§ Quante Italie?

Ma il Paese si rinnova soltanto con il Sud




Napoleone Colajanni



Su un punto del loro antimeridionalismo le Leghe hanno ragione. In passato il Sud ha avuto una funzione importante, economica e politica, nello sviluppo di tutta l'Italia. E' stata una funzione subalterna, perché i centri di decisione stavano al Nord, ma in ogni caso decisiva nei due periodi in Cui la società italiana si è trasformata più profondamente. Nel periodo che non è ancora di decollo, ma di trasformazioni iniziali, quello giolittiano del primo decennio del secolo, il mercato meridionale costituiva la riserva SU Cui l'industria settentrionale poteva costruire le sue prime fortune, all'ombra della protezione doganale. E' inutile ricordare come nella stabilità politica di quel periodo il Mezzogiorno avesse una funzione rilevante, anche se l'apporto dei deputati meridionali era assicurato con i metodi che meritarono a Giolitti l'appellativo di "ministro della malavita".
Per tutto il miracolo economico, tra il 1955 e il 1965, quando l'Italia divenne davvero un Paese moderno, il Mezzogiorno fornì l'esercito di riserva della forza lavoro per l'espansione dell'industria; nello stesso modo i tedeschi che abbandonarono la Polonia, la Cecoslovacchia e la parte del Paese occupata dall'Unione Sovietica furono alla base del miracolo tedesco. Ma il Mezzogiorno fu anche, allora, un terreno di incontro, di elevatissimo livello culturale, tra il movimento riformatore dei contadini, guidato dai comunisti, e il riformismo democristiano, quello della riforma agraria e della Cassa per il Mezzogiorno, che costituisce uno dei momenti più alti di questo partito. Fu quello l'unico periodo in cui si fecero davvero delle riforme in Italia, grazie all'equilibrio dialettico tra forze opposte che costituiva il quadro di riferimento per una società in trasformazione.
Oggi tutto ristagna ed il Mezzogiorno è soltanto Un onere. Nel 1990 il reddito pro-capite del Sud è stato il 56,6 per cento di quello nazionale, mentre i consumi pro-capite sono stati il 69,5. Il Sud consuma assai più di quel che produce e la differenza è a carico del resto d'Italia. Le spese per personale e trasferimenti' dello Stato sono equivalenti al 30 per cento dei consumi delle famiglie meridionali. Si può capire che questo venga sentito come un peso. Il punto è che a tutto questo non si può dare una risposta becera. Il federalismo e l'autonomismo sono stati a lungo una bandiera della democrazia meridionale, dai socialisti palermitani fino a Gaetano Salvemini e Guido Dorso, e non possono certo spaventarci. Ma dietro la proposta spartizione in tre dell'Italia c'è soltanto l'isolamento del Sud, e questo è un obiettivo non solo assurdo, ma irrealizzabile. Per non ridurre la divisione a simbolo inutile della chiusura del Mezzogiorno in un ghetto, si dovrebbero mettere in piedi delle frontiere reali, ed ostacoli reali al trasferimento degli uomini e delle risorse. Ma questo significherebbe l'esclusione dell'Italia, di tutta l'Italia, dall'Europa, perché questa non si può fermare sull'Appennino emiliano quando arriva allo Stretto di Gibilterra e ad Istambul; mentre si aboliscono le frontiere non si possono crearne di nuove. Il risultato del federalismo sarebbe l'opposto di quel che si vuole: non l'integrazione del Nord nell'Europa, abbandonando il Sud al suo destino, ma l'esclusione definitiva dello stesso Nord. Per questo la soluzione è impossibile e indicare un certo tipo di federalismo come soluzione al problema del rapporto tra Nord e Sud è soltanto demagogico e infantile.
Perché il Sud possa cessare di essere un peso per il Nord non c'è altra via che la ripresa dello sviluppo, in forme nuove, in uno Stato riformato. E ciò significherà, come è già accaduto, la ripresa del progresso per l'intero Paese; anche il rinnovamento politico, come è stato sempre nella storia d'Italia, non è concepibile senza una forte componente meridionale. L'ondata di protesta che ha portato al successo delle Leghe ha certamente un fondamento reale. Indirizzarla verso obiettivi impossibili ed equivoci contribuisce soltanto a renderla torbida, e si ritorcerebbe contro lo stesso Nord che ha bisogno di uno Stato rinnovato, non di rinchiudersi nel proprio isolamento. Non abbiamo alcuna giustificazione nell'opporre soltanto invettive alla demagogia ed all'infantilismo politico. Quanto c'è di vivo del pensiero meridionale deve essere capace di applicarsi al compito gravoso ma non impossibile di costruire un progetto di rinnovamento nazionale che si faccia carico delle ragioni degli altri.

Quante Italie? Sud del passato /Sud del presente

La manovra del Borbone

Le vicende che hanno incrinato la stabilità di alcune monete europee, e fra queste la lira italiana, dimostrano ampiamente quanto siano stretti e ineludibili i nessi che collegano la finanza all'economia reale. La storia è lapalissiana ma, in qualche modo, è anche scomoda. Non a caso, opinionisti ed esponenti politici hanno molto spesso preferito stigmatizzare il ruolo svolto, nei recenti sussulti del Sistema monetario europeo, dalle manovre al rialzo o al ribasso degli operatori finanziari, quasi che, ad interrompere la buona stagione della lira fossero state sufficienti le mire (economiche e, ha aggiunto qualcuno, politiche) della cosiddetta speculazione.
Eppure, balza agli occhi che, a trovarsi in difficoltà, sono le monete delle economie europee più deboli: la forza del marco tedesco e la stabilità del franco francese riflettono lo stato di salute delle rispettive economie nazionali, al cui interno i livelli di produttività, le capacità tecnologiche, la qualità dei servizi e dell'amministrazione pubblica appaiono decisamente maggiori di quanto non siano, ad esempio, in Italia, in Inghilterra, in Spagna, o altrove.
E' da queste diversità reali che partono le vicende finanziarie. I crucci monetari italiani non vanno imputati agli "egoismi" della Bundesbank e neppure soltanto al forte debito pubblico, ma ad una produttività industriale spesso mediocre, all'inefficienza dei servizi, ai disservizi amministrativi che caratterizzano il nostro Paese e che ne riducono pesantemente la competitività sui mercati internazionali.Non c'è da stupirsi se, in queste condizioni, gli operatori europei e nord-atlantici abbiano ritirato la propria fiducia all'Azienda Italia, che ha immediatamente comportato il deprezzamento della lira.
Ma, se è vero che finanza ed economia sono due facce della stessa medaglia, si capisce che il problema non può essere avviato ad effettiva soluzione soltanto con i pur sacrosanti provvedimenti di politica monetaria (svalutazione) o economica (nuove imposte, taglio della spesa pubblica). La lira sarà al riparo dalle cosiddette speculazioni soltanto se e quando l'economia reale del Paese avrà registrato un miglioramento apprezzabile.
La sfida che allo stato delle cose si pone al governo (ed in ultima analisi ad ogni famiglia) è economica e non soltanto monetaria. Le scappatoie finanziarie, che sono state a lungo praticate - e godute - dalla classe dirigente e dall'intero Paese, hanno evidentemente le gambe corte. I debiti, alla fine, vanno pagati; e, per pagarli, è necessario disporre di ricchezza reale.
L'esperienza vissuta dal Mezzogiorno italiano nella prima metà dell'Ottocento è, al riguardo, molto significativa, e può far riflettere utilmente anche sui casi odierni (sebbene i paragoni fra passato e presente vadano sempre presi con grande cautela). Ad essa dedica un'ampia ricerca Nicola Ostuni, il quale, con la consueta accuratezza documentaria, ricostruisce la politica economica seguita da Ferdinando di Borbone e dal suo ministro Luigi de' Medici, fra il 1815 e il 1830 circa, e, di quella politica, illustra efficacemente l'illusione di poter risolvere i problemi di un forte deficit statale in chiave puramente finanziaria. Il testo ha il titolo "Finanza ed economia nel regno delle Due Sicilie". Lo ha pubblicato Liguori di Napoli.
All'indomani del periodo napoleonico e del congresso di Vienna, Ferdinando di Borbone può recuperare il suo regno grazie all'opera militare e diplomatica degli austriaci, ai quali, cinque anni dopo, si affiderà nuovamente per tornare a Napoli dall'esilio a cui l'ha costretto il movimento costituzionale del 1820-21. Ma l'appoggio degli austriaci si rivela assai costoso. In dieci anni, per indennizzarli delle spese sostenute e per mantenerne un corpo di occupazione che non lascerà il Mezzogiorno prima del 1827, le finanze pubbliche spenderanno oltre ottanta milioni di ducati. Una enormità, ove si pensi che l'insieme delle entrate statali si aggirava mediamente intorno ai venti milioni l'anno. Messo di fronte a simili urgenze, il governo napoletano fa le sue scelte: esclude la strada di un taglio sostanzioso delle spese e decide piuttosto, per un verso, di mantenere alta la pressione fiscale sulle campagne, e, per l'altro verso, di pagare i propri debiti contraendo altri debiti. Ma il costo di una simile operazione si rivela piuttosto elevato. L'imposta fondiaria, in una fase di prezzi agricoli bassi, diventa molto gravosa e taglia le gambe ad ogni ipotesi di sviluppo economico delle aziende rurali. Inoltre, i continui prestiti, che servono a pagare puntualmente alla loro scadenza le rate delle innumerevoli pendenze statali, vengono ottenuti dal governo concedendo alti (talvolta altissimi) tassi di interesse e dando in garanzia le stesse rendite pubbliche, ovvero, come si dice anche ai nostri giorni, privatizzando pezzi di Stato.
Pagare i debiti con altri debiti significa innescare un circuito di interessi crescenti in funzione esponenziale. Ai creditori, inoltre, che per lo più sono mercanti-finanzieri napoletani, ma anche stranieri, Luigi de' Medici concede importanti facilitazioni doganali, che permetteranno loro di organizzare un cospicuo flusso di importazioni marittime nel regno (manufatti) e, tornando le navi ai porti di origine, un altrettanto intenso commercio di esportazione di derrate agricole meridionali. Fra alti interessi strappati allo Stato e sovrapprofitti commerciali, dunque, i loro affari vanno a gonfie vele.
Una politica del genere, sostiene Ostuni, al termine di un ragionamento serrato, finisce per consegnare il Regno delle Due Sicilie nelle mani della finanza internazionale, compromette le prospettive di sviluppo economico del Mezzogiorno e in modo particolare della sua agricoltura, permette piuttosto una forte accumulazione di capitali da parte di un ceto mercantile-finanziario destinato a far sentire il proprio peso anche in futuro, all'indomani del 1860, nella società meridionale.
Dei limiti di una politica economica che saldava, in una spirale viziosa, debiti e recessione, sembra accorgersi lo stesso de' Medici, il quale infine, nel 1825, imposterà i primi passi di una manovra tesa piuttosto a irrobustire l'economia "nazionale" (manifatture, agricoltura, pastorizia) e decisa a tagliare con più coraggio la spesa pubblica. Ma i guasti di una manovra puramente finanziaria, operata a scapito dell'economia reale, erano già fatti, e non sarebbe stato facile tornare indietro.

Quante Italie?

L'ultima miniera

Il vagoncino di carbone, verniciato di bianco, è sul piano di carico dell'ascensore, 819 metri sotto terra. Lo tirano su, fra striscioni, applausi, e forse anche qualche lacrima di rimpianto, umile monumento a un pezzo di storia del Belgio. Addio miniere: con la chiusura del pozzo di Zolder, condannato dalla fredda logica dei bilanci, finisce un'epopea di sudore e di sangue che nell'ultimo mezzo secolo ha anche coinvolto schiere di emigrati italiani e meridionali. Dopo l'abbandono delle miniere di Vallonia, avviato nel 1956, restavano solo e semplicemente quelle del Limburgo fiammingo; ma anch'esse, ad una ad una, sono state allagate e ridotte, nel piatto, uniforme paesaggio belga, a fantasmi di tralicci arrugginiti. Le grandi ruote degli ascensori sono ferme per sempre.
Minatori con le tute blu, i caschi con la lampada accesa, il fazzoletto bianco-rosso al collo hanno ripercorso in treno e in battello la "via del carbone": odiata, temuta, sofferta, ma anche mitizzata. La miniera resta un faro. Sarà a lungo nostalgia.
Fino a qualche mese fa, a Zolder, lavoravano ancora 380 italiani; poi, schiere di belgi, turchi, marocchini, spagnoli. Sotto terra, anneriti dal carbone, erano tutti uguali. Dopo che Zolder è diventata "De Laatste Mijn", l'ultima miniera, sono tra i più giovani pensionati dell'Europa del Nord. Rifanno i vecchi conti: quattromila franchi al giorno, 160 mila lire. Sveglia alle cinque, caffè, poi alla bocca della miniera. Maglietta nera, calze di lana, giacca e pantaloni di tela blu, scarponi con la punta d'acciaio. Alle 6, discesa. Due colpi di campana, gli ascensori in movimento. Un lungo tuffo, con l'angoscia dei vuoti d'aria nella corsa di un minuto e 57 secondi. Le orecchie ronzanti. Il caldo - trenta gradi, laggiù - soffocante.Ma è solo l'inizio di un lungo tragitto: per arrivare al fronte del carbone c'è il trenino. Sulla roccia, i graffiti che esaltano i meriti del sindacato e le grazie di magnifiche silfidi.
Poco meno di un'ora per raggiungere la taglia: una galleria di cinque metri di diametro, rinforzata con robusti archi di ferro. Ad intervalli, il controllo della presenza di gas. Allarme al due per cento, nella norma. Al sei per cento il grisù esplode. Ed è morte per le "gueules noires", per i musi neri. Dei quali resta in Belgio, ormai, solo il ricordo legato al carbone e all'industria pesante, fonte di potenza economica il cui tramonto si identifica con una profonda crisi del Paese: la morte del carbone si è tradotta in morte della siderurgia; in aree in cui occorrevano pozzi sempre più profondi, più difficili da raggiungere, più pericolosi.
Ancora oggi abitano nella Regione di Charleroi circa 130 mila dei 280 mila italiani residenti in Belgio, dodicimila di loro inoccupati, gli altri in particolare operai e commercianti. Fra le colline di detriti, dove oggi svettano gli scheletri delle torri, lavorarono negli anni eroici della nostra emigrazione fino a trentamila meridionali. Sono stati anche loro gli oscuri protagonisti della grande storia del carbone: i mitici uomini nelle viscere della terra che correvano il rischio di non rivedere più la luce del sole. Come a Marcinelle: i vetri ormai rotti, i muri sbrecciati, tragico fantasma di un dramma che il mondo non ha dimenticato, monumento ai 262 morti, 136 dei quali italiani, di quell'8 agosto 1956, quando il pozzo numero uno del Bois du Cazier prese fuoco. A 975 metri sotto il pelo dell'erba il rogo intrappolò i minatori. Solo dodici riuscirono a salvarsi. Fu l'inizio della fine per il carbone belga, che dopo quasi un secolo ha concluso la sua storia in un clima di grande kermesse attorno all'ultimo vagoncino dipinto di bianco: l'ultimo a viaggiare al centro della terra, dalla miniera che poi è morta.


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