§ Quante Italie? / Vecchi e nuovi razzismi

Se Lombroso aiuta i "lumbard"




Giovanni Russo



All'inizio del Novecento la scuola psichiatrica che faceva capo a Cesare Lombroso teorizzo con Alfredo Niceforo ed Enrico Ferri, in base a misurazioni craniche e ad altri criteri pseudoscientifici, l'inferiorità razziale degli italiani del Sud, che Garibaldi e Cavour si erano ostinati a unire agli italiani del Nord. Il giudizio, che aveva influenzato anche la cultura di sinistra, essendo questi scienziati positivisti e socialisti, sembrava essere stato superato e anzi riconosciuto privo di ogni serietà scientifica, oltre che di ogni dignità politica e culturale, dopo che numerosi studiosi l'avevano irriso e criticato e dopo che la scienza aveva dimostrato come simili teorie non avessero alcun fondamento.
Ecco perché il riaffiorare di giudizi razzistici sui meridionali dovrebbero far riflettere sul modo in cui in Italia storicamente si è analizzato il rapporto tra Nord e Sud e dovrebbe anche far comprendere che il pregiudizio di una presunta inferiorità non è mai venuto meno. Quando si leggono le filippiche di colleghi illustri, giornalisti e scrittori, che reputano i meridionali incapaci di affrontare i loro problemi e condannati, per le loro caratteristiche "etniche", a comportarsi necessariamente in un certo modo, viene spontaneo pensare a Lombroso. Purtroppo, la stampa italiana orinai pullula di "nipotini di Lombroso", alcuni dei quali molto autorevoli, che pure in altri campi mostrano equilibrio e serietà.
L'idea dell'inferiorità razziale dei meridionali, di cui il generale Farini scriveva a Cavour, dicendo di avere trovato (lei barbari e che il Sud altro non era che Africa, non è mai scomparsa nell'inconscio collettivo dei settentrionali ed è un'idea tanto più pericolosa in quanto a essa tende a contrapporsi un sudismo intriso di "nostalgia borbonica" che i meridionali, che si ispirano alle idee del Risorgimento e dell'Unità, hanno sempre combattuto. Di fronte all'atteggiamento razzistico che emerge nella protesta leghista e in tante prese di posizione della stampa del Nord (la proposta di militarizzare l'Italia meridionale e la presentazione del Mezzogiorno come dedito prevalentemente al crimine organizzato), nel Sud si diffonde una nostalgia "neoborbonica", una reazione tipica di quella borghesia meridionale che è stata sempre altalenante tra il complesso di inferiorità nei confronti dei settentrionali e il rimpianto per un regno che non brillava certo né per la civiltà né per il progresso, ma piuttosto per l'oscurantismo e l'arretratezza.
Il contributo principale a superare questi pregiudizi fu invece dato proprio da quegli intellettuali meridionali, da De Sanctis a Settembrini, da Petruccelli della Gattina ai fratelli Spaventa e tanti altri che, emigrando a Torino e legandosi agli intellettuali toscani, fecero parte di quell'élite che ebbe tiri ruolo determinante nella costruzione dell'Italia unita.
Purtroppo la grande stampa italiana tratta quasi sempre i problemi del Sud con superficialità e si rifiuta di ricordare che chi da anni denunciava il pericolo che le divisioni e le contrapposizioni tra Nord e Sud si potessero accentuare, veniva considerato una scomoda Cassandra.
I "nipotini di Lombroso", invece di riflettere sulle ragioni profonde dei mali del Mezzogiorno, hanno preferito intonare filippiche e muovere accuse, generando l'impressione che il termine "meridionale" ormai si identifichi con la criminalità, il malaffare, la corruzione.
Le ragioni profonde di questo sono: la nascita di quel nuovo blocco sociale di cui ha parlato la Svimez nel suo rapporto sull'economia meridionale del 1990, quel "nuovo feudalesimo" rappresentato dal progressivo svuotamento dei centri del potere pubblico e dalla creazione di altri centri di potere formati da politici locali e nazionali, amministratori e imprenditori anche del Nord e, talvolta esplicitamente dalla criminalità organizzata. I fattori del degrado sono l'industrializzazione senza sviluppo, il clientelismo delle amministrazioni locali, il "blocco sociale" che porta avanti il sistema delle concessioni di opere pubbliche e l'uso distorto delle risorse pubbliche.
Un milione e più di cittadini hanno firmato un referendum che si propone di abrogare gran parte dell'intervento straordinario nel mezzogiorno. Al di là della richiesta specifica, quel milione e più di cittadini sembra abbiano individuato nel modo in cui lo Stato è presente nel Mezzogiorno una delle principali occasioni di sperpero del denaro pubblico, di inquinamento criminale e una delle più ghiotte opportunità offerte ai partiti per tenere sotto stretto controllo il Sud d'Italia.
A favore e contro questo referendum sono state spese molte parole e tante altre ne verranno spese di qui al momento del voto. Ma, a prescindere dalla giustezza o meno di esso e anche dalle motivazioni che hanno spinto tanta gente ad aderirvi, resta un problema di fondo.
Alla politica condotta in questi quarant'anni e più per il Mezzogiorno viene addebitato di non aver centrato il suo obiettivo che era quello di attenuare il divario tra il Nord e il Sud del Paese e, anzi, i aver provocato altre e più preoccupanti storture che hanno avuto come effetto quello di allargare il fossato non solo per il reddito, per la quantità di beni prodotti, per il numero delle aziende insediate, per il tasso di disoccupazione, ma per tutto ciò che riguarda il tessuto civile, la stessa qualità della vita.
L'insofferenza che c'è nel Nord nasce dall'impressione che il Mezzogiorno viva solo di assistenza e sfruttamento. Le cose non stanno esattamente così. Lo diciamo non per giustificare un ceto politico meridionale che non è più corrotto di quello del Nord, come dimostrano le cronache degli scandali in Liguria, in Piemonte, nel Veneto e quelle delle tangenti a Milano, ma perché le tesi oggi prevalenti favoriscono la disgregazione sociale auspicata da chi pensa, come le Leghe, che sia meglio fare l'Italia in tre.


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