Nonostante
l'imperversare della crisi economica, alcuni fra imprenditori, economisti
e statisti intravedono segnali di ripresa dell'apparato produttivo nazionale.
Non per l'occupazione però. Le cui sorti in Italia appaiono ormai
segnate. E' mancata una sana politica industriale. Ora per le imprese
non sembrano esserci alternative. Il costo della crisi va comunque pagato
dai lavoratori se non si vuole incorrere nel rischio di una vera e propria
deindustrializzazione, con conseguente consolidarsi della tendenza al
trasferimento delle imprese all'estero, dove la manodopera può
essere ottenuta a più basso prezzo.
Stato dell'impresa e stato dell'occupazione seguono ormai sorti opposte.Il
progresso tecnologico agisce come una scure sulla forza lavoro, rendendo
inutili migliaia di addetti e consentendo alle imprese di migliorare
in competitività, innovatività ed efficienza. L'apertura
dei mercati europei renderà più agguerrita la concorrenza
e sarà proprio sul contenimento del fattore umano che si giocherà
in gran parte la sfida del 2000.
Di fronte a questo scenario, gli ottimismi attuali non possono che esprimere
Una realtà monca che tralascia il dramma vissuto da una parte
consistente della popolazione, che guarda soltanto alle prospettive
di aumento della ricchezza nazionale e non anche all'equa distribuzione
della stessa. D'altro canto, notevole è la difficoltà
ad intraprendere un discorso che affronti in maniera globale e non contraddittoria
le problematiche relative all'impresa e al lavoro, a due mondi, cioè,
estremamente conflittuali, benché indissolubili. Tuttavia il
tentativo va fatto, se non vogliamo arrenderci ad una storia vecchia
come il mondo, in cui il progresso civile dei popoli cede definitivamente
il passo alla legge della giungla, alla legge del più forte.
Lo stato dell'impresa
Il 1992 spezza ed inverte la tendenza all'aumento delle attività
d'impresa, consolidatasi durante gli anni '80: sono in 90.000, infatti,
gli imprenditori che hanno rinunciato a continuare un'attività
in proprio. Un fenomeno che ha colpito indistintamente tutte le regioni,
anche quelle di recente industrializzazione dove cioè più
forte è stata la spinta propulsiva di nuove imprese. E' il
crollo del Triveneto, dell'Emilia Romagna, delle Marche e della Toscana.
Se si guarda ai settori sui quali maggiormente si è abbattuta
la crisi, ci si accorge che non si tratta dei settori cosiddetti maturi,
ma proprio di quelli innovativi, di settori di punta come l'informatica,
le telecomunicazioni, l'aeronautica.
Dall'analisi dei tassi di iscrizione (rapporto tra iscrizioni '91
e '92) emerge che i settori più dinamici sono stati quelli
del credito, delle assicurazioni, dei servizi alle imprese e del noleggio,
che si sono distaccati di un punto e mezzo dalla media nazionale (7,2%),
con un tasso di iscrizione pari all'8,7%. Di questo risultato si sono
avvantaggiate soprattutto Rieti, Cuneo, Catania e Modena. Le cessazioni
hanno invece riguardato il settore alimentare, quello dei trasporti
e del commercio. Le città più colpite sono state Bolzano,
Caltanissetta, Cuneo, Trieste e Trapani.
Rieti è al primo posto fra le città a più alto
tasso di crescita (2,3%). Ma il dato a sorpresa è che a poca
distanza seguono ben tre città meridionali: Catania, Caserta
e Salerno. Questo risultato viene confermato dai dati regionali che
pongono Campania e Lazio in cima alla classifica delle aree a più
alta crescita, mentre il Trentino Alto Adige si colloca all'ultimo
posto.
Più in particolare, mentre a livello nazionale il tasso di
crescita risulta negativo (-0,1%), al Sud, con la sola eccezione della
Basilicata, il dato cambia segno. Nel Centro-Nord, invece, solo Lazio
e Lombardia registrano valori superiori alla media. Valle d'Aosta,
Veneto e Toscana non si discostano dal dato nazionale, mentre va proprio
male per le restanti regioni.
La forma sociale più penalizzata dalla crisi è quella
della ditta individuale. Infatti il corrispondente tasso di crescita
assume valori negativi in tutte le regioni. Le società di capitale,
invece, vanno bene e registrano il più alto tasso di crescita
nel Molise. Analogo risultato, in Campania, per le società
di persone.
Dove va l'occupazione
Nel corso degli anni Ottanta abbiamo assistito ad un notevole aumento
della produttività dell'industria. Ma sarà nei prossimi
anni che i massicci investimenti in hardware e software effettuati
dalle imprese si manifesteranno in tutta la loro portata. Ulteriore
fattore penalizzante per l'occupazione sarà la rilocalizzazione
degli impianti verso quei paesi, dall'Est europeo all'Estremo Oriente,
dove minore è il costo della manodopera.
Le varie stime spesso non coincidono, nonostante evidenzino tutte,
per i prossimi anni, un notevole calo della forza lavoro occupata.
Le previsioni più negative vengono dagli osservatori sindacali.
Secondo l'osservatorio della CGIL, la perdita complessiva fra il 1992
e il 1995 sarà di almeno 352 mila unità di lavoro, al
contrario di quanto ipotizzato dall'Ispe le cui stime, molto meno
inquietanti, non terrebbero conto della spinta negativa legata all'innesto
di massicce dosi di tecnologia. A conclusioni analoghe perviene la
CISL, secondo cui sarebbero circa 465 mila i lavoratori messi in cassa
integrazione o in mobilità con scarsissime possibilità
di riassorbimento, 365 mila dei quali riguarderebbero la sola industria.
In pratica, non c'è nulla che lasci sperare in un futuro rientro
della forza lavoro espulsa dalla crisi. Lo sviluppo non potrà
mai essere tale da soddisfare al tempo stesso un alto tasso di tecnologia
e un alto tasso di Occupazione. E mentre in passato l'applicazione
di innovazioni ai processi produttivi ha comportato un maggior uso
di personale, oggi il processo si inverte e provoca anche l'espulsione
di coloro che sono serviti a modernizzare l'impresa.
La Confindustria cerca di sdrammatizzare intravedendo in alcune imprese
comportamenti decisamente in controtendenza rispetto al clima di fiducia
innescato dalla crisi economica. Si tratta di imprese del ramo alimentare
e delle macchine utensili, settori, in verità, poco toccati
dalla crisi. Soprattutto l'alimentare. Ma da qui a vedere una ripresa
anche occupazionale ce ne vuole. L'espansione di questi settori riuscirà
a compensare solo in misura molto modesta le perdite subite dagli
altri comparti. Si tratta di grandi cifre nei cui confronti il numero
di assunzioni effettuate da alcuni "coraggiosi" si riduce
ad un granello di sabbia.
Imprese all'osso
Prima dicevamo che la crisi non ha risparmiato quasi nessuno. Settori
maturi e settori innovativi hanno in comune l'esigenza di ristrutturarsi,
di espellere il personale in eccedenza. In alcuni comparti, poi, non
c'è proprio più niente da tagliare né da recuperare
sul lato dell'occupazione.
Neppure se in futuro le cose andassero per il verso giusto. In altri
termini, non esiste più alcun automatismo fra ripresa e occupazione.
Così è per il gruppo Olivetti che è stato il
primo nell'informatica a decidere di ridurre il proprio organico.
Dal 1990 ad oggi sono stati espulsi 16.500 dipendenti sii un totale
di 56 mila. Stessa sorte toccherà ai lavoratori attualmente
impiegati nelle altre imprese del settore: Ibm, Bull, Digital contano
di ridurre il numero dei propri addetti ad una quota pari al 25-30%
nel giro di due o tre anni. I tagli riguarderanno soprattutto gli
operai di produzione. Saranno cioè di ordine essenzialmente
strutturale. Infatti, mentre in passato per montare un personal computer
occorrevano quattro ore di lavoro, oggi con l'utilizzo di componenti
sempre più compatti e standardizzati, è sufficiente
un'ora e mezza. D'altro canto siamo in presenza di impianti in grado
di raddoppiare la produzione attuale, solo che il mercato sia disposto
di accoglierla, senza aumentare neppure di una unità il numero
di addetti esistente.
Ma la crisi nell'informatica non è solo operaia. A rischio
sono anche i colletti bianchi, dai quali pure occorre recuperare efficienza.
Anche perché la drastica contrazione dei prezzi dei prodotti
ha letteralmente divorato i margini di guadagno e questo non può
che imporre una dieta ferrea per tutti. Nel settore, sono circa 1500
gli impiegati in esubero previsti per il 1993.
Altro esempio del processo inesorabile di contrazione della forza
lavoro occupata è dato dal settore delle telecomunicazioni,
che conta un calo fisiologico pari in media al 10% annuo, per effetto
delle trasformazioni tecnologiche. Se a ciò si aggiunge la
necessità di accelerare i tempi dell'innovazione imposta dalla
presenza sul mercato europeo di aziende altamente competitive il problema
emerge in tutta la stia gravità. I tagli previsti per il '93,
dopo i ridimensionamenti ottenuti a seguito delle trattative sindacali,
sono di 1.425 addetti. Posti non più recuperabili, viste le
difficoltà croniche in cui versa il comparto. Neppure il settore
della ricerca sarà di aiuto ad alleggerire il peso delle espulsioni,
al contrario di quanto accadeva in passato.
La Fiat non sembra invece seguire la strada dei licenziamenti. Certo,
la strategia perseguita dal gruppo non è delle più popolari.
La chiusura degli stabilimenti di Chivasso e di Desio e la costruzione
nel Mezzogiorno di Melfi e Pratola Serra lascia molti dubbi. Perché
un gruppo come la Fiat trova più convenienza ad investire al
Sud, quando non esiste in queste terre un terreno fertile per l'insediamento
industriale? Se lo chiedono in molti nel Paese. A parte questo, un
dato che lascia sperare è che la Fiat è riuscita a fronteggiare
i rallentamenti produttivi derivanti dalla contrazione delle vendite
con la cassa integrazione ordinaria. Il futuro della stessa occupazione
si gioca sul successo dei nuovi modelli, primo fra questi la "Tipo
B", che andrà a sostituire la "Uno" nel più
grosso segmento di mercato delle vetture di cilindrata medio-bassa.
Per la cui produzione, tuttavia, il gruppo torinese ha richiesto turni
di notte a Mirafiori per 4.800 operaie ed operai senza che nulla possa
essere loro concesso in cambio, né riduzioni di orario, né
alleggerimenti del lavoro sulle catene di montaggio.
Più critica è certo la situazione dell'azienda di impiantistica
controllata dalla Fiat, la Comau, che conta 750 esuberi su 2700 dipendenti.
Alla base delle difficoltà dell'impresa stanno ragioni di ordine
congiunturale e strutturale. Alle prime si riconduce l'ormai imminente
completamento delle megacommesse di Melfi e di Pratola Serra e alla
estrema difficoltà di immaginare altre iniziative di quella
portata per l'immediato futuro. Altro motivo di natura congiunturale
è il venir meno di un altro grande cliente, la Russia, che
contava il 20% del fatturato e che è ora bloccato dalla crisi
economica e valutaria. Dal punto di vista strutturale, invece, l'impresa,
sempre cresciuta nell'ambito delle commesse Fiat, deve ora darsi da
fare per rendersi competitiva anche nei confronti di clienti diversi
dal gruppo torinese. Altro nodo strutturale è quello dell'esistenza
di grandi impianti molto automatizzati, a fronte di una tendenza da
parte delle aziende dell'auto all'adozione di linee di dimensioni
più ridotte e flessibili, adattabili a modelli diversi.
Dai comparti più innovativi a quelli cosiddetti maturi. La
situazione è ugualmente drammatica, come ci dimostrano i migliaia
di posti di lavoro a rischio nei settori della chimica e della siderurgia.
L'Enichem avrebbe dovuto terminare il processo di ristrutturazione
tiri anno fa, a seguito della chiusura di 30 impianti ex Enimont non
più competitivi. In realtà, i problemi sono rimasti
e la sorte degli attuali 33 mila dipendenti non è affatto scontata.
A rischio è anche la struttura amministrativa del gruppo. Circa
2.500 fra impiegati e dirigenti saranno fatti fuori entro il 1994.
Drammatica è poi la situazione dell'intero settore dell'agricoltura,
anch'esso gestito dall'Enichem, con una perdita di esercizio di un
miliardo di lire al giorno e circa 3.200 lavoratori 4 rischio. Ma
le cose vanno male anche per il campo strategico dell'Enichem, quello
relativo alla filiera etilene e derivati, plastiche, elastometri su
cui pesano problemi di natura congiunturale e strutturale. Da un lato,
infatti, tale settore soffre della drastica caduta dei prezzi internazionali
di numerosi prodotti, a causa della sovraccapacità produttiva
e del dumping esercitato da molti produttori dell'Est europeo. Dall'altro
lato, sul comparto pesa l'eccessiva frammentazione di molte produzioni
in stabilimenti diversi. Un problema per la cui soluzione sarebbe
indispensabile una dose massiccia di investimenti che il gruppo non
può però effettuare, a causa dell'enorme deficit del
proprio bilancio.
Ma chi vive la crisi in tutta la sua portata è il settore siderurgico.
Su di esso si abbattono problemi strutturali relativi all'intero settore
dell'acciaio in Europa. La Cee ha chiesto tagli alla produzione pari
a 30 milioni di tonnellate di acciaio grezzo e 20 milioni per i laminati.
Tradotto in termini di perdita di risorse umane, questo significa
l'espulsione di circa 50.000 lavoratori. Ovviamente, i paesi dove
i tagli sarebbero maggiori sono quelli in cui il settore è
veramente allo sfascio. E l'Italia è certamente fra questi.
L'Ilva ha raggiunto i 1500 miliardi di perdite nel '92. Il gruppo,
che oggi conta 38.500 dipendenti, ne ha già eliminati 30.000
nel giro di quattro anni. Attualmente sono in cassa integrazione in
attesa di licenziamento altri 5.400 lavoratori. E non si capisce ancora
quale sarà il destino dello stabilimento di Taranto a cui è
in gran parte legata la sorte dell'intero settore industriale di questa
città che, tra l'81 e il '91, ha perso circa 14.000 addetti.
Nel 1992, di fronte ad un calo della domanda del 6-7%, il settore
siderurgico ha subito un calo dei prezzi del 30%. La siderurgia italiana
non solo continua ad essere colpita dai concorrenti turchi ed algerini,
ma deve fare i conti anche con i produttori dell'Est europeo che vantano
un'apprezzabile tradizione siderurgica, abbondanza di energia e manodopera
a basso costo.
Chi investe
all'Est
E' proprio dal settore siderurgico che si leva il pericolo fortemente
attuale di uno spostamento di risorse ed investimenti all'estero,
nei paesi post comunisti dell'Est Europa, soprattutto Polonia ed ex
Repubblica democratica tedesca, meta preferita dai siderurgici bresciani.
"La differenza con Paesi come la Polonia - sostiene Luigi Lucchini,
ex presidente della Confindustria - sta soprattutto nei costi di produzione:
quello della manodopera è dieci volte inferiore. Non c'è
quindi tanto da indignarsi nei confronti delle imprese che emigrano
all'Est. Gli imprenditori fanno il proprio mestiere e non possono
che seguire la legge del profitto. Se in Lino Stato quella legge viene
ad essere mortificata dai costi, l'impresa chiude o se ne va. Ma ci
sono anche altri vantaggi nell'investire all'Est: mentre il mercato
nazionale è saturo e ristretto, là c'è una situazione
che ricorda quella italiana dopo il 1945, quando c'era da avviare
l'opera di ricostruzione post-bellica". E c'è già
chi in quest'ottica si è mosso: così la Feralpi, un'industria
che sforna 500 mila tonnellate di acciaio all'anno, ha deciso di bloccare
la costruzione di un nuovo stabilimento in Italia e di investire in
Sassonia, nell'ex Ddr, per uno stabilimento in grado di produrre 300
mila tonnellate di tondo per cemento armato l'anno. Le condizioni
per investire con profitto lì ci sono tutte, come appunto c'erano
in Italia ai tempi della ricostruzione. A Varsavia, la Lucchini ha
assunto il controllo della Huta Warzawa, una grande acciaieria che
una volta ristrutturata sarà in grado di produrre un milione
di tonnellate di acciaio all'anno.
In Polonia, la Fiat ha privatizzato la Fsm rilevando 8 stabilimenti
con 19 mila lavoratori. Qui si produce la 126 e la nuova Cinquecento.
L'idea del gruppo è di riuscire a convincere un numero consistente
di subfornitori a spostarsi definitivamente in Polonia e arrivare
a produrre in questo Paese il 60% della nuova Cinquecento. Ciò
significherebbe invertire le percentuali attuali in base alle quali
solo il 40% della vettura è prodotto in Polonia, il restante
60% è importato dall'Italia. Il tutto, ovviamente, al fine
di contenere i costi ed accrescere la competitività.