§ Impresa e lavoro

E' di scena la crisi




Maria Rosaria Pascali



Nonostante l'imperversare della crisi economica, alcuni fra imprenditori, economisti e statisti intravedono segnali di ripresa dell'apparato produttivo nazionale. Non per l'occupazione però. Le cui sorti in Italia appaiono ormai segnate. E' mancata una sana politica industriale. Ora per le imprese non sembrano esserci alternative. Il costo della crisi va comunque pagato dai lavoratori se non si vuole incorrere nel rischio di una vera e propria deindustrializzazione, con conseguente consolidarsi della tendenza al trasferimento delle imprese all'estero, dove la manodopera può essere ottenuta a più basso prezzo.
Stato dell'impresa e stato dell'occupazione seguono ormai sorti opposte.Il progresso tecnologico agisce come una scure sulla forza lavoro, rendendo inutili migliaia di addetti e consentendo alle imprese di migliorare in competitività, innovatività ed efficienza. L'apertura dei mercati europei renderà più agguerrita la concorrenza e sarà proprio sul contenimento del fattore umano che si giocherà in gran parte la sfida del 2000.
Di fronte a questo scenario, gli ottimismi attuali non possono che esprimere Una realtà monca che tralascia il dramma vissuto da una parte consistente della popolazione, che guarda soltanto alle prospettive di aumento della ricchezza nazionale e non anche all'equa distribuzione della stessa. D'altro canto, notevole è la difficoltà ad intraprendere un discorso che affronti in maniera globale e non contraddittoria le problematiche relative all'impresa e al lavoro, a due mondi, cioè, estremamente conflittuali, benché indissolubili. Tuttavia il tentativo va fatto, se non vogliamo arrenderci ad una storia vecchia come il mondo, in cui il progresso civile dei popoli cede definitivamente il passo alla legge della giungla, alla legge del più forte.

Lo stato dell'impresa
Il 1992 spezza ed inverte la tendenza all'aumento delle attività d'impresa, consolidatasi durante gli anni '80: sono in 90.000, infatti, gli imprenditori che hanno rinunciato a continuare un'attività in proprio. Un fenomeno che ha colpito indistintamente tutte le regioni, anche quelle di recente industrializzazione dove cioè più forte è stata la spinta propulsiva di nuove imprese. E' il crollo del Triveneto, dell'Emilia Romagna, delle Marche e della Toscana.
Se si guarda ai settori sui quali maggiormente si è abbattuta la crisi, ci si accorge che non si tratta dei settori cosiddetti maturi, ma proprio di quelli innovativi, di settori di punta come l'informatica, le telecomunicazioni, l'aeronautica.
Dall'analisi dei tassi di iscrizione (rapporto tra iscrizioni '91 e '92) emerge che i settori più dinamici sono stati quelli del credito, delle assicurazioni, dei servizi alle imprese e del noleggio, che si sono distaccati di un punto e mezzo dalla media nazionale (7,2%), con un tasso di iscrizione pari all'8,7%. Di questo risultato si sono avvantaggiate soprattutto Rieti, Cuneo, Catania e Modena. Le cessazioni hanno invece riguardato il settore alimentare, quello dei trasporti e del commercio. Le città più colpite sono state Bolzano, Caltanissetta, Cuneo, Trieste e Trapani.
Rieti è al primo posto fra le città a più alto tasso di crescita (2,3%). Ma il dato a sorpresa è che a poca distanza seguono ben tre città meridionali: Catania, Caserta e Salerno. Questo risultato viene confermato dai dati regionali che pongono Campania e Lazio in cima alla classifica delle aree a più alta crescita, mentre il Trentino Alto Adige si colloca all'ultimo posto.
Più in particolare, mentre a livello nazionale il tasso di crescita risulta negativo (-0,1%), al Sud, con la sola eccezione della Basilicata, il dato cambia segno. Nel Centro-Nord, invece, solo Lazio e Lombardia registrano valori superiori alla media. Valle d'Aosta, Veneto e Toscana non si discostano dal dato nazionale, mentre va proprio male per le restanti regioni.
La forma sociale più penalizzata dalla crisi è quella della ditta individuale. Infatti il corrispondente tasso di crescita assume valori negativi in tutte le regioni. Le società di capitale, invece, vanno bene e registrano il più alto tasso di crescita nel Molise. Analogo risultato, in Campania, per le società di persone.

Dove va l'occupazione
Nel corso degli anni Ottanta abbiamo assistito ad un notevole aumento della produttività dell'industria. Ma sarà nei prossimi anni che i massicci investimenti in hardware e software effettuati dalle imprese si manifesteranno in tutta la loro portata. Ulteriore fattore penalizzante per l'occupazione sarà la rilocalizzazione degli impianti verso quei paesi, dall'Est europeo all'Estremo Oriente, dove minore è il costo della manodopera.
Le varie stime spesso non coincidono, nonostante evidenzino tutte, per i prossimi anni, un notevole calo della forza lavoro occupata. Le previsioni più negative vengono dagli osservatori sindacali. Secondo l'osservatorio della CGIL, la perdita complessiva fra il 1992 e il 1995 sarà di almeno 352 mila unità di lavoro, al contrario di quanto ipotizzato dall'Ispe le cui stime, molto meno inquietanti, non terrebbero conto della spinta negativa legata all'innesto di massicce dosi di tecnologia. A conclusioni analoghe perviene la CISL, secondo cui sarebbero circa 465 mila i lavoratori messi in cassa integrazione o in mobilità con scarsissime possibilità di riassorbimento, 365 mila dei quali riguarderebbero la sola industria.
In pratica, non c'è nulla che lasci sperare in un futuro rientro della forza lavoro espulsa dalla crisi. Lo sviluppo non potrà mai essere tale da soddisfare al tempo stesso un alto tasso di tecnologia e un alto tasso di Occupazione. E mentre in passato l'applicazione di innovazioni ai processi produttivi ha comportato un maggior uso di personale, oggi il processo si inverte e provoca anche l'espulsione di coloro che sono serviti a modernizzare l'impresa.
La Confindustria cerca di sdrammatizzare intravedendo in alcune imprese comportamenti decisamente in controtendenza rispetto al clima di fiducia innescato dalla crisi economica. Si tratta di imprese del ramo alimentare e delle macchine utensili, settori, in verità, poco toccati dalla crisi. Soprattutto l'alimentare. Ma da qui a vedere una ripresa anche occupazionale ce ne vuole. L'espansione di questi settori riuscirà a compensare solo in misura molto modesta le perdite subite dagli altri comparti. Si tratta di grandi cifre nei cui confronti il numero di assunzioni effettuate da alcuni "coraggiosi" si riduce ad un granello di sabbia.

Imprese all'osso
Prima dicevamo che la crisi non ha risparmiato quasi nessuno. Settori maturi e settori innovativi hanno in comune l'esigenza di ristrutturarsi, di espellere il personale in eccedenza. In alcuni comparti, poi, non c'è proprio più niente da tagliare né da recuperare sul lato dell'occupazione.
Neppure se in futuro le cose andassero per il verso giusto. In altri termini, non esiste più alcun automatismo fra ripresa e occupazione. Così è per il gruppo Olivetti che è stato il primo nell'informatica a decidere di ridurre il proprio organico. Dal 1990 ad oggi sono stati espulsi 16.500 dipendenti sii un totale di 56 mila. Stessa sorte toccherà ai lavoratori attualmente impiegati nelle altre imprese del settore: Ibm, Bull, Digital contano di ridurre il numero dei propri addetti ad una quota pari al 25-30% nel giro di due o tre anni. I tagli riguarderanno soprattutto gli operai di produzione. Saranno cioè di ordine essenzialmente strutturale. Infatti, mentre in passato per montare un personal computer occorrevano quattro ore di lavoro, oggi con l'utilizzo di componenti sempre più compatti e standardizzati, è sufficiente un'ora e mezza. D'altro canto siamo in presenza di impianti in grado di raddoppiare la produzione attuale, solo che il mercato sia disposto di accoglierla, senza aumentare neppure di una unità il numero di addetti esistente.
Ma la crisi nell'informatica non è solo operaia. A rischio sono anche i colletti bianchi, dai quali pure occorre recuperare efficienza. Anche perché la drastica contrazione dei prezzi dei prodotti ha letteralmente divorato i margini di guadagno e questo non può che imporre una dieta ferrea per tutti. Nel settore, sono circa 1500 gli impiegati in esubero previsti per il 1993.
Altro esempio del processo inesorabile di contrazione della forza lavoro occupata è dato dal settore delle telecomunicazioni, che conta un calo fisiologico pari in media al 10% annuo, per effetto delle trasformazioni tecnologiche. Se a ciò si aggiunge la necessità di accelerare i tempi dell'innovazione imposta dalla presenza sul mercato europeo di aziende altamente competitive il problema emerge in tutta la stia gravità. I tagli previsti per il '93, dopo i ridimensionamenti ottenuti a seguito delle trattative sindacali, sono di 1.425 addetti. Posti non più recuperabili, viste le difficoltà croniche in cui versa il comparto. Neppure il settore della ricerca sarà di aiuto ad alleggerire il peso delle espulsioni, al contrario di quanto accadeva in passato.
La Fiat non sembra invece seguire la strada dei licenziamenti. Certo, la strategia perseguita dal gruppo non è delle più popolari. La chiusura degli stabilimenti di Chivasso e di Desio e la costruzione nel Mezzogiorno di Melfi e Pratola Serra lascia molti dubbi. Perché un gruppo come la Fiat trova più convenienza ad investire al Sud, quando non esiste in queste terre un terreno fertile per l'insediamento industriale? Se lo chiedono in molti nel Paese. A parte questo, un dato che lascia sperare è che la Fiat è riuscita a fronteggiare i rallentamenti produttivi derivanti dalla contrazione delle vendite con la cassa integrazione ordinaria. Il futuro della stessa occupazione si gioca sul successo dei nuovi modelli, primo fra questi la "Tipo B", che andrà a sostituire la "Uno" nel più grosso segmento di mercato delle vetture di cilindrata medio-bassa. Per la cui produzione, tuttavia, il gruppo torinese ha richiesto turni di notte a Mirafiori per 4.800 operaie ed operai senza che nulla possa essere loro concesso in cambio, né riduzioni di orario, né alleggerimenti del lavoro sulle catene di montaggio.
Più critica è certo la situazione dell'azienda di impiantistica controllata dalla Fiat, la Comau, che conta 750 esuberi su 2700 dipendenti. Alla base delle difficoltà dell'impresa stanno ragioni di ordine congiunturale e strutturale. Alle prime si riconduce l'ormai imminente completamento delle megacommesse di Melfi e di Pratola Serra e alla estrema difficoltà di immaginare altre iniziative di quella portata per l'immediato futuro. Altro motivo di natura congiunturale è il venir meno di un altro grande cliente, la Russia, che contava il 20% del fatturato e che è ora bloccato dalla crisi economica e valutaria. Dal punto di vista strutturale, invece, l'impresa, sempre cresciuta nell'ambito delle commesse Fiat, deve ora darsi da fare per rendersi competitiva anche nei confronti di clienti diversi dal gruppo torinese. Altro nodo strutturale è quello dell'esistenza di grandi impianti molto automatizzati, a fronte di una tendenza da parte delle aziende dell'auto all'adozione di linee di dimensioni più ridotte e flessibili, adattabili a modelli diversi.
Dai comparti più innovativi a quelli cosiddetti maturi. La situazione è ugualmente drammatica, come ci dimostrano i migliaia di posti di lavoro a rischio nei settori della chimica e della siderurgia. L'Enichem avrebbe dovuto terminare il processo di ristrutturazione tiri anno fa, a seguito della chiusura di 30 impianti ex Enimont non più competitivi. In realtà, i problemi sono rimasti e la sorte degli attuali 33 mila dipendenti non è affatto scontata. A rischio è anche la struttura amministrativa del gruppo. Circa 2.500 fra impiegati e dirigenti saranno fatti fuori entro il 1994. Drammatica è poi la situazione dell'intero settore dell'agricoltura, anch'esso gestito dall'Enichem, con una perdita di esercizio di un miliardo di lire al giorno e circa 3.200 lavoratori 4 rischio. Ma le cose vanno male anche per il campo strategico dell'Enichem, quello relativo alla filiera etilene e derivati, plastiche, elastometri su cui pesano problemi di natura congiunturale e strutturale. Da un lato, infatti, tale settore soffre della drastica caduta dei prezzi internazionali di numerosi prodotti, a causa della sovraccapacità produttiva e del dumping esercitato da molti produttori dell'Est europeo. Dall'altro lato, sul comparto pesa l'eccessiva frammentazione di molte produzioni in stabilimenti diversi. Un problema per la cui soluzione sarebbe indispensabile una dose massiccia di investimenti che il gruppo non può però effettuare, a causa dell'enorme deficit del proprio bilancio.
Ma chi vive la crisi in tutta la sua portata è il settore siderurgico. Su di esso si abbattono problemi strutturali relativi all'intero settore dell'acciaio in Europa. La Cee ha chiesto tagli alla produzione pari a 30 milioni di tonnellate di acciaio grezzo e 20 milioni per i laminati. Tradotto in termini di perdita di risorse umane, questo significa l'espulsione di circa 50.000 lavoratori. Ovviamente, i paesi dove i tagli sarebbero maggiori sono quelli in cui il settore è veramente allo sfascio. E l'Italia è certamente fra questi. L'Ilva ha raggiunto i 1500 miliardi di perdite nel '92. Il gruppo, che oggi conta 38.500 dipendenti, ne ha già eliminati 30.000 nel giro di quattro anni. Attualmente sono in cassa integrazione in attesa di licenziamento altri 5.400 lavoratori. E non si capisce ancora quale sarà il destino dello stabilimento di Taranto a cui è in gran parte legata la sorte dell'intero settore industriale di questa città che, tra l'81 e il '91, ha perso circa 14.000 addetti.
Nel 1992, di fronte ad un calo della domanda del 6-7%, il settore siderurgico ha subito un calo dei prezzi del 30%. La siderurgia italiana non solo continua ad essere colpita dai concorrenti turchi ed algerini, ma deve fare i conti anche con i produttori dell'Est europeo che vantano un'apprezzabile tradizione siderurgica, abbondanza di energia e manodopera a basso costo.

Chi investe all'Est
E' proprio dal settore siderurgico che si leva il pericolo fortemente attuale di uno spostamento di risorse ed investimenti all'estero, nei paesi post comunisti dell'Est Europa, soprattutto Polonia ed ex Repubblica democratica tedesca, meta preferita dai siderurgici bresciani. "La differenza con Paesi come la Polonia - sostiene Luigi Lucchini, ex presidente della Confindustria - sta soprattutto nei costi di produzione: quello della manodopera è dieci volte inferiore. Non c'è quindi tanto da indignarsi nei confronti delle imprese che emigrano all'Est. Gli imprenditori fanno il proprio mestiere e non possono che seguire la legge del profitto. Se in Lino Stato quella legge viene ad essere mortificata dai costi, l'impresa chiude o se ne va. Ma ci sono anche altri vantaggi nell'investire all'Est: mentre il mercato nazionale è saturo e ristretto, là c'è una situazione che ricorda quella italiana dopo il 1945, quando c'era da avviare l'opera di ricostruzione post-bellica". E c'è già chi in quest'ottica si è mosso: così la Feralpi, un'industria che sforna 500 mila tonnellate di acciaio all'anno, ha deciso di bloccare la costruzione di un nuovo stabilimento in Italia e di investire in Sassonia, nell'ex Ddr, per uno stabilimento in grado di produrre 300 mila tonnellate di tondo per cemento armato l'anno. Le condizioni per investire con profitto lì ci sono tutte, come appunto c'erano in Italia ai tempi della ricostruzione. A Varsavia, la Lucchini ha assunto il controllo della Huta Warzawa, una grande acciaieria che una volta ristrutturata sarà in grado di produrre un milione di tonnellate di acciaio all'anno.
In Polonia, la Fiat ha privatizzato la Fsm rilevando 8 stabilimenti con 19 mila lavoratori. Qui si produce la 126 e la nuova Cinquecento. L'idea del gruppo è di riuscire a convincere un numero consistente di subfornitori a spostarsi definitivamente in Polonia e arrivare a produrre in questo Paese il 60% della nuova Cinquecento. Ciò significherebbe invertire le percentuali attuali in base alle quali solo il 40% della vettura è prodotto in Polonia, il restante 60% è importato dall'Italia. Il tutto, ovviamente, al fine di contenere i costi ed accrescere la competitività.


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