Quante
Italie? / Etnie e Vecchio Continente
L'Europa scopre
mille frontiere
Una terra, una
lingua, una fede. Da Vilnius a Zagabria, da Skopje a Bratislava, da
Pristina a Kiev, da Budapest a Timisoara, l'Europa centro-orientale
e balcanica liberatasi dal comunismo riscopre la sua storia per organizzarsi
un futuro. I gruppi nazionali, orfani del marxismo, ricostruiscono
la propria identità sui versanti dell'etnia, della lingua,
della religione. Ma quasi dovunque si imbattono nelle frontiere che
il più delle volte non hanno scelto ma subìto.
Turchi e austriaci, russi e prussiani, angloamericani e sovietici
sembra si siano divertiti, nel corso dei secoli, a modificare i confini
di regni e principati, province e sangiaccati di questa metà
d'Europa.
Adesso, secondo i princìpi stabiliti a Helsinki, a Madrid e
a Vienna, che garantiscono l'inviolabilità delle frontiere
ma non la loro immodificabilità, che sanciscono il diritto
dell'autodeterminazione dei popoli e il rispetto delle minoranze,
la carta di questa vasta regione compresa tra il Mar Baltico, il Mare
Adriatico e il Mar Nero, è di nuovo in subbuglio. Sei nuovi
Stati sono sorti nel giro di due anni e sono entrati a far parte dell'Onu:
i tre baltici, la Croazia, la Slovenia e la Bosnia. La Bielorussia
e l'Ucraina ne facevano già parte.
La Macedonia - o come si chiamerà - è nella lista d'attesa
per il riconoscimento. Boemia e Slovacchia, rimaste distanti sul piano
socio-economico, sembrano decise a separarsi.
Spento l'occhio del "Grande Fratello" moscovita, i toni
si sono improvvisamente accesi. Milosevic afferma che "dove c'è
un cimitero serbo, quella terra è serba". Il leader nazionalista,
ex comunista, slovacco Meciar, benché su cinque milioni di
abitanti oltre 600 mila siano ungheresi, proclama "una sola lingua
per la nazione slovacca", facendo sussultare Budapest che fino
al 1918 amministrava con mano pesante quella regione. E quando, nel
marzo 1990, a Tirgu-Mures, nella Transilvania rumena dove vive una
forte minoranza ungherese, gli scontri etnici fecero tre morti, l'una
e l'altra parte parlarono di pogrom.
Il post-comunismo, in questa parte del mondo, delusa dalla mancata
metamorfosi della libertà in benessere, vira verso il nazionalismo
tradizionale: separatismo per i più deboli, rivendicazioni
per i più forti, espulsioni e insediamenti, modificazione di
frontiere, alleanze e controalleanze.
Uno sguardo alla carta tracciata dal geografo francese Michel Foucher,
che riproduce le frontiere che sono state disegnate nell'Europa moderna,
mostra il tormento di queste terre. I confini terrestri si sviluppano
per 26.281 chilometri, ma di questi ben 14 mila sono stati definiti
tra il 1910 e il 1949 e riguardano in massima parte i territori dell'Europa
centro-orientale e balcanica: escluse Grecia e Finlandia, tutti i
Paesi dell'ex blocco sovietico che fino a poco più di tre anni
fa era separato dall'Occidente dalla cortina di ferro, la più
lunga frontiera europea: 7.056 chilometri, compresi i 1.458 tra le
due Germanie.
Frontiere recenti, dunque frontiere instabili, scaturite da eventi
che, sul piano storico, non sono stati ancora del tutto digeriti:
la dissoluzione dell'impero austro-ungarico e di quello turco, l'effimero
"ordine nuovo" hitleriano, i compromessi di Yalta e di Potsdam.
Confini tracciati di volta in volta per premiare i vincitori e punire
i vinti, per assicurarsi vantaggi economici o più spesso strategici
nell'era pre-atomica e premissilistica. Tracciati che quasi sempre
hanno spezzato comunità Limane omogenee per razza, lingua e
religione, pietrificandone i ricordi dei soprusi o dell'antica grandezza,
alimentando rancore e desiderio di rivincita.
La "pax sovietica", durata quarantacinque anni, aveva congelato
i conflitti interetnici e tra gli Stati dell'Europa centro-orientale
e balcanica che ora esplodono con la sua scomparsa. La competizione
politica, la crisi economica, la ricerca di una identità soffocata
per mezzo secolo dalla legge plumbea dell'"internazionalismo
proletario" (tipo Budapest '56 e Praga '68) cospirano per nuovi
conflitti e nuove frontiere. Scriveva infatti il geografo tedesco
Ratzel alla fine del secolo scorso: "Fare la guerra è
spostare la propria frontiera sul territorio altrui".
Elencando i luoghi di conflitti potenziali, è possibile immaginare
quali frontiere potrebbero modificarsi in modo pacifico o violento.
Frontiere baltiche:
L'indipendenza di Lituania, Estonia e Lettonia ha creato l'enclave
di Kaliningrad, appartenente alla Russia, ma rivendicata da Lituania
e Polonia, mentre la Germania vorrebbe favorirvi la creazione di una
zona franca. Se non si verificherà quest'ultima ipotesi, il
territorio potrebbe venire diviso tra Polonia e Lituania. Quest'ultima
ha però un contenzioso con la Bielorussia, che potrebbe concludersi
con uno scambio di territori.
Frontiera interna
cecoslovacca. L'opposizione tra la Boemia, laica, progressista e liberale,
e la Slovacchia, tradizionalista, burocratica e separatista, è
antica e sembra dover sfociare in una separazione consensuale. La
Boemia verrebbe attratta nell'area della Germania unificata, la Slovacchia
nell'area austriaca, con proiezioni verso la Polonia e la Croazia.
I tedeschi in Boemia sono ridotti a circa 60 mila. In Slovacchia,
invece, ci sono più di 600 mila ungheresi che si sentivano
protetti dall'amministrazione centrale di Praga, ma temono il separatismo
slovacco e l'egemonia di Bratislava. Il confine tra una Slovacchia
indipendente e l'Ungheria potrebbe surriscaldarsi.
Frontiera ungaro-serba.
La minoranza ungherese (circa 400 mila persone), che vive nella Voivodina
serba, già in parte è emigrata in Ungheria. Budapest
ha ricordato che i suoi confini vennero stabiliti con la Federazione
jugoslava e non con la Serbia. Un indebolimento di Belgrado potrebbe
favorire il revisionismo ungherese.
Frontiera ungaro-rumena.
Il contenzioso storico riguarda la Transilvania, e nel 1990 dette
luogo agli incidenti di Tirgu-Mures. Il miglioramento economico dell'Ungheria
e la stagnazione rumena potrebbero favorire tra gli ungheresi di Transilvania,
circa un milione e mezzo, prevalentemente concentrati nelle città,
una spinta per la riunificazione di tutti i magiari in un unico Stato.
Frontiera ucraino-rumena.
Il territorio conteso è quello della Moldavia, annessa all'Urss
e ora all'Ucraina. I moldavi sono tuttavia incerti tra l'ipotesi di
un ritorno alla Romania, che offre poche attrattive, e la formazione
di un'entità indipendente, Kiev permettendo.
Frontiera bulgaro-rumena.
Quasi ermeticamente chiusa, nella parte terminale del Danubio, dove
fra l'altro vive una forte minoranza turca. Il governo rumeno ha spesso
accusato quello di Sofia di aver causato il grave inquinamento del
fiume.
Frontiera bulgaro-jugoslava.
A parte una minoranza bulgara che vive in Serbia, il pomo della discordia
tra i due Paesi è rappresentato dalla Macedonia, che si è
proclamata indipendente ma è povera e quasi disarmata: ritirandosi
da quel territorio, l'esercito federale jugoslavo ha portato con sé
tutte le armi importanti. E' una frontiera potenzialmente caldissima
e il suo futuro dipenderà in massima parte dal destino finale
della Jugoslavia, poiché i bulgari non hanno dimenticato i
giorni della Grande Bulgaria. Sulla questione macedone sono però
d'accordo con la Grecia nel contenere la spinta autonomistica.
Frontiera greco-bulgara.
Confine tormentato da numerose guerre e disegnato per rispondere ad
esigenze strategiche. Una minoranza macedone, cui Sofia come Atene
non vuole riconoscere autonomia, porta i due Paesi ad avvicinarsi
per far fronte al nuovo dinamismo della Turchia.
Frontiera turco-bulgara.
Sebbene in Bulgaria viva una forte minoranza turca, ridottasi negli
ultimi tempi per volontà (persecutrice) di Sofia da 900 a 500
mila persone, e sebbene Ankara si senta impegnata a proteggerla, i
due Paesi sono interessati a mantenere buoni rapporti e la frontiera
aperta, per non pregiudicare il traffico commerciale tra l'Europa
e l'Asia minore da cui entrambi traggono vantaggio.
Frontiere albanesi.
L'Albania guarda a Kosovo, provincia serba, la CUI Popolazione è
in maggioranza albanese e musulmana, ma guarda anche alla minoranza
albanese che vive in Macedonia. E' sicuramente una frontiera calda,
cui sono interessate direttamente Serbia e Grecia, e, indirettamente,
la Bulgaria.
Frontiere interne
jugoslave. Sono la chiave di tutti i possibili rivolgimenti dei Balcani.
L'indipendenza della Croazia e la proclamazione della Repubblica federativa
di Serbia e Montenegro lasciano intendere la volontà di arrivare
a una spartizione della Bosnia, a spese della comunità musulmana,
in modo da formare una quasi Grande-Croazia e una quasi Grande-Serbia.
Il quadro complessivo è potenzialmente esplosivo. Finora le
tensioni sono state interne (Jugoslavia e Cecoslovacchia), ma il problema
delle minoranze è entrato nei discorsi politici, anticamera
delle prese di posizione tra governi. I Paesi più poveri (Romania,
Bulgaria, Macedonia, Bosnia) sono quelli maggiormente esposti al pericolo.
Intorno ad essi si agita il dinamismo turco e ucraino, cui potrebbe
aggiungersi quello ungherese. In ogni caso, si delinea una frattura
fra l'arca cattolica, a nord, dove la caduta dei regimi comunisti
è avvenuta dal basso (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Slovenia
e Croazia), maggiormente attratta verso la Germania e in genere verso
l'Europa occidentale, e l'arca ortodossa (Serbia, Romania, Bulgaria),
dove il mutamento di regime è avvenuto dall'alto e lo sviluppo
economico sembra più lontano.
E' in questa seconda area che si addensano le rivendicazioni, che
proprio l'assenza di sviluppo potrebbe esasperare, specie se venisse
lasciata a se stessa. Sicuramente, alla tranquillità di questa
parte dell'Europa non giovano le tensioni separatiste europee (Corsica,
Paesi Baschi, Ulster, contenzioso vallone-fiammingo, secessionismi
italiani e altri fantasmi del genere).
Quante Italie?
Padania nazione?
Poiché
partiti e istituzioni non sembra abbiano capito fino in fondo quel
che sta accadendo in Piemonte, in Lombardia e nel Veneto, è
giusto che intervengano uomini, fondazioni, clubs. E', in fondo, una
delle supplenze, numerose, alle quali deve far fronte un Paese come
l'Italia, che attraversa uno dei momenti più difficili della
propria storia. Per questo, la Fondazione Agnelli, ha parlato di "Padania
'93": per misurare la profondità della faglia che si sta
aprendo tra l'Italia del nord e il resto della penisola. D'altro canto,
dopo una serie impressionante di radiografie, censimenti, confronti,
inventari e tavole rotonde, si può dire almeno questo: che
il fossato è ben visibile e abbastanza profondo, e che, non
vedendolo, o non prendendone atto per le necessarie contromisure,
i nostri politici rischiano di caderci dentro a corpo libero.
Il teorico della "Padania" è il professor Miglio:
il quale ha usato i dati econometrici sulle comunicazioni viarie,
le riflessioni geografiche, insomma l'ossatura dell'identikit padano
per tracciare il ritratto spirituale di una nazione allo stato nascente.
Miglio ha fissato la sua rotta con grande determinazione; e si muove
ormai dritto come un fuso tra due fiacche zone di bonaccia: la nazione
e l'Europa, realtà o prospettive che sembrano indebolirsi.
Ora la Lega parla di federalismo, di macro-regioni, di Alpi da traforare
come cera per farci passare il filo che deve unirci all'Europa. Ma
intende cose diverse. Sotto il termine "federalismo" c'è
infatti il proposito, neppure mascherato, della secessione. E sotto
la parola "Europa" non c'è la Comunità europea,
ma la Germania, o meglio, la Mitteleuropa, il nuovo impero tedesco,
non più militare ma economico, politico, culturale, bancario,
tecnologico, monetario e anche sentimentale; un'area vastissima che
sta tra il Reno e il Dniepr e tra l'Adriatico e il Baltico, ormai
centrata solo su se stessa e solo marginalmente coinvolta dai piani
di Bruxelles, Maastricht inclusa. Sicché per i leghisti è
perfettamente inutile attribuire alla Padania la funzione di traino
dell'intera comunità nazionale; ed è altrettanto inutile,
per loro, avanzare la sottile obiezione che per legittimare una macro-regione
come la Padania occorre trovare, nel resto della penisola, altre unità
equivalenti.
Di queste distinzioni la Lega non sa che farsene. Non traino intende
Miglio, ma taglio; non ripartizioni equilibrate, ma separazione; non
giusta collocazione fra il federalismo nazionale e quello europeo,
ma evasione dall'Italia, cioè abbandono al Mediterraneo della
nazione (o di quel che resta) e aggiramento della Cee e dell'Occidente
verso Est e verso Nord; e, infine, non coordinamento Stato-regioni
o altri stratagemmi istituzionali, ma il rullo dei tamburi che annunci
la nascita dello Stato Padano.
Non bisogna scaraventare il progetto della Lega nel mucchio delle
crisi di identità europee, a mezza strada tra Jugoslavia e
Cecoslovacchia. C'è, ed è vero, un po' dappertutto,
qualcosa che scompiglia, che divide e fa saltare all'aria disordinatamente
Stati, unioni e federazioni; una misteriosa cerniera-lampo che si
apre e si chiude a capriccio. Ma è difficile dire che cosa
sia questa furia di sartoria che taglia e cuce nuove confezioni nazionali
un po' dovunque. Da una parte ci sono di sicuro suggestioni arcaiche
e miti etnologici che spuntano da sotto la storia. Però dall'altra
è visibile una singolare ricerca di affinità elettive
nell'ordine econometrico, la volontà occulta di associare il
forte con il forte, l'industriale con l'industriale, il debole con
il debole, l'agricolo con l'agricolo, quasi si dovessero comporre
treni di sole locomotive e treni di soli vagoni, in modo da far nascere
strane nazioni sociologiche o professionali, nazioni in movimento
e nazioni immobili, nazioni di contadini, nazioni di fabbri, nazioni
di executive o nazioni di disoccupati.
Qualcosa del genere si profila in Cecoslovacchia. E si può
capire perché. Dopo settant'anni di choc rivoluzionario, la
cultura di oggi oscilla e sbanda tra storia e geografia, tra economia
e mitologia, cercando le soluzioni secondo due opposte direttrici:
o tutto nel passato, il più lontano possibile e comunque selezionato
secondo i capricci del momento; o tutto nel presente, il più
vicino, concentrato, puntiforme e condensato nell'attimo fuggente
dei dati statistici o nella dinamica delle tendenze o, come si dice,
dei trend, (anche qui oscillando, senza decidersi, tra le opzioni
per complementarità e quelle per affinità). Di fatto,
però, le unioni politiche e dunque anche le nazioni, nascono
e vivono a cavallo tra il passato e il presente, negli interstizi
tra la geografia e la storia, tra la cultura e l'economia, per imprevedibili
mescolanze di dati tecnici e mitologici. Sono sempre interdisciplinari
e in equilibrio tra la razionalità delle istituzioni e qualcosa
che non è razionale e non può essere schiacciato sulla
pura ingegneria della ragione.
Lo sfondo sul quale si collocano Miglio e le Leghe è un po'
questo.
Ma l'Italia non è la Cecoslovacchia e non è la Jugoslavia.
E' una delle grandi nazioni europee, con un'identità culturale
antichissima e una unità politica e istituzionale recente,
fragile, mal riuscita. Bisogna allora cercare di capire che cosa abbia
regalato a questo Paese anomalo la curiosa eccentricità di
un movimento di destra antinazionale, l'unico movimento antinazionale
tra gli innumerevoli che cavalcano in questo momento i livori della
destra europea. E la risposta non è introvabile. Il fascismo
in fondo ha squalificato il sentimento nazionale. Ma lo sviluppo del
dopoguerra, controllato da un sistema politico incerto e debole (esposto
prima alla minaccia di un rovesciamento di fronte per la presenza
del più forte partito comunista d'Occidente, poi alle seduzioni
corruttrici del consociativismo), ha squalificato la nazione, perché
ne ha fatto degenerare una buona metà.
Le Leghe nascono da un moto di repulsione. E la repulsione nasce da
una constatazione. L'Italia meridionale non è più da
tempo una parte arretrata, ma purtroppo una parte degenerata del Paese.
Sarebbe troppo chiedere a Bossi, e anche a Miglio, di ricostruire
le cause di questa degenerazione, che ha senza dubbio la sua origine
nel bisogno anche dell'economia settentrionale di sostenere con ogni
mezzo la domanda di consumo del Sud per alimentare il mercato interno.
Le vicissitudini dello sviluppo postbellico hanno depauperato l'agricoltura
meridionale. La mafia ha tolto al Mezzogiorno (forse per sempre) la
prospettiva del turismo. L'industria, fra centri siderurgici falliti
e mostri chimici paralitici, non vi ha messo radici salde. Che cosa
restava, per sostenere il mercato, se non i finanziamenti pubblici
chiesti a gran voce dal "meridionalismo piagnone", e il
valore aggiunto della droga? Che cosa restava, s'intende, fino a ieri?
Perché oggi, con la concorrenza internazionale e l'emergenza
dell'ordine pubblico, i costi non possono più essere pagati.
E dunque si taglia la parte marcia. E' più comodo, rapido,
sbrigativo.
Ma per tagliare bene e fino in fondo, Miglio non esita a incrociare
le attrazioni econometriche con la suggestione dei simboli (nei quali,
a ben vedere, riemerge una vecchia vocazione "austriacante"),
le idrovie padane con la vecchia e buona cultura asburgica, l'alta
velocità ferroviaria con il Drang nach östen. Le sue vele
tecnologiche sono gonfiate da un forte vento emotivo che le tiene
ben tese, al confronto col fragile vento dell'ingegneria costituzionale
degli altri.
Quante Italie? / La classe dirigente del Sud
L'èlite
mancata
Uno dei motivi
dell'attuale impoverimento della classe politica del nostro Paese
è da ricercare, per un verso, nella caduta - in questa stagione
di grandi egoismi - del richiamo ideale e della militanza; e, per
un altro, nei metodi di selezione che si sono andati affermando specialmente
negli ultimi decenni.
Si faccia caso. I metodi di selezione non differiscono molto tra partito
e partito, neanche tra Leghe e partiti, e neppure tra Nord e Sud.
Uno sguardo veloce ai comportamenti, un po' rozzi, tenuti negli ultimi
tempi in Parlamento dai rappresentanti della Lega non fa che confermare
questa tendenza. La diversità non sta dunque nel metodo, ma
nella società nella quale avviene la selezione. Nel Sud - malgrado
le mille assimilazioni di superficie, dagli stili di vita ai consumi
-la selezione avviene in condizioni ambientali del tutto differenti
da quelle del Nord, dove la trasformazione del territorio è
stata graduale, con ritmi giusti e passaggi obbligati. Il volto del
Mezzogiorno è invece mutato in un contesto di anarchia, di
trasgressione e di violenza fibrillante.
La prima fase di tale trasformazione del Sud è stata quella
dell'emigrazione selvaggia. L'esodo forzato iniziato all'indomani
dell'Unità d'Italia ha assunto, nel dopoguerra, proporzioni
gigantesche. Milioni di persone si sono mosse alla ricerca di un luogo
più fortunato dove impiegare le braccia e l'intelligenza. Lo
strappo è stato feroce; non soltanto sotto l'aspetto della
sofferenza collettiva, ma anche sotto quello del depauperamento culturale
del territorio. La classe politica meridionale emersa a partire dal
dopoguerra risente, pertanto, di questo coatto restringimento della
possibilità di selezione. Paradossalmente, poi, quei correttivi
strutturali (in primo luogo la Cassa per il Mezzogiorno) realizzati
dai primi governi della Repubblica per fronteggiare il fenomeno dell'abbandono
del Sud, espressione di una sorta di rimorso dello Stato, hanno arrecato
benefici materiali al territorio, ma anche qualche svantaggio che
il tempo si è incaricato di esaltare.
Solo chi non ricorda il Sud rurale del dopoguerra può disconoscere
la portata del mutamento avvenuto. Il livello di vita si è
alzato notevolmente e l'accesso delle popolazioni meridionali ai consumi
di massa si è concretizzato velocemente. Ma i costi sono stati
alti.
Il Mezzogiorno ha subito un'impressionante perdita di identità
e di valori. Prima lo sradicamento di quelle plebi disperate e, poi,
l'importazione repentina di nuovi modelli di vita, trasmessi attraverso
i mass media, hanno agito come un bombardamento su un territorio mite
(per quanto incredibile oggi possa apparire, il Sud era generalmente
mite) che viveva immerso nei suoi silenzi, su equilibri delicati,
non scalfiti da secoli.
In questo clima di trasformazione incontrollata si è andata
via via affermando una nuova classe politica. E' scomparso quel ceto
di professionisti, artigiani, commercianti che, prestato alla politica,
viveva del suo ed era tradizionalmente portato alla difesa del proprio
territorio. Il posto è stato occupato da altro ceto politico,
venuto fuori con forza dagli apparati di partito, portato ai dibattiti
interminabili su problemi lontani e poco incline ad affrontare quelli
vicini. E' emersa dunque una classe politica "in carriera",
che si potrebbe descrivere con le parole di Weber: "Vive della
politica, non per la politica". Una classe priva di saperi specifici,
ma abile a miscelare con disinvoltura bisogni e modernità.
Incapace di ascoltare, come invece era abituato a fare, magari con
paternalismo, il vecchio "notabilato", ma adusa alla veloce
mediazione su ogni cosa, dal documento sull'Afghanistan da far passare
con Voto Unanime in consiglio comunale, al più impegnativo
finanziamento della Cassa per il Mezzogiorno.
Per il leader politico che si afferma a Roma quella di controllare
il proprio collegio, spesso sterminato, è una delle esigenze
principali. E per far ciò ha appunto bisogno, fra le altre
cose, di una classe dirigente locale che aggiunga all'arte della mediazione
di cui si è detto anche un'altra capacità, una virtù
che nel Sud ha radici antiche: la fedeltà. Ora, la fedeltà,
che in alcuni sodalizi umani ha un'importanza capitale, alle soglie
del Duemila, in una società moderna in sviluppo, rischia di
essere una sorta di islamismo inconsulto.
Questo metodo di selezione della classe politica, infine, diventa
ancor più colpevole se si considera che oggi nel Sud esiste
una più ampia possibilità di scelta rispetto al passato.
Si registra perciò una strana situazione. Un tempo, quando
i partiti esercitavano un'attrazione perché nell'Italia uscita
dalla guerra erano il riferimento principale per chi intendesse partecipare
alla vita democratica, il livello medio di cultura era basso e l'emigrazione
delle intelligenze impoveriva la partecipazione. Oggi, invece, con
un livello di cultura più alto e un forte, anche se inespresso,
desiderio di partecipazione (si guardi al volontariato cattolico),
i partiti appaiono fortilizi inespugnabili.
Sta qui il vero nodo del Mezzogiorno. Girare intorno ad altre questioni
può anche essere importante, ma non sarà mai decisivo
quanto recidere quel nodo.
E' stato spesso osservato come la puntualizzazione della "questione
meridionale" sul problema della classe dirigente resta senz'altro
un grande merito di Guido Dorso: come un suo titolo ad apparire con
qualche rilievo nella storia del pensiero politico dell'Italia contemporanea;
ma che l'idea di Dorso al riguardo della soluzione di quel problema
pecca per lo meno di ingenuità.
Dorso vedeva, in effetti, come protagonista della "rivoluzione
meridionale" da lui auspicata "un'élite anche poco
numerosa, ma che abbia idee chiare". Le "idee chiare"
dovevano derivare da una percezione della natura autentica che il
problema del1'arretratezza meridionale ormai storicamente aveva assunto.
Dorso non ne faceva carico esclusivamente allo Stato unitario italiano
uscito dal Risorgimento. Vedeva, però, nella struttura accentrata
di questo Stato e nei rapporti politici stabilitisi tra le sue varie
parti una ragione decisiva della permanenza del Mezzogiorno in una
condizione arretrata. Bisognava quindi scardinare la struttura unitaria
accentrata dello Stato monarchico-risorgimentale. Una larghissima
autonomia politico-amministrativa del Sud e l'assunzione delle massime
responsabilità in questo quadro autonomistico da parte dell'élite
a cui pensava apparivano perciò a Dorso come le due componenti
di una possibile "rivoluzione meridionale". Rivoluzione,
naturalmente, non nel senso di movimento insurrezionale armato, bensì
nel senso di trasformazione radicale, di profonda riforma della vita
politica e sociale dell'Italia e del Sud. Ma da dove sarebbe uscita
fuori l'élite necessaria alla rivoluzione?
Dorso non aveva dubbi: dalla "borghesia umanistica" del
Mezzogiorno, vale a dire dalla classe sociale più criticata
(si pensi a Salvemini) e dagli studiosi di politica e di sociologia
meridionale. E' vero -pensava Dorso - che questa classe è stata
il costante sostegno della struttura feudale, prima, e del blocco
agrario, poi, dominante nel Sud e principale avversario di ogni trasformazione
e riforma meridionalistica. Ma i rapporti tra borghesia umanistica
e classi dominanti non gli apparivano organici e inalterabili. Quella
borghesia poteva staccarsi dalle alleanze che storicamente aveva praticato
ed esprimere essa, che ne aveva la capacità culturale e tecnica,
la forza richiesta dalla "rivoluzione meridionale". E ciò
tanto più, in quanto l'élite a cui pensava non doveva
essere un gruppo particolarmente numeroso: sarebbero bastati, a suo
avviso, "cento uomini di ferro".
Come una simile élite avrebbe potuto maturare? La risposta
di Dorso a questo più che legittimo interrogativo può
apparire sorprendente. La formazione di una classe dirigente gli appariva,
infatti, come "un mistero". Ma questa risposta può
essere meno sorprendente di quanto appaia di primo acchito se per
"mistero" si debba intendere un moto di riforma interiore,
una grande spinta etico-politica: ossia, un tipo di fenomeno storico
che trae origine da forti impulsi morali e da altrettanto forti proiezioni
della volontà. Il "mistero" starebbe, dunque, tutto
nel fatto che questi processi non possono essere pianificati o previsti
razionalmente, perché sono il frutto di maturazioni spontanee
o di slanci creativi, che possono essere solo constatati quando si
sono prodotti.
Bisogna tener presente tutto ciò quando si critica l'idea della
"rivoluzione meridionale" come problema di sola classe dirigente.
E ancor più bisogna tenerlo presente quando si trova peregrina
e utopistica l'idea dei "cento uomini", sia pure "di
ferro". Diciamo piuttosto che la vera idea di Dorso stava in
una concezione della "rivoluzione'' come grande primavera dello
spirito, come rinnovamento intimo che mettesse capo a un uomo nuovo,
come sussulto propagato a tutta la superficie dallo scuotersi degli
strati profondi della società, come esplosione di una intensa
carica ed energia morale. Da questo evento misterioso poteva ben emergere
un gruppo in grado di assumere in maniera quasi missionaria la direzione
del movimento che doveva realizzare la trasformazione del Mezzogiorno
in un grande paese moderno, e cioè in una grande società
occidentale.
Utopia? Certamente, per alcuni aspetti. Carenza di realismo? Anche,
per altri aspetti. Ma quanto realismo in una utopia che centrava il
discorso del rinnovamento sul problema della classe dirigente e che
faceva del rinnovamento un problema di spirito e di volontà!
"Cento uomini" è una determinazione numerica volutamente
approssimativa. Serve per dire che anche piccoli gruppi, se prodotti
dal "mistero" che dà luogo alla formazione di una
classe dirigente, potevano essere la guida autorevole sufficiente
di un movimento di massa. Dovevano avere, aggiungeva Dorso, anche
"idee chiare"; e anche questa indicazione deve essere colta
in tutto il suo spessore. Come a dire che, accanto al rinnovamento
come spinta etico-politica e come spirito e volontà di trasformazione,
si richiedeva la cultura del rinnovamento: chiarezza di programmi,
di strategie, di obiettivi.
Vorremmo chiedere: che cosa c'è in tutto ciò che non
sia attuale ancora oggi, così come lo era una settantina di
anni fa, quando Dorso ne parlava? Certamente, infinite cose sono cambiate
da allora, e anche il Mezzogiorno non è più lo stesso
e presenta un quadro molto diverso, fatto di problemi vecchi e nuovi.
Ma il problema della trasformazione resta quello di un rinnovamento
dello spirito e della volontà innanzitutto del Mezzogiorno,
in relazione alla sua vita politica e civile. Resta la necessità
di una cultura del rinnovamento, che ne individui con la chiarezza
auspicata da Dorso i programmi e le strategie, oltre che le finalità.
Ma resta, soprattutto, il problema delle guide, della classe dirigente.
Ora è diventato un problema nazionale; non è più
un problema soprattutto del Mezzogiorno. Nel Sud ne sono, però,
ben più gravi e consistenti le dimensioni qualitative e materiali.
Se, anzi, c'è un dato certo, indiscutibile della "questione
meridionale" così come si ripropone oggi, è proprio
il problema della sua classe dirigente, della qualità (ormai
in ogni senso) delle persone che ne reggono (come suol dirsi) le sorti.
Si può persino dire che da un problema di grande riflessione
politica e storica siamo passati a un problema di cronaca quotidiana.
Oggi, forse ancor più che ai tempi di Dorso, il Mezzogiorno
ha bisogno di quei "cento uomini", e la strada indicata
da lui resta un passaggio obbligato.
Quante Italie? / Il malessere politico del Nord
Sul filo del
divorzio
Se il voto filo-leghista
dimostrasse che sta nascendo in Italia una grande forza politica,
con idee chiare, progetti coerenti e volti nuovi, nessuno avrebbe
il diritto di dolersene. Federalisti o unitari, dirigisti o liberisti,
fautori di questa o di quella riforma elettorale, dovremmo tutti ringraziare
il cielo che la società politica è capace di rinnovarsi.
La democrazia non è un "circolo dei nobili" in cui
si entra soltanto per cooptazione. Se vi è da qualche parte
in Italia una nuova classe politica, desiderosa di candidarsi alla
sua direzione, si faccia avanti. Se i leghisti hanno voglia di governare
e un progetto politico per il futuro del Paese, nessuno ha il diritto
di storcere il naso e rispondere altezzosamente che le stanze del
Palazzo sono tutte occupate.
Non siamo sicuri che le cose stiano in questi termini. A giudicare
dalle contraddittorie dichiarazioni di Bossi e dal livello politico
del dibattito suscitato dai suoi fedeli, la Lega non ha né
un progetto coerente né una classe dirigente. E' ancora nello
stadio in cui la politica non viene "parlata", ma urlata,
gridata, brontolata, gesticolata. Imparerà, prima o dopo, ma
per ora ha un solo argomento, al tempo stesso forte e fragile: il
suo disprezzo per i politici che hanno concorso al malgoverno del
Paese. E' questo il suo vero "programma" politico. Non s'inganni,
Bossi, credendo di aver creato un grande movimento "padano".
Ha semplicemente espresso e sfruttato la convinzione, molto diffusa
nelle province settentrionali, che il regime e la sua classe dirigente
stanno dilapidando la ricchezza delle regioni più dinamiche
e pregiudicando il futuro del Paese. I risultati delle votazioni parziali
amministrative dimostrano che dalla Liguria al Friuli vi è
un numero considerevole di italiani (intorno al quaranta per cento)
per Cui la politica è il nemico.
Ciò avrà una prima conseguenza: quella di esasperare
la voglia di divorzio fra le due Italie. La stessa classe politica
che il Nord percepisce come un ostacolo al proprio progresso e al
proprio benessere, è considerata indispensabile all'economia
clientelare del Sud. Gli stessi uomini politici che Bossi può
impunemente definire ladri e corrotti nelle piazze di Varese e di
Brescia, sono apprezzati e votati come notabili nelle piazze di Reggio
Calabria e di Napoli. Come Inghilterra e America sono divise dalla
diversa pronuncia della stessa lingua, così l'Italia settentrionale
e meridionale sono divise da una diversa percezione della stessa classe
dirigente. Non è il fumoso federalismo di Bossi che sta spaccando
l'Italia, ma il giudizio diametralmente opposto che il Sud e il Nord
danno dello stesso regime.
Ambedue i giudizi sono tragicamente sbagliati. Il Sud commette un
errore se crede, nelle attuali circostanze economiche, di poter continuare
a vivere di pensioni immeritate, impieghi produttivi, infrastrutture
artificiose, cattedrali nel deserto e appalti truccati. E il Nord,
a stia volta, commette un errore se crede che un Paese possa vivere
senza politica o possa agganciarsi all'Europa condannando senza appello
tutta la classe dirigente che lo ha governato in questi anni. L'Italia
è ormai stretta come in una morsa fra lo statalismo parassitario
del Sud e il disprezzo qualunquista per la politica al Nord. Né
dall'uno né dall'altro può venire al Paese un barlume
di salvezza.
Non è facile rompere questo circolo vizioso, perché
gli uomini che debbono farlo sono, al Nord, sul banco degli imputati.
Ma se questa classe dirigente vuole evitare di essere travolta da
un massiccio voto di sfiducia, deve perseguire con serietà
tre obiettivi. Il primo spetta al governo: risanare il bilancio con
misure severe ed efficaci, senza dar retta a proteste corporative
e a proposte irresponsabili. Il secondo spetta al Parlamento: riformare
le istituzioni, senza attendere che le riforme vengano imposte a colpi
di referendum. Il terzo spetta ai partiti: smantellare gli apparati,
abbandonare le posizioni di potere che hanno occupato nella società,
congedare i vecchi leader e rinnovare i quadri dirigenti. Non sappiamo
se la classe politica sarà capace di perseguire questi obiettivi
con serietà. Sappiamo soltanto che se non vi riuscirà
avrà regalato alla Lega, nel Nord, e in parte anche nel Sud,
un potere per cui essa non ha né idee né uomini.
Quante Italie? / Smemoranda
II "buon
maestro" e il "cattivo maestro"
Il "buon
maestro"
Giorgio Bocca numero 1: "La scoperta dell'Italia", Laterza,
l963, pagg. 381-82, dal capitolo "Cose del Sud".
"... E' cominciata
che il Nord accogliendo i meridionali li trattava dall'alto in basso,
li calunniava, li correggeva senza troppa comprensione e siamo al
punto che nessun settentrionale onesto può più desiderare
una restaurazione, nessuno può più rinunciare alla meridionalizzazione
avvenuta. Non solo per motivi economici, ma anche per l'evidente tonificazione
della vita sociale e intellettuale. Torino non è più
triste come alcuni anni fa, Milano è sempre più la città
di tutti, Genova apre qualche spiraglio psicologico solo grazie ai
meridionali".
"Certo si può sempre fare dell'ironia sul Meridione umanistico
e retorico; sulla cultura di Foggia basata sulla memoria del mitico
re Dauno che dà il nome a circoli filodrammatici e cooperative
del latte; si può castigare il superstite gallismo, mortificare
l'eccessiva diffidenza, correggere le tendenze anarchiche del Meridione,
ma si deve ammettere, sinceramente, che esso da all'uomo del Nord
quello splendore dell'animo e quella voglia di vivere che erano in
parte appannati".
"L'incontro fra settentrionali e meridionali si rivela quasi
sempre come inter pares; chi avesse voluto applicare a tale incontro
i metodi buoni per i Paesi sottosviluppati avrebbe commesso un errore
grossolano, perché è un'antica verità, ma spesso
riscoperta, che le strutture culturali del Sud sono nettamente superiori
al suo livello economico ...."
Il "cattivo
maestro"
Giorgio Bocca numero 2: "L'inferno", Mondadori, 1992, pagg.
268-69, dal capitolo "Mentire non serve".
"... Qualunque
sia il luogo, la ragione, il pubblico fra cui si discute la questione
meridionale, è inevitabile che ritornino le vecchie menzogne,
le antiche consolazioni, le parole inutili. E' chiusa, dovrebbe essere
chiusa una volta per sempre la favola di un Mezzogiorno ricco e prospero
sacrificato all'imperialismo industriale del Nord. Perché una
differenza di potere industriale e finanziario c'era, ma irrilevante
rispetto al baratro della differenza sociale e civile. Certo sarebbe
stato più saggio graduare l'integrazione dell'industria meridionale,
darle una maggiore protezione nei primi anni dell'Unità, ma
il baratro era quello civile e non era stato il Nord a inventarlo
o imporlo, si deve anzi dire onestamente che il primo regno fece quanto
era nelle sue scarse possibilità per ridurlo. Non era colpa
dei Savoia, o dei cavouriani o del Lombardo-Veneto, dei tessili biellesi
o degli armatori genovesi, degli agrari emiliani se gli analfabeti
nel Mezzogiorno erano nell'anno dell'Unità il novanta per cento
della popolazione, se al Nord c'erano 67.000 chilometri di strade
e al Sud 15.000 con molti villaggi collegati da tratturi e il trasporto
delle merci era ancora affidato agli asini, ai muli, alle spalle degli
uomini e al capo delle donne, se sotto Salerno non c'era neanche un
chilometro di ferrovia, se 1.488 abitanti restavano isolati nell'inverno
e con il maltempo per settimane, se c'era il latifondo mal coltivato
e una piccola proprietà arretrata".
"... Il sottosviluppo del Sud è legato allo sviluppo del
Nord? Siamo in uno di quei rapporti di forza in cui certamente il
più forte approfitta dei suoi vantaggi, c'è stata certamente
una volontà politica e del sistema nel suo complesso di mantenere
le cose come stavano, ma come ci insegna Adamo Smith differenze economiche
e opportunismo vengono dopo, molto dopo il gap civile, culturale".
Quante Italie? / Culture & destini
Pre-giudizi
sul Sud
Ha sempre affascinato
il concetto di "storia lenta" appreso da Braudel, di quella
storia che scorre, come Un fiume sotterraneo e invisibile, parallela
alla storia rapida raccontata nei libri.
Questa storia lenta, senza date, senza re e senza battaglie, è
come una sostanza che viene da lontano e si è sciolta nel mare
del vissuto e che poi salta fuori bruscamente o si ritrova in varie
dosi negli eventi recenti.
E' saltata fuori, ad esempio, nei Balcani, e vediamo con quanta ferocia
imperversa in Jugoslavia; in Russia ha determinato il crollo incruento
del comunismo, in Israele opera ancora dal tempo della Bibbia, e cova
in tanti altri luoghi del mondo, non esclusa l'Italia. E che altro
è quello che sta accadendo in Lombardia e in tutto il Nord
del Paese, se non una manifestazione di questa storia lenta che ignora
il Risorgimento e tutto ciò che ha concorso a formare l'Unità,
così come abbiamo imparato dai libri di scuola?
La storia lenta ha poco a che fare con la volontà degli uomini
e più con l'inconscio dei popoli. Ha a che fare con l'antropologia,
con gli archetipi, con i miti, con le sopravvivenze, la lingua, il
dialetto, le tradizioni e le superstizioni, con tutte quelle cose,
insomma, che concorrono a formare la "mentalità".
La cultura dovrebbe consentirci di controllare e nel caso di trasformare
i condizionamenti e i limiti della mentalità.
La "mentalità" nella maggioranza delle persone è
più forte della cultura, e nel corso dei secoli si è
affermata fino a diventare carattere degli individui e fino a modellare
le forme della vita sociale. "I processi di trasformazione di
una mentalità, cioè di un insieme di credenze assorbite
dalla tradizione in cui ci si forma - e che rispetto al proprio quotidiano
comportamento rappresentano quei presupposti taciti che James Joll
ha chiamato "unspoken assumptions" - sono processi che richiedono
tempi lunghi e in cui il ruolo della cultura di élite non va
sopravvalutato, perché accanto ad essa devono agire mutamenti
profondi soprattutto sul piano economico e sociale" (D. Settembrini,
"Storia dell'idea antiborghese in Italia, dal 1860 al 1969").
Ci siamo spesso domandato quanto gioca a Napoli lo scarto tra la cultura
(appresa) e la mentalità (ricevuta). Questo scarto è
una costante tragica della nostra storia, e se ne videro le conseguenze
sanguinose con Masaniello e nella Rivoluzione del '99. Ancora oggi
Napoli è città europea per storia e civiltà,
ma a causa della mentalità prevalente tende sempre più
ad assumere il carattere di città mediterranea. La nostra cultura
dovrebbe fare i conti con questa mentalità e sull'uso che essa
fa del "colore locale"; senza corteggiarla, come fa, o ignorarla.
Una delle chiavi per interpretare l'arretratezza italiana - non solo
a Napoli e nel Sud, ma anche a Nord - è proprio il prevalere
delle mentalità. E' un'arretratezza che nasce dal conflitto
di tante mentalità separate, incapaci di percepire un interesse
particolare, senza ideali (se non retorici) e piene di pregiudizi
reciproci. E' l'arretratezza di un Paese malato di populismo, che
ha confuso la democrazia col pluralismo inconcludente, gridato nelle
piazze e amplificato dalla televisione. E' l'arretratezza di un Italia
dominata dall'emergere di relitti di un passato da "Batracomiomachia"
e da "Secchia rapita".
Solo dove non c'è libertà si ha un destino. Solo chi
se lo è voluto ha un destino. Il destino è una delle
tante forme dell'immobilità. L'immobilità è la
ripetizione (di gesti, parole, comportamenti). La sottocultura delle
piccole identità locali produce la "mentalità"
(che arriva stilla corrente della storia lenta) ed è la mentalità
che si fissa in un destino.
La mentalità ha un concetto del bene e del male che non corrisponde
a quello della morale comunemente accettata, e spesso è al
di là del bene e del male. Così sono anche i comportamenti
dettati dalla mentalità. La mentalità ha le sue ragioni
che la ragione non ammette.
In Italia, accanto alle cose che si muovono, ci sono tante mentalità
e destini fissi. Sicilia, Sardegna, Calabria: destini... E su, nel
Nord, nel Veneto, in Piemonte, sulle Alpi, quanti sono i paesi e le
contrade dove si annida inestirpabile un medioevo psichico sotto le
apparenze della modernità?
La corruzione delle mentalità venute improvvisamente a contatto
con la modernità ha rafforzato nel Sud mafie e camorre di vario
genere; nel Nord ha prodotto la degenerazione della Morale del profitto
(tangenti). Ogni mentalità si corrompe a modo suo, riproponendo
i suoi Miti C i suoi riti, le sue sopravvivenze.
Ogni mentalità nutre e si nutre di pregiudizi. E' sul terreno
delle mentalità che la cultura deve affrontare il Nemico. E'
lì che la cultura deve "operare" per vincere il destino.
La mentalità è omologante. Questa omologazione all'interno
della propria piccola identità è più forte di
quella della modernità egemone dell'Occidente, che tenderebbe
- si dice - a cancellare e livellare ogni diversità.
Quando l'omologazione antropologica è così forte, è
difficile essere veramente degli individui liberi e indipendenti.
Perciò a Sud chi riesce ad esserlo - e sono in tanti - è
veramente un uomo eccezionale.
Quante Italie? / Terroni del mondo
Da yankee a
bastard
Una trentina di
anni fa il tribunale di un paese del Piemonte giudicò l'editore
Feltrinelli e lo stampatore Milano per pubblicazione oscena. Si trattava
di un modesto romanzo americano, "Un malinteso da cento dollari",
ormai caduto nell'oblio, la cui protagonista è una prostituta
di colore. Gli imputati, difesi con affascinante dottrina, vennero
assolti. La parola che più aveva ferito gli individui timorati
autori della denuncia era un termine gergale originariamente offensivo,
diretto per o più ai neri americani: motherfucker. La parola,
resa alla lettera come inesattamente aveva fatto la traduttrice, suggerisce
l'idea di un incesto tra madre e figlio, e dunque risulta alquanto
più offensiva di "terrone". Ma si tratta pur sempre
di vedere in che contesto viene usata; inoltre, con il tempo si è
per così dire diluita, tanto da equivalere, grosso modo, a
"figlio di una buona donna". Di qui, il fatale zelo della
traduttrice. Nessun nero americano citerebbe in giudizio un bianco
che oggi lo chiamasse motherfucker. Semmai, risponderebbe per le rime.
Lo stesso discorso vale per un termine ben più corrente, come
bastard, suscettibile dì svariate sfumature, cosicché
poor bastard può significare, con un moto di simpatia, "poveraccio"
o "povero sciocco". Nessun irlandese si offende se gli danno
del matto, secondo un'espressione assai corrente, crazy Irishman.
Gli italiani tollerano di essere chiamati wops, i messicani greasers
(dalla pelle grassa, o dai capelli unti di brillantina); i francesi,
forse più suscettibili, sopportano comunque la definizione
inglese e americana di "mangiarane".
Per tacere dell'ampio ventaglio di parole originariamente spregiative
che si indirizzano agli africani, agli indiani, ai cinesi, agli asiatici
in genere.
Non per questo, s'intende, etichette verbali sprezzanti si giustificano,
ed è un fatto indicativo che si trovino più di frequente
nel linguaggio di popoli o etnie convinte della propria superiorità,
o che, a somiglianza di tutta una serie di facezie, traggano origine
nella società urbana e colpiscano il contado o le minoranze
marginalizzate. Altri bersagli sono, costantemente, le popolazioni
coloniali, di cui si tende a sottolineare la rozzezza e la primitività.
Sotto questo profilo, gli Stati Uniti forniscono uno degli esempi
più clamorosi. Gli inglesi, ad onta della comune appartenenza
etnica e linguistica, cominciarono presto a ironizzare su di loro.
Già nel Settecento si mettevano alla berlina in Inghilterra
gli "americanismi" nella lingua quale indice di volgarità.
Quando i coloni americani decisero addirittura di conquistare l'indipendenza
combattendo contro la madrepatria, gli inglesi coniarono un termine
spregiativo per designare gli abitanti della Nuova Inghilterra, estendendolo
poi a tutti gli americani del Nord: yankee.
La parola è di origine misteriosa e si riferisce probabilmente
alla cadenza americana, e alla rozzezza degli americani, veri e propri
zucconi. Le vittime, però, si impadronirono spiritosamente
del termine, adottando persino una canzoncina ironica, intitolata
Yankee doodle, divenuta famosa in tutto il mondo, e utilizzata sin
dagli anni Quaranta come sigla Musicale delle trasmissioni della Voce
dell'America.
Ma la storia non finisce qui. Se infatti, nel mondo, yankee sta per
americano in generale, per gli amici e i nemici (pensiamo al logoro
ma ancora vivo yankee go home) negli Stati Uniti, a partire dalla
guerra di secessione, indica il Nord. Quando un sudista chiama yankee
un compatriota nordista, non gli tributa certo omaggio, in una specie
di "terrone" alla rovescia, e viene magari ricambiato con
un craker, fanfarone, e anche redneck, collorosso, termini usati anche
dai neri.
Bisogna dire che gli americani della propria supposta rozzezza non
si sono mai vergognati. E giacché infuria in Italia il dibattito
sul nostro inno nazionale, conviene rammentare che quello americano,
"La bandiera trapunta di stelle" (The Star Spangled Banner),
ad onta della severa nobiltà del suo testo, si appropriò
della musica di una canzone di osteria, neppure tanto castigata. Anni
or sono, gruppi di preoccupati cittadini proposero di cambiarla, ma
la discussione, in un primo tempo accesa, finì tra le risate.
Del resto, gli epiteti spregiativi sono legati al momento storico,
e soggetti a infiniti sviluppi. Nell'età elisabettiana, il
primo, elementare football era sport tipico delle classi inferiori.
Così, nel "Re Lea" di Shakespeare, un servo infedele
viene apostrofato di: You base football player, "tu spregevole
giocatore di calcio". Oggi potrebbe apparire quasi una patente,
se non di nobiltà, almeno di prestigio.