§ Quante Italie?

Con un muro nel cuore




Ada Provenzano, Flavio Albini, Giovanna Eranio
Collab. Nino D'Andrea, Alberto Ramoni



Quante Italie? / Etnie e Vecchio Continente

L'Europa scopre mille frontiere

Una terra, una lingua, una fede. Da Vilnius a Zagabria, da Skopje a Bratislava, da Pristina a Kiev, da Budapest a Timisoara, l'Europa centro-orientale e balcanica liberatasi dal comunismo riscopre la sua storia per organizzarsi un futuro. I gruppi nazionali, orfani del marxismo, ricostruiscono la propria identità sui versanti dell'etnia, della lingua, della religione. Ma quasi dovunque si imbattono nelle frontiere che il più delle volte non hanno scelto ma subìto.
Turchi e austriaci, russi e prussiani, angloamericani e sovietici sembra si siano divertiti, nel corso dei secoli, a modificare i confini di regni e principati, province e sangiaccati di questa metà d'Europa.
Adesso, secondo i princìpi stabiliti a Helsinki, a Madrid e a Vienna, che garantiscono l'inviolabilità delle frontiere ma non la loro immodificabilità, che sanciscono il diritto dell'autodeterminazione dei popoli e il rispetto delle minoranze, la carta di questa vasta regione compresa tra il Mar Baltico, il Mare Adriatico e il Mar Nero, è di nuovo in subbuglio. Sei nuovi Stati sono sorti nel giro di due anni e sono entrati a far parte dell'Onu: i tre baltici, la Croazia, la Slovenia e la Bosnia. La Bielorussia e l'Ucraina ne facevano già parte.
La Macedonia - o come si chiamerà - è nella lista d'attesa per il riconoscimento. Boemia e Slovacchia, rimaste distanti sul piano socio-economico, sembrano decise a separarsi.
Spento l'occhio del "Grande Fratello" moscovita, i toni si sono improvvisamente accesi. Milosevic afferma che "dove c'è un cimitero serbo, quella terra è serba". Il leader nazionalista, ex comunista, slovacco Meciar, benché su cinque milioni di abitanti oltre 600 mila siano ungheresi, proclama "una sola lingua per la nazione slovacca", facendo sussultare Budapest che fino al 1918 amministrava con mano pesante quella regione. E quando, nel marzo 1990, a Tirgu-Mures, nella Transilvania rumena dove vive una forte minoranza ungherese, gli scontri etnici fecero tre morti, l'una e l'altra parte parlarono di pogrom.
Il post-comunismo, in questa parte del mondo, delusa dalla mancata metamorfosi della libertà in benessere, vira verso il nazionalismo tradizionale: separatismo per i più deboli, rivendicazioni per i più forti, espulsioni e insediamenti, modificazione di frontiere, alleanze e controalleanze.
Uno sguardo alla carta tracciata dal geografo francese Michel Foucher, che riproduce le frontiere che sono state disegnate nell'Europa moderna, mostra il tormento di queste terre. I confini terrestri si sviluppano per 26.281 chilometri, ma di questi ben 14 mila sono stati definiti tra il 1910 e il 1949 e riguardano in massima parte i territori dell'Europa centro-orientale e balcanica: escluse Grecia e Finlandia, tutti i Paesi dell'ex blocco sovietico che fino a poco più di tre anni fa era separato dall'Occidente dalla cortina di ferro, la più lunga frontiera europea: 7.056 chilometri, compresi i 1.458 tra le due Germanie.
Frontiere recenti, dunque frontiere instabili, scaturite da eventi che, sul piano storico, non sono stati ancora del tutto digeriti: la dissoluzione dell'impero austro-ungarico e di quello turco, l'effimero "ordine nuovo" hitleriano, i compromessi di Yalta e di Potsdam. Confini tracciati di volta in volta per premiare i vincitori e punire i vinti, per assicurarsi vantaggi economici o più spesso strategici nell'era pre-atomica e premissilistica. Tracciati che quasi sempre hanno spezzato comunità Limane omogenee per razza, lingua e religione, pietrificandone i ricordi dei soprusi o dell'antica grandezza, alimentando rancore e desiderio di rivincita.
La "pax sovietica", durata quarantacinque anni, aveva congelato i conflitti interetnici e tra gli Stati dell'Europa centro-orientale e balcanica che ora esplodono con la sua scomparsa. La competizione politica, la crisi economica, la ricerca di una identità soffocata per mezzo secolo dalla legge plumbea dell'"internazionalismo proletario" (tipo Budapest '56 e Praga '68) cospirano per nuovi conflitti e nuove frontiere. Scriveva infatti il geografo tedesco Ratzel alla fine del secolo scorso: "Fare la guerra è spostare la propria frontiera sul territorio altrui".
Elencando i luoghi di conflitti potenziali, è possibile immaginare quali frontiere potrebbero modificarsi in modo pacifico o violento.

Frontiere baltiche: L'indipendenza di Lituania, Estonia e Lettonia ha creato l'enclave di Kaliningrad, appartenente alla Russia, ma rivendicata da Lituania e Polonia, mentre la Germania vorrebbe favorirvi la creazione di una zona franca. Se non si verificherà quest'ultima ipotesi, il territorio potrebbe venire diviso tra Polonia e Lituania. Quest'ultima ha però un contenzioso con la Bielorussia, che potrebbe concludersi con uno scambio di territori.

Frontiera interna cecoslovacca. L'opposizione tra la Boemia, laica, progressista e liberale, e la Slovacchia, tradizionalista, burocratica e separatista, è antica e sembra dover sfociare in una separazione consensuale. La Boemia verrebbe attratta nell'area della Germania unificata, la Slovacchia nell'area austriaca, con proiezioni verso la Polonia e la Croazia. I tedeschi in Boemia sono ridotti a circa 60 mila. In Slovacchia, invece, ci sono più di 600 mila ungheresi che si sentivano protetti dall'amministrazione centrale di Praga, ma temono il separatismo slovacco e l'egemonia di Bratislava. Il confine tra una Slovacchia indipendente e l'Ungheria potrebbe surriscaldarsi.

Frontiera ungaro-serba. La minoranza ungherese (circa 400 mila persone), che vive nella Voivodina serba, già in parte è emigrata in Ungheria. Budapest ha ricordato che i suoi confini vennero stabiliti con la Federazione jugoslava e non con la Serbia. Un indebolimento di Belgrado potrebbe favorire il revisionismo ungherese.

Frontiera ungaro-rumena. Il contenzioso storico riguarda la Transilvania, e nel 1990 dette luogo agli incidenti di Tirgu-Mures. Il miglioramento economico dell'Ungheria e la stagnazione rumena potrebbero favorire tra gli ungheresi di Transilvania, circa un milione e mezzo, prevalentemente concentrati nelle città, una spinta per la riunificazione di tutti i magiari in un unico Stato.

Frontiera ucraino-rumena. Il territorio conteso è quello della Moldavia, annessa all'Urss e ora all'Ucraina. I moldavi sono tuttavia incerti tra l'ipotesi di un ritorno alla Romania, che offre poche attrattive, e la formazione di un'entità indipendente, Kiev permettendo.

Frontiera bulgaro-rumena. Quasi ermeticamente chiusa, nella parte terminale del Danubio, dove fra l'altro vive una forte minoranza turca. Il governo rumeno ha spesso accusato quello di Sofia di aver causato il grave inquinamento del fiume.

Frontiera bulgaro-jugoslava. A parte una minoranza bulgara che vive in Serbia, il pomo della discordia tra i due Paesi è rappresentato dalla Macedonia, che si è proclamata indipendente ma è povera e quasi disarmata: ritirandosi da quel territorio, l'esercito federale jugoslavo ha portato con sé tutte le armi importanti. E' una frontiera potenzialmente caldissima e il suo futuro dipenderà in massima parte dal destino finale della Jugoslavia, poiché i bulgari non hanno dimenticato i giorni della Grande Bulgaria. Sulla questione macedone sono però d'accordo con la Grecia nel contenere la spinta autonomistica.

Frontiera greco-bulgara. Confine tormentato da numerose guerre e disegnato per rispondere ad esigenze strategiche. Una minoranza macedone, cui Sofia come Atene non vuole riconoscere autonomia, porta i due Paesi ad avvicinarsi per far fronte al nuovo dinamismo della Turchia.

Frontiera turco-bulgara. Sebbene in Bulgaria viva una forte minoranza turca, ridottasi negli ultimi tempi per volontà (persecutrice) di Sofia da 900 a 500 mila persone, e sebbene Ankara si senta impegnata a proteggerla, i due Paesi sono interessati a mantenere buoni rapporti e la frontiera aperta, per non pregiudicare il traffico commerciale tra l'Europa e l'Asia minore da cui entrambi traggono vantaggio.

Frontiere albanesi. L'Albania guarda a Kosovo, provincia serba, la CUI Popolazione è in maggioranza albanese e musulmana, ma guarda anche alla minoranza albanese che vive in Macedonia. E' sicuramente una frontiera calda, cui sono interessate direttamente Serbia e Grecia, e, indirettamente, la Bulgaria.

Frontiere interne jugoslave. Sono la chiave di tutti i possibili rivolgimenti dei Balcani. L'indipendenza della Croazia e la proclamazione della Repubblica federativa di Serbia e Montenegro lasciano intendere la volontà di arrivare a una spartizione della Bosnia, a spese della comunità musulmana, in modo da formare una quasi Grande-Croazia e una quasi Grande-Serbia.
Il quadro complessivo è potenzialmente esplosivo. Finora le tensioni sono state interne (Jugoslavia e Cecoslovacchia), ma il problema delle minoranze è entrato nei discorsi politici, anticamera delle prese di posizione tra governi. I Paesi più poveri (Romania, Bulgaria, Macedonia, Bosnia) sono quelli maggiormente esposti al pericolo. Intorno ad essi si agita il dinamismo turco e ucraino, cui potrebbe aggiungersi quello ungherese. In ogni caso, si delinea una frattura fra l'arca cattolica, a nord, dove la caduta dei regimi comunisti è avvenuta dal basso (Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Slovenia e Croazia), maggiormente attratta verso la Germania e in genere verso l'Europa occidentale, e l'arca ortodossa (Serbia, Romania, Bulgaria), dove il mutamento di regime è avvenuto dall'alto e lo sviluppo economico sembra più lontano.
E' in questa seconda area che si addensano le rivendicazioni, che proprio l'assenza di sviluppo potrebbe esasperare, specie se venisse lasciata a se stessa. Sicuramente, alla tranquillità di questa parte dell'Europa non giovano le tensioni separatiste europee (Corsica, Paesi Baschi, Ulster, contenzioso vallone-fiammingo, secessionismi italiani e altri fantasmi del genere).


Quante Italie?

Padania nazione?

Poiché partiti e istituzioni non sembra abbiano capito fino in fondo quel che sta accadendo in Piemonte, in Lombardia e nel Veneto, è giusto che intervengano uomini, fondazioni, clubs. E', in fondo, una delle supplenze, numerose, alle quali deve far fronte un Paese come l'Italia, che attraversa uno dei momenti più difficili della propria storia. Per questo, la Fondazione Agnelli, ha parlato di "Padania '93": per misurare la profondità della faglia che si sta aprendo tra l'Italia del nord e il resto della penisola. D'altro canto, dopo una serie impressionante di radiografie, censimenti, confronti, inventari e tavole rotonde, si può dire almeno questo: che il fossato è ben visibile e abbastanza profondo, e che, non vedendolo, o non prendendone atto per le necessarie contromisure, i nostri politici rischiano di caderci dentro a corpo libero.
Il teorico della "Padania" è il professor Miglio: il quale ha usato i dati econometrici sulle comunicazioni viarie, le riflessioni geografiche, insomma l'ossatura dell'identikit padano per tracciare il ritratto spirituale di una nazione allo stato nascente. Miglio ha fissato la sua rotta con grande determinazione; e si muove ormai dritto come un fuso tra due fiacche zone di bonaccia: la nazione e l'Europa, realtà o prospettive che sembrano indebolirsi.
Ora la Lega parla di federalismo, di macro-regioni, di Alpi da traforare come cera per farci passare il filo che deve unirci all'Europa. Ma intende cose diverse. Sotto il termine "federalismo" c'è infatti il proposito, neppure mascherato, della secessione. E sotto la parola "Europa" non c'è la Comunità europea, ma la Germania, o meglio, la Mitteleuropa, il nuovo impero tedesco, non più militare ma economico, politico, culturale, bancario, tecnologico, monetario e anche sentimentale; un'area vastissima che sta tra il Reno e il Dniepr e tra l'Adriatico e il Baltico, ormai centrata solo su se stessa e solo marginalmente coinvolta dai piani di Bruxelles, Maastricht inclusa. Sicché per i leghisti è perfettamente inutile attribuire alla Padania la funzione di traino dell'intera comunità nazionale; ed è altrettanto inutile, per loro, avanzare la sottile obiezione che per legittimare una macro-regione come la Padania occorre trovare, nel resto della penisola, altre unità equivalenti.
Di queste distinzioni la Lega non sa che farsene. Non traino intende Miglio, ma taglio; non ripartizioni equilibrate, ma separazione; non giusta collocazione fra il federalismo nazionale e quello europeo, ma evasione dall'Italia, cioè abbandono al Mediterraneo della nazione (o di quel che resta) e aggiramento della Cee e dell'Occidente verso Est e verso Nord; e, infine, non coordinamento Stato-regioni o altri stratagemmi istituzionali, ma il rullo dei tamburi che annunci la nascita dello Stato Padano.
Non bisogna scaraventare il progetto della Lega nel mucchio delle crisi di identità europee, a mezza strada tra Jugoslavia e Cecoslovacchia. C'è, ed è vero, un po' dappertutto, qualcosa che scompiglia, che divide e fa saltare all'aria disordinatamente Stati, unioni e federazioni; una misteriosa cerniera-lampo che si apre e si chiude a capriccio. Ma è difficile dire che cosa sia questa furia di sartoria che taglia e cuce nuove confezioni nazionali un po' dovunque. Da una parte ci sono di sicuro suggestioni arcaiche e miti etnologici che spuntano da sotto la storia. Però dall'altra è visibile una singolare ricerca di affinità elettive nell'ordine econometrico, la volontà occulta di associare il forte con il forte, l'industriale con l'industriale, il debole con il debole, l'agricolo con l'agricolo, quasi si dovessero comporre treni di sole locomotive e treni di soli vagoni, in modo da far nascere strane nazioni sociologiche o professionali, nazioni in movimento e nazioni immobili, nazioni di contadini, nazioni di fabbri, nazioni di executive o nazioni di disoccupati.
Qualcosa del genere si profila in Cecoslovacchia. E si può capire perché. Dopo settant'anni di choc rivoluzionario, la cultura di oggi oscilla e sbanda tra storia e geografia, tra economia e mitologia, cercando le soluzioni secondo due opposte direttrici: o tutto nel passato, il più lontano possibile e comunque selezionato secondo i capricci del momento; o tutto nel presente, il più vicino, concentrato, puntiforme e condensato nell'attimo fuggente dei dati statistici o nella dinamica delle tendenze o, come si dice, dei trend, (anche qui oscillando, senza decidersi, tra le opzioni per complementarità e quelle per affinità). Di fatto, però, le unioni politiche e dunque anche le nazioni, nascono e vivono a cavallo tra il passato e il presente, negli interstizi tra la geografia e la storia, tra la cultura e l'economia, per imprevedibili mescolanze di dati tecnici e mitologici. Sono sempre interdisciplinari e in equilibrio tra la razionalità delle istituzioni e qualcosa che non è razionale e non può essere schiacciato sulla pura ingegneria della ragione.
Lo sfondo sul quale si collocano Miglio e le Leghe è un po' questo.
Ma l'Italia non è la Cecoslovacchia e non è la Jugoslavia. E' una delle grandi nazioni europee, con un'identità culturale antichissima e una unità politica e istituzionale recente, fragile, mal riuscita. Bisogna allora cercare di capire che cosa abbia regalato a questo Paese anomalo la curiosa eccentricità di un movimento di destra antinazionale, l'unico movimento antinazionale tra gli innumerevoli che cavalcano in questo momento i livori della destra europea. E la risposta non è introvabile. Il fascismo in fondo ha squalificato il sentimento nazionale. Ma lo sviluppo del dopoguerra, controllato da un sistema politico incerto e debole (esposto prima alla minaccia di un rovesciamento di fronte per la presenza del più forte partito comunista d'Occidente, poi alle seduzioni corruttrici del consociativismo), ha squalificato la nazione, perché ne ha fatto degenerare una buona metà.
Le Leghe nascono da un moto di repulsione. E la repulsione nasce da una constatazione. L'Italia meridionale non è più da tempo una parte arretrata, ma purtroppo una parte degenerata del Paese. Sarebbe troppo chiedere a Bossi, e anche a Miglio, di ricostruire le cause di questa degenerazione, che ha senza dubbio la sua origine nel bisogno anche dell'economia settentrionale di sostenere con ogni mezzo la domanda di consumo del Sud per alimentare il mercato interno. Le vicissitudini dello sviluppo postbellico hanno depauperato l'agricoltura meridionale. La mafia ha tolto al Mezzogiorno (forse per sempre) la prospettiva del turismo. L'industria, fra centri siderurgici falliti e mostri chimici paralitici, non vi ha messo radici salde. Che cosa restava, per sostenere il mercato, se non i finanziamenti pubblici chiesti a gran voce dal "meridionalismo piagnone", e il valore aggiunto della droga? Che cosa restava, s'intende, fino a ieri? Perché oggi, con la concorrenza internazionale e l'emergenza dell'ordine pubblico, i costi non possono più essere pagati. E dunque si taglia la parte marcia. E' più comodo, rapido, sbrigativo.
Ma per tagliare bene e fino in fondo, Miglio non esita a incrociare le attrazioni econometriche con la suggestione dei simboli (nei quali, a ben vedere, riemerge una vecchia vocazione "austriacante"), le idrovie padane con la vecchia e buona cultura asburgica, l'alta velocità ferroviaria con il Drang nach östen. Le sue vele tecnologiche sono gonfiate da un forte vento emotivo che le tiene ben tese, al confronto col fragile vento dell'ingegneria costituzionale degli altri.


Quante Italie? / La classe dirigente del Sud

L'èlite mancata

Uno dei motivi dell'attuale impoverimento della classe politica del nostro Paese è da ricercare, per un verso, nella caduta - in questa stagione di grandi egoismi - del richiamo ideale e della militanza; e, per un altro, nei metodi di selezione che si sono andati affermando specialmente negli ultimi decenni.
Si faccia caso. I metodi di selezione non differiscono molto tra partito e partito, neanche tra Leghe e partiti, e neppure tra Nord e Sud. Uno sguardo veloce ai comportamenti, un po' rozzi, tenuti negli ultimi tempi in Parlamento dai rappresentanti della Lega non fa che confermare questa tendenza. La diversità non sta dunque nel metodo, ma nella società nella quale avviene la selezione. Nel Sud - malgrado le mille assimilazioni di superficie, dagli stili di vita ai consumi -la selezione avviene in condizioni ambientali del tutto differenti da quelle del Nord, dove la trasformazione del territorio è stata graduale, con ritmi giusti e passaggi obbligati. Il volto del Mezzogiorno è invece mutato in un contesto di anarchia, di trasgressione e di violenza fibrillante.
La prima fase di tale trasformazione del Sud è stata quella dell'emigrazione selvaggia. L'esodo forzato iniziato all'indomani dell'Unità d'Italia ha assunto, nel dopoguerra, proporzioni gigantesche. Milioni di persone si sono mosse alla ricerca di un luogo più fortunato dove impiegare le braccia e l'intelligenza. Lo strappo è stato feroce; non soltanto sotto l'aspetto della sofferenza collettiva, ma anche sotto quello del depauperamento culturale del territorio. La classe politica meridionale emersa a partire dal dopoguerra risente, pertanto, di questo coatto restringimento della possibilità di selezione. Paradossalmente, poi, quei correttivi strutturali (in primo luogo la Cassa per il Mezzogiorno) realizzati dai primi governi della Repubblica per fronteggiare il fenomeno dell'abbandono del Sud, espressione di una sorta di rimorso dello Stato, hanno arrecato benefici materiali al territorio, ma anche qualche svantaggio che il tempo si è incaricato di esaltare.
Solo chi non ricorda il Sud rurale del dopoguerra può disconoscere la portata del mutamento avvenuto. Il livello di vita si è alzato notevolmente e l'accesso delle popolazioni meridionali ai consumi di massa si è concretizzato velocemente. Ma i costi sono stati alti.
Il Mezzogiorno ha subito un'impressionante perdita di identità e di valori. Prima lo sradicamento di quelle plebi disperate e, poi, l'importazione repentina di nuovi modelli di vita, trasmessi attraverso i mass media, hanno agito come un bombardamento su un territorio mite (per quanto incredibile oggi possa apparire, il Sud era generalmente mite) che viveva immerso nei suoi silenzi, su equilibri delicati, non scalfiti da secoli.
In questo clima di trasformazione incontrollata si è andata via via affermando una nuova classe politica. E' scomparso quel ceto di professionisti, artigiani, commercianti che, prestato alla politica, viveva del suo ed era tradizionalmente portato alla difesa del proprio territorio. Il posto è stato occupato da altro ceto politico, venuto fuori con forza dagli apparati di partito, portato ai dibattiti interminabili su problemi lontani e poco incline ad affrontare quelli vicini. E' emersa dunque una classe politica "in carriera", che si potrebbe descrivere con le parole di Weber: "Vive della politica, non per la politica". Una classe priva di saperi specifici, ma abile a miscelare con disinvoltura bisogni e modernità. Incapace di ascoltare, come invece era abituato a fare, magari con paternalismo, il vecchio "notabilato", ma adusa alla veloce mediazione su ogni cosa, dal documento sull'Afghanistan da far passare con Voto Unanime in consiglio comunale, al più impegnativo finanziamento della Cassa per il Mezzogiorno.
Per il leader politico che si afferma a Roma quella di controllare il proprio collegio, spesso sterminato, è una delle esigenze principali. E per far ciò ha appunto bisogno, fra le altre cose, di una classe dirigente locale che aggiunga all'arte della mediazione di cui si è detto anche un'altra capacità, una virtù che nel Sud ha radici antiche: la fedeltà. Ora, la fedeltà, che in alcuni sodalizi umani ha un'importanza capitale, alle soglie del Duemila, in una società moderna in sviluppo, rischia di essere una sorta di islamismo inconsulto.
Questo metodo di selezione della classe politica, infine, diventa ancor più colpevole se si considera che oggi nel Sud esiste una più ampia possibilità di scelta rispetto al passato. Si registra perciò una strana situazione. Un tempo, quando i partiti esercitavano un'attrazione perché nell'Italia uscita dalla guerra erano il riferimento principale per chi intendesse partecipare alla vita democratica, il livello medio di cultura era basso e l'emigrazione delle intelligenze impoveriva la partecipazione. Oggi, invece, con un livello di cultura più alto e un forte, anche se inespresso, desiderio di partecipazione (si guardi al volontariato cattolico), i partiti appaiono fortilizi inespugnabili.
Sta qui il vero nodo del Mezzogiorno. Girare intorno ad altre questioni può anche essere importante, ma non sarà mai decisivo quanto recidere quel nodo.
E' stato spesso osservato come la puntualizzazione della "questione meridionale" sul problema della classe dirigente resta senz'altro un grande merito di Guido Dorso: come un suo titolo ad apparire con qualche rilievo nella storia del pensiero politico dell'Italia contemporanea; ma che l'idea di Dorso al riguardo della soluzione di quel problema pecca per lo meno di ingenuità.
Dorso vedeva, in effetti, come protagonista della "rivoluzione meridionale" da lui auspicata "un'élite anche poco numerosa, ma che abbia idee chiare". Le "idee chiare" dovevano derivare da una percezione della natura autentica che il problema del1'arretratezza meridionale ormai storicamente aveva assunto.
Dorso non ne faceva carico esclusivamente allo Stato unitario italiano uscito dal Risorgimento. Vedeva, però, nella struttura accentrata di questo Stato e nei rapporti politici stabilitisi tra le sue varie parti una ragione decisiva della permanenza del Mezzogiorno in una condizione arretrata. Bisognava quindi scardinare la struttura unitaria accentrata dello Stato monarchico-risorgimentale. Una larghissima autonomia politico-amministrativa del Sud e l'assunzione delle massime responsabilità in questo quadro autonomistico da parte dell'élite a cui pensava apparivano perciò a Dorso come le due componenti di una possibile "rivoluzione meridionale". Rivoluzione, naturalmente, non nel senso di movimento insurrezionale armato, bensì nel senso di trasformazione radicale, di profonda riforma della vita politica e sociale dell'Italia e del Sud. Ma da dove sarebbe uscita fuori l'élite necessaria alla rivoluzione?
Dorso non aveva dubbi: dalla "borghesia umanistica" del Mezzogiorno, vale a dire dalla classe sociale più criticata (si pensi a Salvemini) e dagli studiosi di politica e di sociologia meridionale. E' vero -pensava Dorso - che questa classe è stata il costante sostegno della struttura feudale, prima, e del blocco agrario, poi, dominante nel Sud e principale avversario di ogni trasformazione e riforma meridionalistica. Ma i rapporti tra borghesia umanistica e classi dominanti non gli apparivano organici e inalterabili. Quella borghesia poteva staccarsi dalle alleanze che storicamente aveva praticato ed esprimere essa, che ne aveva la capacità culturale e tecnica, la forza richiesta dalla "rivoluzione meridionale". E ciò tanto più, in quanto l'élite a cui pensava non doveva essere un gruppo particolarmente numeroso: sarebbero bastati, a suo avviso, "cento uomini di ferro".
Come una simile élite avrebbe potuto maturare? La risposta di Dorso a questo più che legittimo interrogativo può apparire sorprendente. La formazione di una classe dirigente gli appariva, infatti, come "un mistero". Ma questa risposta può essere meno sorprendente di quanto appaia di primo acchito se per "mistero" si debba intendere un moto di riforma interiore, una grande spinta etico-politica: ossia, un tipo di fenomeno storico che trae origine da forti impulsi morali e da altrettanto forti proiezioni della volontà. Il "mistero" starebbe, dunque, tutto nel fatto che questi processi non possono essere pianificati o previsti razionalmente, perché sono il frutto di maturazioni spontanee o di slanci creativi, che possono essere solo constatati quando si sono prodotti.
Bisogna tener presente tutto ciò quando si critica l'idea della "rivoluzione meridionale" come problema di sola classe dirigente. E ancor più bisogna tenerlo presente quando si trova peregrina e utopistica l'idea dei "cento uomini", sia pure "di ferro". Diciamo piuttosto che la vera idea di Dorso stava in una concezione della "rivoluzione'' come grande primavera dello spirito, come rinnovamento intimo che mettesse capo a un uomo nuovo, come sussulto propagato a tutta la superficie dallo scuotersi degli strati profondi della società, come esplosione di una intensa carica ed energia morale. Da questo evento misterioso poteva ben emergere un gruppo in grado di assumere in maniera quasi missionaria la direzione del movimento che doveva realizzare la trasformazione del Mezzogiorno in un grande paese moderno, e cioè in una grande società occidentale.
Utopia? Certamente, per alcuni aspetti. Carenza di realismo? Anche, per altri aspetti. Ma quanto realismo in una utopia che centrava il discorso del rinnovamento sul problema della classe dirigente e che faceva del rinnovamento un problema di spirito e di volontà! "Cento uomini" è una determinazione numerica volutamente approssimativa. Serve per dire che anche piccoli gruppi, se prodotti dal "mistero" che dà luogo alla formazione di una classe dirigente, potevano essere la guida autorevole sufficiente di un movimento di massa. Dovevano avere, aggiungeva Dorso, anche "idee chiare"; e anche questa indicazione deve essere colta in tutto il suo spessore. Come a dire che, accanto al rinnovamento come spinta etico-politica e come spirito e volontà di trasformazione, si richiedeva la cultura del rinnovamento: chiarezza di programmi, di strategie, di obiettivi.
Vorremmo chiedere: che cosa c'è in tutto ciò che non sia attuale ancora oggi, così come lo era una settantina di anni fa, quando Dorso ne parlava? Certamente, infinite cose sono cambiate da allora, e anche il Mezzogiorno non è più lo stesso e presenta un quadro molto diverso, fatto di problemi vecchi e nuovi. Ma il problema della trasformazione resta quello di un rinnovamento dello spirito e della volontà innanzitutto del Mezzogiorno, in relazione alla sua vita politica e civile. Resta la necessità di una cultura del rinnovamento, che ne individui con la chiarezza auspicata da Dorso i programmi e le strategie, oltre che le finalità. Ma resta, soprattutto, il problema delle guide, della classe dirigente. Ora è diventato un problema nazionale; non è più un problema soprattutto del Mezzogiorno. Nel Sud ne sono, però, ben più gravi e consistenti le dimensioni qualitative e materiali. Se, anzi, c'è un dato certo, indiscutibile della "questione meridionale" così come si ripropone oggi, è proprio il problema della sua classe dirigente, della qualità (ormai in ogni senso) delle persone che ne reggono (come suol dirsi) le sorti.
Si può persino dire che da un problema di grande riflessione politica e storica siamo passati a un problema di cronaca quotidiana. Oggi, forse ancor più che ai tempi di Dorso, il Mezzogiorno ha bisogno di quei "cento uomini", e la strada indicata da lui resta un passaggio obbligato.


Quante Italie? / Il malessere politico del Nord

Sul filo del divorzio

Se il voto filo-leghista dimostrasse che sta nascendo in Italia una grande forza politica, con idee chiare, progetti coerenti e volti nuovi, nessuno avrebbe il diritto di dolersene. Federalisti o unitari, dirigisti o liberisti, fautori di questa o di quella riforma elettorale, dovremmo tutti ringraziare il cielo che la società politica è capace di rinnovarsi. La democrazia non è un "circolo dei nobili" in cui si entra soltanto per cooptazione. Se vi è da qualche parte in Italia una nuova classe politica, desiderosa di candidarsi alla sua direzione, si faccia avanti. Se i leghisti hanno voglia di governare e un progetto politico per il futuro del Paese, nessuno ha il diritto di storcere il naso e rispondere altezzosamente che le stanze del Palazzo sono tutte occupate.
Non siamo sicuri che le cose stiano in questi termini. A giudicare dalle contraddittorie dichiarazioni di Bossi e dal livello politico del dibattito suscitato dai suoi fedeli, la Lega non ha né un progetto coerente né una classe dirigente. E' ancora nello stadio in cui la politica non viene "parlata", ma urlata, gridata, brontolata, gesticolata. Imparerà, prima o dopo, ma per ora ha un solo argomento, al tempo stesso forte e fragile: il suo disprezzo per i politici che hanno concorso al malgoverno del Paese. E' questo il suo vero "programma" politico. Non s'inganni, Bossi, credendo di aver creato un grande movimento "padano". Ha semplicemente espresso e sfruttato la convinzione, molto diffusa nelle province settentrionali, che il regime e la sua classe dirigente stanno dilapidando la ricchezza delle regioni più dinamiche e pregiudicando il futuro del Paese. I risultati delle votazioni parziali amministrative dimostrano che dalla Liguria al Friuli vi è un numero considerevole di italiani (intorno al quaranta per cento) per Cui la politica è il nemico.
Ciò avrà una prima conseguenza: quella di esasperare la voglia di divorzio fra le due Italie. La stessa classe politica che il Nord percepisce come un ostacolo al proprio progresso e al proprio benessere, è considerata indispensabile all'economia clientelare del Sud. Gli stessi uomini politici che Bossi può impunemente definire ladri e corrotti nelle piazze di Varese e di Brescia, sono apprezzati e votati come notabili nelle piazze di Reggio Calabria e di Napoli. Come Inghilterra e America sono divise dalla diversa pronuncia della stessa lingua, così l'Italia settentrionale e meridionale sono divise da una diversa percezione della stessa classe dirigente. Non è il fumoso federalismo di Bossi che sta spaccando l'Italia, ma il giudizio diametralmente opposto che il Sud e il Nord danno dello stesso regime.
Ambedue i giudizi sono tragicamente sbagliati. Il Sud commette un errore se crede, nelle attuali circostanze economiche, di poter continuare a vivere di pensioni immeritate, impieghi produttivi, infrastrutture artificiose, cattedrali nel deserto e appalti truccati. E il Nord, a stia volta, commette un errore se crede che un Paese possa vivere senza politica o possa agganciarsi all'Europa condannando senza appello tutta la classe dirigente che lo ha governato in questi anni. L'Italia è ormai stretta come in una morsa fra lo statalismo parassitario del Sud e il disprezzo qualunquista per la politica al Nord. Né dall'uno né dall'altro può venire al Paese un barlume di salvezza.
Non è facile rompere questo circolo vizioso, perché gli uomini che debbono farlo sono, al Nord, sul banco degli imputati. Ma se questa classe dirigente vuole evitare di essere travolta da un massiccio voto di sfiducia, deve perseguire con serietà tre obiettivi. Il primo spetta al governo: risanare il bilancio con misure severe ed efficaci, senza dar retta a proteste corporative e a proposte irresponsabili. Il secondo spetta al Parlamento: riformare le istituzioni, senza attendere che le riforme vengano imposte a colpi di referendum. Il terzo spetta ai partiti: smantellare gli apparati, abbandonare le posizioni di potere che hanno occupato nella società, congedare i vecchi leader e rinnovare i quadri dirigenti. Non sappiamo se la classe politica sarà capace di perseguire questi obiettivi con serietà. Sappiamo soltanto che se non vi riuscirà avrà regalato alla Lega, nel Nord, e in parte anche nel Sud, un potere per cui essa non ha né idee né uomini.


Quante Italie? / Smemoranda

II "buon maestro" e il "cattivo maestro"

Il "buon maestro"
Giorgio Bocca numero 1: "La scoperta dell'Italia", Laterza, l963, pagg. 381-82, dal capitolo "Cose del Sud".

"... E' cominciata che il Nord accogliendo i meridionali li trattava dall'alto in basso, li calunniava, li correggeva senza troppa comprensione e siamo al punto che nessun settentrionale onesto può più desiderare una restaurazione, nessuno può più rinunciare alla meridionalizzazione avvenuta. Non solo per motivi economici, ma anche per l'evidente tonificazione della vita sociale e intellettuale. Torino non è più triste come alcuni anni fa, Milano è sempre più la città di tutti, Genova apre qualche spiraglio psicologico solo grazie ai meridionali".
"Certo si può sempre fare dell'ironia sul Meridione umanistico e retorico; sulla cultura di Foggia basata sulla memoria del mitico re Dauno che dà il nome a circoli filodrammatici e cooperative del latte; si può castigare il superstite gallismo, mortificare l'eccessiva diffidenza, correggere le tendenze anarchiche del Meridione, ma si deve ammettere, sinceramente, che esso da all'uomo del Nord quello splendore dell'animo e quella voglia di vivere che erano in parte appannati".
"L'incontro fra settentrionali e meridionali si rivela quasi sempre come inter pares; chi avesse voluto applicare a tale incontro i metodi buoni per i Paesi sottosviluppati avrebbe commesso un errore grossolano, perché è un'antica verità, ma spesso riscoperta, che le strutture culturali del Sud sono nettamente superiori al suo livello economico ...."

Il "cattivo maestro"
Giorgio Bocca numero 2: "L'inferno", Mondadori, 1992, pagg. 268-69, dal capitolo "Mentire non serve".

"... Qualunque sia il luogo, la ragione, il pubblico fra cui si discute la questione meridionale, è inevitabile che ritornino le vecchie menzogne, le antiche consolazioni, le parole inutili. E' chiusa, dovrebbe essere chiusa una volta per sempre la favola di un Mezzogiorno ricco e prospero sacrificato all'imperialismo industriale del Nord. Perché una differenza di potere industriale e finanziario c'era, ma irrilevante rispetto al baratro della differenza sociale e civile. Certo sarebbe stato più saggio graduare l'integrazione dell'industria meridionale, darle una maggiore protezione nei primi anni dell'Unità, ma il baratro era quello civile e non era stato il Nord a inventarlo o imporlo, si deve anzi dire onestamente che il primo regno fece quanto era nelle sue scarse possibilità per ridurlo. Non era colpa dei Savoia, o dei cavouriani o del Lombardo-Veneto, dei tessili biellesi o degli armatori genovesi, degli agrari emiliani se gli analfabeti nel Mezzogiorno erano nell'anno dell'Unità il novanta per cento della popolazione, se al Nord c'erano 67.000 chilometri di strade e al Sud 15.000 con molti villaggi collegati da tratturi e il trasporto delle merci era ancora affidato agli asini, ai muli, alle spalle degli uomini e al capo delle donne, se sotto Salerno non c'era neanche un chilometro di ferrovia, se 1.488 abitanti restavano isolati nell'inverno e con il maltempo per settimane, se c'era il latifondo mal coltivato e una piccola proprietà arretrata".
"... Il sottosviluppo del Sud è legato allo sviluppo del Nord? Siamo in uno di quei rapporti di forza in cui certamente il più forte approfitta dei suoi vantaggi, c'è stata certamente una volontà politica e del sistema nel suo complesso di mantenere le cose come stavano, ma come ci insegna Adamo Smith differenze economiche e opportunismo vengono dopo, molto dopo il gap civile, culturale".


Quante Italie? / Culture & destini

Pre-giudizi sul Sud

Ha sempre affascinato il concetto di "storia lenta" appreso da Braudel, di quella storia che scorre, come Un fiume sotterraneo e invisibile, parallela alla storia rapida raccontata nei libri.
Questa storia lenta, senza date, senza re e senza battaglie, è come una sostanza che viene da lontano e si è sciolta nel mare del vissuto e che poi salta fuori bruscamente o si ritrova in varie dosi negli eventi recenti.
E' saltata fuori, ad esempio, nei Balcani, e vediamo con quanta ferocia imperversa in Jugoslavia; in Russia ha determinato il crollo incruento del comunismo, in Israele opera ancora dal tempo della Bibbia, e cova in tanti altri luoghi del mondo, non esclusa l'Italia. E che altro è quello che sta accadendo in Lombardia e in tutto il Nord del Paese, se non una manifestazione di questa storia lenta che ignora il Risorgimento e tutto ciò che ha concorso a formare l'Unità, così come abbiamo imparato dai libri di scuola?
La storia lenta ha poco a che fare con la volontà degli uomini e più con l'inconscio dei popoli. Ha a che fare con l'antropologia, con gli archetipi, con i miti, con le sopravvivenze, la lingua, il dialetto, le tradizioni e le superstizioni, con tutte quelle cose, insomma, che concorrono a formare la "mentalità". La cultura dovrebbe consentirci di controllare e nel caso di trasformare i condizionamenti e i limiti della mentalità.
La "mentalità" nella maggioranza delle persone è più forte della cultura, e nel corso dei secoli si è affermata fino a diventare carattere degli individui e fino a modellare le forme della vita sociale. "I processi di trasformazione di una mentalità, cioè di un insieme di credenze assorbite dalla tradizione in cui ci si forma - e che rispetto al proprio quotidiano comportamento rappresentano quei presupposti taciti che James Joll ha chiamato "unspoken assumptions" - sono processi che richiedono tempi lunghi e in cui il ruolo della cultura di élite non va sopravvalutato, perché accanto ad essa devono agire mutamenti profondi soprattutto sul piano economico e sociale" (D. Settembrini, "Storia dell'idea antiborghese in Italia, dal 1860 al 1969").
Ci siamo spesso domandato quanto gioca a Napoli lo scarto tra la cultura (appresa) e la mentalità (ricevuta). Questo scarto è una costante tragica della nostra storia, e se ne videro le conseguenze sanguinose con Masaniello e nella Rivoluzione del '99. Ancora oggi Napoli è città europea per storia e civiltà, ma a causa della mentalità prevalente tende sempre più ad assumere il carattere di città mediterranea. La nostra cultura dovrebbe fare i conti con questa mentalità e sull'uso che essa fa del "colore locale"; senza corteggiarla, come fa, o ignorarla. Una delle chiavi per interpretare l'arretratezza italiana - non solo a Napoli e nel Sud, ma anche a Nord - è proprio il prevalere delle mentalità. E' un'arretratezza che nasce dal conflitto di tante mentalità separate, incapaci di percepire un interesse particolare, senza ideali (se non retorici) e piene di pregiudizi reciproci. E' l'arretratezza di un Paese malato di populismo, che ha confuso la democrazia col pluralismo inconcludente, gridato nelle piazze e amplificato dalla televisione. E' l'arretratezza di un Italia dominata dall'emergere di relitti di un passato da "Batracomiomachia" e da "Secchia rapita".
Solo dove non c'è libertà si ha un destino. Solo chi se lo è voluto ha un destino. Il destino è una delle tante forme dell'immobilità. L'immobilità è la ripetizione (di gesti, parole, comportamenti). La sottocultura delle piccole identità locali produce la "mentalità" (che arriva stilla corrente della storia lenta) ed è la mentalità che si fissa in un destino.
La mentalità ha un concetto del bene e del male che non corrisponde a quello della morale comunemente accettata, e spesso è al di là del bene e del male. Così sono anche i comportamenti dettati dalla mentalità. La mentalità ha le sue ragioni che la ragione non ammette.
In Italia, accanto alle cose che si muovono, ci sono tante mentalità e destini fissi. Sicilia, Sardegna, Calabria: destini... E su, nel Nord, nel Veneto, in Piemonte, sulle Alpi, quanti sono i paesi e le contrade dove si annida inestirpabile un medioevo psichico sotto le apparenze della modernità?
La corruzione delle mentalità venute improvvisamente a contatto con la modernità ha rafforzato nel Sud mafie e camorre di vario genere; nel Nord ha prodotto la degenerazione della Morale del profitto (tangenti). Ogni mentalità si corrompe a modo suo, riproponendo i suoi Miti C i suoi riti, le sue sopravvivenze.
Ogni mentalità nutre e si nutre di pregiudizi. E' sul terreno delle mentalità che la cultura deve affrontare il Nemico. E' lì che la cultura deve "operare" per vincere il destino.
La mentalità è omologante. Questa omologazione all'interno della propria piccola identità è più forte di quella della modernità egemone dell'Occidente, che tenderebbe - si dice - a cancellare e livellare ogni diversità.
Quando l'omologazione antropologica è così forte, è difficile essere veramente degli individui liberi e indipendenti. Perciò a Sud chi riesce ad esserlo - e sono in tanti - è veramente un uomo eccezionale.


Quante Italie? / Terroni del mondo

Da yankee a bastard

Una trentina di anni fa il tribunale di un paese del Piemonte giudicò l'editore Feltrinelli e lo stampatore Milano per pubblicazione oscena. Si trattava di un modesto romanzo americano, "Un malinteso da cento dollari", ormai caduto nell'oblio, la cui protagonista è una prostituta di colore. Gli imputati, difesi con affascinante dottrina, vennero assolti. La parola che più aveva ferito gli individui timorati autori della denuncia era un termine gergale originariamente offensivo, diretto per o più ai neri americani: motherfucker. La parola, resa alla lettera come inesattamente aveva fatto la traduttrice, suggerisce l'idea di un incesto tra madre e figlio, e dunque risulta alquanto più offensiva di "terrone". Ma si tratta pur sempre di vedere in che contesto viene usata; inoltre, con il tempo si è per così dire diluita, tanto da equivalere, grosso modo, a "figlio di una buona donna". Di qui, il fatale zelo della traduttrice. Nessun nero americano citerebbe in giudizio un bianco che oggi lo chiamasse motherfucker. Semmai, risponderebbe per le rime.
Lo stesso discorso vale per un termine ben più corrente, come bastard, suscettibile dì svariate sfumature, cosicché poor bastard può significare, con un moto di simpatia, "poveraccio" o "povero sciocco". Nessun irlandese si offende se gli danno del matto, secondo un'espressione assai corrente, crazy Irishman. Gli italiani tollerano di essere chiamati wops, i messicani greasers (dalla pelle grassa, o dai capelli unti di brillantina); i francesi, forse più suscettibili, sopportano comunque la definizione inglese e americana di "mangiarane".
Per tacere dell'ampio ventaglio di parole originariamente spregiative che si indirizzano agli africani, agli indiani, ai cinesi, agli asiatici in genere.
Non per questo, s'intende, etichette verbali sprezzanti si giustificano, ed è un fatto indicativo che si trovino più di frequente nel linguaggio di popoli o etnie convinte della propria superiorità, o che, a somiglianza di tutta una serie di facezie, traggano origine nella società urbana e colpiscano il contado o le minoranze marginalizzate. Altri bersagli sono, costantemente, le popolazioni coloniali, di cui si tende a sottolineare la rozzezza e la primitività. Sotto questo profilo, gli Stati Uniti forniscono uno degli esempi più clamorosi. Gli inglesi, ad onta della comune appartenenza etnica e linguistica, cominciarono presto a ironizzare su di loro. Già nel Settecento si mettevano alla berlina in Inghilterra gli "americanismi" nella lingua quale indice di volgarità. Quando i coloni americani decisero addirittura di conquistare l'indipendenza combattendo contro la madrepatria, gli inglesi coniarono un termine spregiativo per designare gli abitanti della Nuova Inghilterra, estendendolo poi a tutti gli americani del Nord: yankee.
La parola è di origine misteriosa e si riferisce probabilmente alla cadenza americana, e alla rozzezza degli americani, veri e propri zucconi. Le vittime, però, si impadronirono spiritosamente del termine, adottando persino una canzoncina ironica, intitolata Yankee doodle, divenuta famosa in tutto il mondo, e utilizzata sin dagli anni Quaranta come sigla Musicale delle trasmissioni della Voce dell'America.
Ma la storia non finisce qui. Se infatti, nel mondo, yankee sta per americano in generale, per gli amici e i nemici (pensiamo al logoro ma ancora vivo yankee go home) negli Stati Uniti, a partire dalla guerra di secessione, indica il Nord. Quando un sudista chiama yankee un compatriota nordista, non gli tributa certo omaggio, in una specie di "terrone" alla rovescia, e viene magari ricambiato con un craker, fanfarone, e anche redneck, collorosso, termini usati anche dai neri.
Bisogna dire che gli americani della propria supposta rozzezza non si sono mai vergognati. E giacché infuria in Italia il dibattito sul nostro inno nazionale, conviene rammentare che quello americano, "La bandiera trapunta di stelle" (The Star Spangled Banner), ad onta della severa nobiltà del suo testo, si appropriò della musica di una canzone di osteria, neppure tanto castigata. Anni or sono, gruppi di preoccupati cittadini proposero di cambiarla, ma la discussione, in un primo tempo accesa, finì tra le risate.
Del resto, gli epiteti spregiativi sono legati al momento storico, e soggetti a infiniti sviluppi. Nell'età elisabettiana, il primo, elementare football era sport tipico delle classi inferiori. Così, nel "Re Lea" di Shakespeare, un servo infedele viene apostrofato di: You base football player, "tu spregevole giocatore di calcio". Oggi potrebbe apparire quasi una patente, se non di nobiltà, almeno di prestigio.


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