della democrazia meridionale, dai socialisti palermitani fino a Gaetano
Salvemini e Guido Dorso, e non possono certo spaventarci. Ma dietro
la proposta spartizione in tre dell'Italia c'è soltanto l'isolamento
del Sud, e questo è un obiettivo non solo assurdo, ma irrealizzabile.
Per non ridurre la divisione a simbolo inutile della chiusura del Mezzogiorno
in un ghetto, si dovrebbero mettere in piedi delle frontiere reali,
ed ostacoli reali al trasferimento degli uomini e delle risorse. Ma
questo significherebbe l'esclusione dell'Italia, di tutta l'Italia,
dall'Europa, perché questa non si può fermare sull'Appennino
emiliano quando arriva allo Stretto di Gibilterra e ad Istambul; mentre
si aboliscono le frontiere non si possono crearne di nuove. Il risultato
del federalismo sarebbe l'opposto di quel che si vuole: non l'integrazione
del Nord nell'Europa, abbandonando il Sud al suo destino, ma l'esclusione
definitiva dello stesso Nord. Per questo la soluzione è impossibile
e indicare un certo tipo di federalismo come soluzione al problema del
rapporto tra Nord e Sud è soltanto demagogico e infantile.
Perché il Sud possa cessare di essere un peso per il Nord non
c'è altra via che la ripresa dello sviluppo, in forme nuove,
in uno Stato riformato. E ciò significherà, come è
già accaduto, la ripresa del progresso per l'intero Paese; anche
il rinnovamento politico, come è stato sempre nella storia d'Italia,
non è concepibile senza una forte componente meridionale. L'ondata
di protesta che ha portato al successo delle Leghe ha certamente un
fondamento reale. Indirizzarla verso obiettivi impossibili ed equivoci
contribuisce soltanto a renderla torbida, e si ritorcerebbe contro lo
stesso Nord che ha bisogno di uno Stato rinnovato, non di rinchiudersi
nel proprio isolamento. Non abbiamo alcuna giustificazione nell'opporre
soltanto invettive alla demagogia ed all'infantilismo politico. Quanto
c'è di vivo del pensiero meridionale deve essere capace di applicarsi
al compito gravoso ma non impossibile di costruire un progetto di rinnovamento
nazionale che si faccia carico delle ragioni degli altri.
Quante Italie?
Sud del passato /Sud del presente
La manovra
del Borbone
Le vicende che
hanno incrinato la stabilità di alcune monete europee, e fra
queste la lira italiana, dimostrano ampiamente quanto siano stretti
e ineludibili i nessi che collegano la finanza all'economia reale.
La storia è lapalissiana ma, in qualche modo, è anche
scomoda. Non a caso, opinionisti ed esponenti politici hanno molto
spesso preferito stigmatizzare il ruolo svolto, nei recenti sussulti
del Sistema monetario europeo, dalle manovre al rialzo o al ribasso
degli operatori finanziari, quasi che, ad interrompere la buona stagione
della lira fossero state sufficienti le mire (economiche e, ha aggiunto
qualcuno, politiche) della cosiddetta speculazione.
Eppure, balza agli occhi che, a trovarsi in difficoltà, sono
le monete delle economie europee più deboli: la forza del marco
tedesco e la stabilità del franco francese riflettono lo stato
di salute delle rispettive economie nazionali, al cui interno i livelli
di produttività, le capacità tecnologiche, la qualità
dei servizi e dell'amministrazione pubblica appaiono decisamente maggiori
di quanto non siano, ad esempio, in Italia, in Inghilterra, in Spagna,
o altrove.
E' da queste diversità reali che partono le vicende finanziarie.
I crucci monetari italiani non vanno imputati agli "egoismi"
della Bundesbank e neppure soltanto al forte debito pubblico, ma ad
una produttività industriale spesso mediocre, all'inefficienza
dei servizi, ai disservizi amministrativi che caratterizzano il nostro
Paese e che ne riducono pesantemente la competitività sui mercati
internazionali.Non c'è da stupirsi se, in queste condizioni,
gli operatori europei e nord-atlantici abbiano ritirato la propria
fiducia all'Azienda Italia, che ha immediatamente comportato il deprezzamento
della lira.
Ma, se è vero che finanza ed economia sono due facce della
stessa medaglia, si capisce che il problema non può essere
avviato ad effettiva soluzione soltanto con i pur sacrosanti provvedimenti
di politica monetaria (svalutazione) o economica (nuove imposte, taglio
della spesa pubblica). La lira sarà al riparo dalle cosiddette
speculazioni soltanto se e quando l'economia reale del Paese avrà
registrato un miglioramento apprezzabile.
La sfida che allo stato delle cose si pone al governo (ed in ultima
analisi ad ogni famiglia) è economica e non soltanto monetaria.
Le scappatoie finanziarie, che sono state a lungo praticate - e godute
- dalla classe dirigente e dall'intero Paese, hanno evidentemente
le gambe corte. I debiti, alla fine, vanno pagati; e, per pagarli,
è necessario disporre di ricchezza reale.
L'esperienza vissuta dal Mezzogiorno italiano nella prima metà
dell'Ottocento è, al riguardo, molto significativa, e può
far riflettere utilmente anche sui casi odierni (sebbene i paragoni
fra passato e presente vadano sempre presi con grande cautela). Ad
essa dedica un'ampia ricerca Nicola Ostuni, il quale, con la consueta
accuratezza documentaria, ricostruisce la politica economica seguita
da Ferdinando di Borbone e dal suo ministro Luigi de' Medici, fra
il 1815 e il 1830 circa, e, di quella politica, illustra efficacemente
l'illusione di poter risolvere i problemi di un forte deficit statale
in chiave puramente finanziaria. Il testo ha il titolo "Finanza
ed economia nel regno delle Due Sicilie". Lo ha pubblicato Liguori
di Napoli.
All'indomani del periodo napoleonico e del congresso di Vienna, Ferdinando
di Borbone può recuperare il suo regno grazie all'opera militare
e diplomatica degli austriaci, ai quali, cinque anni dopo, si affiderà
nuovamente per tornare a Napoli dall'esilio a cui l'ha costretto il
movimento costituzionale del 1820-21. Ma l'appoggio degli austriaci
si rivela assai costoso. In dieci anni, per indennizzarli delle spese
sostenute e per mantenerne un corpo di occupazione che non lascerà
il Mezzogiorno prima del 1827, le finanze pubbliche spenderanno oltre
ottanta milioni di ducati. Una enormità, ove si pensi che l'insieme
delle entrate statali si aggirava mediamente intorno ai venti milioni
l'anno. Messo di fronte a simili urgenze, il governo napoletano fa
le sue scelte: esclude la strada di un taglio sostanzioso delle spese
e decide piuttosto, per un verso, di mantenere alta la pressione fiscale
sulle campagne, e, per l'altro verso, di pagare i propri debiti contraendo
altri debiti. Ma il costo di una simile operazione si rivela piuttosto
elevato. L'imposta fondiaria, in una fase di prezzi agricoli bassi,
diventa molto gravosa e taglia le gambe ad ogni ipotesi di sviluppo
economico delle aziende rurali. Inoltre, i continui prestiti, che
servono a pagare puntualmente alla loro scadenza le rate delle innumerevoli
pendenze statali, vengono ottenuti dal governo concedendo alti (talvolta
altissimi) tassi di interesse e dando in garanzia le stesse rendite
pubbliche, ovvero, come si dice anche ai nostri giorni, privatizzando
pezzi di Stato.
Pagare i debiti con altri debiti significa innescare un circuito di
interessi crescenti in funzione esponenziale. Ai creditori, inoltre,
che per lo più sono mercanti-finanzieri napoletani, ma anche
stranieri, Luigi de' Medici concede importanti facilitazioni doganali,
che permetteranno loro di organizzare un cospicuo flusso di importazioni
marittime nel regno (manufatti) e, tornando le navi ai porti di origine,
un altrettanto intenso commercio di esportazione di derrate agricole
meridionali. Fra alti interessi strappati allo Stato e sovrapprofitti
commerciali, dunque, i loro affari vanno a gonfie vele.
Una politica del genere, sostiene Ostuni, al termine di un ragionamento
serrato, finisce per consegnare il Regno delle Due Sicilie nelle mani
della finanza internazionale, compromette le prospettive di sviluppo
economico del Mezzogiorno e in modo particolare della sua agricoltura,
permette piuttosto una forte accumulazione di capitali da parte di
un ceto mercantile-finanziario destinato a far sentire il proprio
peso anche in futuro, all'indomani del 1860, nella società
meridionale.
Dei limiti di una politica economica che saldava, in una spirale viziosa,
debiti e recessione, sembra accorgersi lo stesso de' Medici, il quale
infine, nel 1825, imposterà i primi passi di una manovra tesa
piuttosto a irrobustire l'economia "nazionale" (manifatture,
agricoltura, pastorizia) e decisa a tagliare con più coraggio
la spesa pubblica. Ma i guasti di una manovra puramente finanziaria,
operata a scapito dell'economia reale, erano già fatti, e non
sarebbe stato facile tornare indietro.
Quante Italie?
L'ultima miniera
Il vagoncino di
carbone, verniciato di bianco, è sul piano di carico dell'ascensore,
819 metri sotto terra. Lo tirano su, fra striscioni, applausi, e forse
anche qualche lacrima di rimpianto, umile monumento a un pezzo di
storia del Belgio. Addio miniere: con la chiusura del pozzo di Zolder,
condannato dalla fredda logica dei bilanci, finisce un'epopea di sudore
e di sangue che nell'ultimo mezzo secolo ha anche coinvolto schiere
di emigrati italiani e meridionali. Dopo l'abbandono delle miniere
di Vallonia, avviato nel 1956, restavano solo e semplicemente quelle
del Limburgo fiammingo; ma anch'esse, ad una ad una, sono state allagate
e ridotte, nel piatto, uniforme paesaggio belga, a fantasmi di tralicci
arrugginiti. Le grandi ruote degli ascensori sono ferme per sempre.
Minatori con le tute blu, i caschi con la lampada accesa, il fazzoletto
bianco-rosso al collo hanno ripercorso in treno e in battello la "via
del carbone": odiata, temuta, sofferta, ma anche mitizzata. La
miniera resta un faro. Sarà a lungo nostalgia.
Fino a qualche mese fa, a Zolder, lavoravano ancora 380 italiani;
poi, schiere di belgi, turchi, marocchini, spagnoli. Sotto terra,
anneriti dal carbone, erano tutti uguali. Dopo che Zolder è
diventata "De Laatste Mijn", l'ultima miniera, sono tra
i più giovani pensionati dell'Europa del Nord. Rifanno i vecchi
conti: quattromila franchi al giorno, 160 mila lire. Sveglia alle
cinque, caffè, poi alla bocca della miniera. Maglietta nera,
calze di lana, giacca e pantaloni di tela blu, scarponi con la punta
d'acciaio. Alle 6, discesa. Due colpi di campana, gli ascensori in
movimento. Un lungo tuffo, con l'angoscia dei vuoti d'aria nella corsa
di un minuto e 57 secondi. Le orecchie ronzanti. Il caldo - trenta
gradi, laggiù - soffocante.Ma è solo l'inizio di un
lungo tragitto: per arrivare al fronte del carbone c'è il trenino.
Sulla roccia, i graffiti che esaltano i meriti del sindacato e le
grazie di magnifiche silfidi.
Poco meno di un'ora per raggiungere la taglia: una galleria di cinque
metri di diametro, rinforzata con robusti archi di ferro. Ad intervalli,
il controllo della presenza di gas. Allarme al due per cento, nella
norma. Al sei per cento il grisù esplode. Ed è morte
per le "gueules noires", per i musi neri. Dei quali resta
in Belgio, ormai, solo il ricordo legato al carbone e all'industria
pesante, fonte di potenza economica il cui tramonto si identifica
con una profonda crisi del Paese: la morte del carbone si è
tradotta in morte della siderurgia; in aree in cui occorrevano pozzi
sempre più profondi, più difficili da raggiungere, più
pericolosi.
Ancora oggi abitano nella Regione di Charleroi circa 130 mila dei
280 mila italiani residenti in Belgio, dodicimila di loro inoccupati,
gli altri in particolare operai e commercianti. Fra le colline di
detriti, dove oggi svettano gli scheletri delle torri, lavorarono
negli anni eroici della nostra emigrazione fino a trentamila meridionali.
Sono stati anche loro gli oscuri protagonisti della grande storia
del carbone: i mitici uomini nelle viscere della terra che correvano
il rischio di non rivedere più la luce del sole. Come a Marcinelle:
i vetri ormai rotti, i muri sbrecciati, tragico fantasma di un dramma
che il mondo non ha dimenticato, monumento ai 262 morti, 136 dei quali
italiani, di quell'8 agosto 1956, quando il pozzo numero uno del Bois
du Cazier prese fuoco. A 975 metri sotto il pelo dell'erba il rogo
intrappolò i minatori. Solo dodici riuscirono a salvarsi. Fu
l'inizio della fine per il carbone belga, che dopo quasi un secolo
ha concluso la sua storia in un clima di grande kermesse attorno all'ultimo
vagoncino dipinto di bianco: l'ultimo a viaggiare al centro della
terra, dalla miniera che poi è morta.
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