§ Oltre il Tevere

Il Vaticano non ama Maastricht




G. Z.



I commenti vaticani al referendum francese sull'Europa di Maastricht risentono più delle aspettative tuttora inappagate di una reale democratizzazione della Grande Europa che del sollievo per lo scampato pericolo di dissoluzione della Piccola Europa esistente. "Maastricht certamente si farà", dice il presidente del Pontificio Consiglio per la Giustizia e la Pace, cardinal Roger Etchegaray. "Ma non si farà più così facilmente e non allo stesso modo che era previsto. Il cammino dell'Europa potrà avanzare, ma a patto di una revisione: l'Europa sociale reclama altrettanta considerazione che l'Europa monetaria o monetarista". Anche il presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, cardinal Paul Poupard, evita ogni accento trionfalistico: "I francesi si sono dimostrati più saggi dei loro dirigenti politici del momento. Hanno fiutato la trappola politica che veniva loro tesa. Essi hanno detto sì all'Europa. Ma non sono affatto soddisfatti di un socialismo che fa il contrario di quanto aveva promesso. Essi hanno detto di sì all'Europa, purché sia un'Europa per tutti, anche per i senza lavoro, per i più poveri, per coloro che non sono muniti di Deutsche Mark, e per gli sloveni, gli slovacchi, eccetera".
Secondo Poupard, l'Europa di Maastricht resta ancora troppo legata allo schema di Yalta: "Questo trattato non sembra tener conto della caduta del Muro di Berlino. I popoli dell'Est, che ho avuto occasione di ascoltare a Praga, non riescono a capire come si sia proposto alla Francia di dire di sì o di no a un trattato che li ignora. Non si parla che di monete, non dei milioni di europei senza lavoro. Dov'è l'Europa sociale? C'è un dramma della società a cui si propone una ricetta tecnologica senza cuore. In questo momento fondativo dell'Europa è bene che si abbia l'occasione di riflettere sul rischio di edificare un Muro di Berlino più forte di quello appena abbattuto".
Interpellando altri dirigenti vaticani, si può constatare che le loro opinioni non rinunciano alle inquietudini dei loro eminenti colleghi francesi. Sensibile a tutto ciò che in politica, in economia e in cultura si svolge sul destino dell'Europa, il Vaticano si esprime con un fondo di perplessità dinanzi alla sproporzione tra il progetto dell'Europa solidale, capace di respirare "a due polmoni", e la fondazione di un'Europa che gli appare "più dei banchieri che degli uomini", per usare una formula fortunata tra i critici vaticani di Maastricht. L'inquietudine emersa nella divisione della Francia al referendum su Maastricht al di là della vittoria legale del "sì" sembra riflettere alcuni motivi rilevanti dell'inquietudine vaticana, di fronte alla debolezza del progetto della Grande Europa sospirato da Papa Wojtyla quando ancora la sua Europa complessa - o "bipolmonare" - non poteva aspirare a costituirsi che come terza forza fra i due blocchi, capace di resistere tanto alle seduzioni del benessere materiale che alla minaccia delle armi e della sovversione.
Il tema dell'Europa "complicata" è da tempo motivo di rinnovamento e approfondimento del discorso vaticano sull'Europa. Fin dal saggio del 1978 "Una frontiera per l'Europa", l'allora cardinale Wojtyla aveva chiarito che era in nome di questa Europa complessa che si aveva ragione di contestare la divisione europea in due blocchi, una frontiera tanto più artificiosa quanto più irriducibile alla storia stratificata di questo continente: "forse anche l'uomo europeo non si identificherà mai con i processi dello sfruttamento, della produzione e del consumismo, organizzati in tale o tal'altro modo", aggiungeva l'arcivescovo di Cracovia. "Può invece minacciare l'uomo contemporaneo, l'alienazione connessa con tali processi, il profondo malessere della consapevolezza di se stesso e dell'umanità".
La convinzione di una tale complessità è quella che ha contribuito a distinguere il progetto dell'Europa di Wojtyla dalle visioni neomedievaliste dell'Europa cristiana, che non cessa di influenzare i comportamenti di alcuni settori Cattolici integralisti a favore di una riedificazione della cristianità. Ancor prima che il Sinodo paneuropeo dei vescovi nel 1991 accantonasse le pretese in questa direzione, Giovanni Paolo Il aveva provveduto a chiarire, nel discorso al Parlamento Europeo a Strasburgo nel 1988, che la restaurazione dell'antico ordine europeo fondato sulla legge religiosa, come pure l'integrismo religioso, "appare incompatibile con lo spirito proprio dell'Europa quale è stato caratterizzato dal messaggio cristiano".
Si può dire che se il Vaticano di Pio XII aveva appoggiato e in parte ispirato il processo decisionale che aveva condotto alle prime strutture d'integrazione fra il 1947 e il 1957, con l'accentuazione dell'unità spirituale del Vecchio Continente, il Vaticano di Paolo VI e più particolarmente di Giovanni Paolo Il ha portato l'accento piuttosto sulla pluralità degli strati spirituali, culturali, teologici dell'Europa "differente e complementare". Il primo versante può prestarsi più facilmente a slittamenti confessionalisti e proselistici e postula, alla fine, una strategia a fronte comune di tutte le forze che si riconoscono in una medesima eredità e appartenenza sacrale.
Il secondo versante, sul quale si è maturata la coscienza delle élites cattoliche europee, all'ombra di Jacques Maritain, offre un terreno più propizio alla laicità dello Stato, al riconoscimento del pluralismo culturale e all'impegno d'un internazionalismo cattolico avente per obiettivo non già l'egemonia religiosa, bensì la semina dello spirito fraterno e dei valori trascendenti del Vangelo nelle relazioni tra i popoli e nella rianimazione della democrazia nelle società europee, all'Est non meno che all'Ovest.
E' il risveglio di questa Europa complessa che sembra motivare oggi la preoccupazione del Vaticano, di fronte a quella che teme di veder diventare una rifondazione ristretta dell'Europa dei forzieri, la preoccupazione, anzitutto, per una organizzazione sostanzialmente autarchica e libero-scambista dell'Europa, nella quale l'integrazione economica non sia abbastanza finalizzata agli obiettivi principali dell'integrazione politica e della carta sociale, del resto lasciata nel vago a Maastricht.Non è che un'applicazione specifica del grande paradigma critico proposto da Giovanni Paolo Il nella "Centesimus Annus", a proposito delle condizioni sociali tassative per la liceità dell'economia capitalistica.
In Vaticano esiste un partito tedesco, ben dotato di poteri politici e intellettuali e di influenze nell'equilibrio interno del governo centrale della Chiesa. Uno degli effetti dei consiglieri tedeschi del papato è visibile nella sollecitudine senza precedenti con cui la diplomazia vaticana si è affrettata ad assicurare i suoi riconoscimenti alle repubbliche nate sulle macerie della federazione jugoslava. L'interpretazione di questo club filotedesco del Vaticano sul referendum francese ha preferito ridurre i motivi critici del voto: "La Germania è un Paese che per molti anni ha giocato un ruolo inferiore a quella che è la sua reale potenzialità", è stato il commento della Radio Vaticana, per la quale "non è un obiettivo tanto nascosto quello di Bonn di voler contare di più nell'Europa del Duemila".
Fra questi due poli, la politica europea del Vaticano insiste sui diritti delle nazioni come sui diritti delle minoranze, sul diritto di ingerenza umanitaria come sulla necessità di mobilitare le istituzioni dell'Europa integrata - in particolare la Csce - per spegnere il braciere dei Balcani. Ma non sembra abbastanza chiaro agli attuali dirigenti il tasso di contraddizioni esistente fra la molteplicità di tali orientamenti, mentre è rimasta senza seguito la proposta lanciata a Praga dall'assemblea economica della conferenza delle chiese europee, nel settembre scorso, con la partecipazione di mille delegati rappresentanti di tutti i cristiani ortodossi e protestanti d'Europa, per un congresso paneuropeo, capace di assumersi il compito storico di orientare la formazione di una Grande Europa, nell'apertura e nella solidarietà, e non solo negli affari.
Se tutto questo confuso e complicato processo, che ha fatto dell'Europa "un'opera che nessuno spazio limita o contiene" (F. Perroux), l'orientamento prevalente nella Chiesa resta ancorato al principio di una condizione mondiale dell'Europa, come quando era vista come punta estrema dell'Asia, finis terrae, dinanzi al grande ignoto dell'Oceano.
''L'Europa dimenticherebbe una parte di se stessa se non guardasse in direzione dei mari", scrive Perroux in L'Europe sans rivages, ed è a questo principio sconfinato dell'identità europea che il Vaticano si appella ancora una volta per richiamare l'Europa a non lasciarsi predefinire da nuove frontiere naturali, a non fare di Maastricht una nuova Westfalia determinata dalla religione del denaro. "Non sarà possibile edificare una nuova Europa senza preoccuparsi di tutto il pianeta, bene comune dell'umanità", ha scritto Giovanni Paolo Il al Sesto Incontro delle Religioni Mondiali a Bruxelles. "Si potrebbe dire che la condizione affinché l'Europa possa costruire il suo avvenire è di essere capace di guardare al di là delle sue frontiere, soprattutto verso l'immenso emisfero Sud, da decenni divenuto il terreno in cui nascono i conflitti più numerosi ed in cui pesa l'ingiustizia in modo non più sopportabile".


Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000