Per Verri




Aldo Bello



Finalmente possiamo tornare al nostro quotidiano: agli orari di lavoro stabiliti per legge, agli eroici straordinari, alle feste paesane, ai chiacchericci salottieri, al circolo cittadino, al bricolage del sabato pomeriggio. Avevamo perso di vista i rituali del nostro quietismo comportamentale, ci erano saltati i bioritmi, ci si era appannata persino l'ironia afosa con cui avevamo astutamente patinato i nostri vuoti culturali.
Per non perderci del tutto eravamo corsi ai ripari: fra gli opulenti menhir di Yverdon, schierati su campi d'erba ben pettinati, avevamo ascoltato le ipotesi narrative di Astalos e le acrobazie giullaresche della poesia di Delgado; a Neuchâtel il giordano Abu Rubb aveva cantilenato versi come echi portati dal vento rosso del deserto, facendoci sognare carovane in marcia fra le dune e verdi pupille caucasiche balenanti in perduti Topkapi; a Zurigo avevamo cercato l'albergo degli immigrati in livrea, divorato dalle pale meccaniche nel nome di un efficiente boulevard. Un salentino bestemmiava contro gli svizzeri che non capivano le cicorie selvatiche e i rosolacci, e lui diceva: "Andrò in Spagna, per le carte di Benjamin". Sempre lì, a costringerci a pensare, con quei suoi lunghi treni mai fermi, nello sguardo paesaggi obliqui ("Il mare, no: dà stolte malinconie"), e un altro progetto gettato così, come un gioco di dadi, per perdersi l'anima.
Perché aveva solo un baricentro interno: e il resto del mondo vi faceva capo. Non era dato altrimenti, come per chiunque abbia memorizzato le parole, restituendole con significati definitivi. Nessun sostantivo inutile, i punti interrogativi sulla sua faccia saracena, da coltissimo e incantevole Saladino, e il pensiero giù oltre, imprendibile a volte, da tagliare il respiro. Per questo sapeva volare, lui che era di radici sicure e di grandi mani. E noi ad arrancare a quote basse, per non perderlo di vista, capaci - per questo - anche di piccoli inganni e di risibili insolenze.
In realtà, ci metteva a nudo, curli spogliati dalla corda timoniera nei lanci al cerchio, il suo e nostro cerchio vitale volitivo volante. Ammarato, ora, dopo l'ultimo volo, solo suo, in un cielo irto di ulivi. Un grido rosso, e di notte, ci ha trafitto il costato, le parole sono fiotti gutturali che tornano a giorni e luoghi come facce di dadi bianchi, il numero vincente è sogno, si possono scrivere solo lettere per l'altra riva. Maledetti amici suoi: dobbiamo tornare a noi stessi, allo scirocco delle nostre accademie, alle parentesi chiuse. Perché non fermenta più il pane sotto la neve.


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