"La poesia
è il mondo che diviene nostro, per un attimo, per un tratto
- lo possediamo intero, in quel momento, senza che il possesso si
trasformi in senso di potere - al contrario, consapevoli che quel
rischiaramento dell'essere che si è determinato è solo
una possibilità di avanzare, e guardare, e costruire le deboli
resistenze di un amore che si vuole enorme, e su questa enormità
si prova" (A. NEGRI, Lenta Ginestra).
Il mondo, questo mondo talvolta disumano, questa nuova metropoli esplosa,
questo Salento che vive la condizione della metropoli nel proprio
bordo ripiegato, nella violenza della criminalità illegale
e legale, dei vecchi e nuovi padroni, questa circolazione spropositata
di denaro (per più della metà frutto di traffici illeciti),
queste continue, enormi periferie dove la condizione giovanile oscilla
tra una campagna evasa e l'eroina, tra la necessità di restare
e l'inevitabilità del partire.
Nulla di più inquietante di una pratica di scrittura racchiusa
nella provincia del cuore, in questo disastro di impraticabilità
di rapporti umani, di comunicazione.
Proprio da questa condizione di bordo, di frontiera (frontiera che
dà sul nulla, se escludiamo quei miseri saltelli di colonizzatori
locali, che partono dalla patria università per far crescere
il "povero" popolo albanese), del confine che diviene spesso
confino della storia, di un esilio amato e da cui continuamente si
progettano voli, voli alti e profondi, validissimi per questo mondo.
Dalla profonda conoscenza di questa condizione è possibile
rilanciare e praticare le forme della sperimentazione, dove l'importanza
e l'urgenza del dire, il fuoco dei soggetti concreti alimenta nuove
pratiche, ai bordi della possibilità, nella concretezza del
farsi di una comunicazione altrimenti impossibile.
In una società veloce, sintetica, dalla comunicazione continua
e coatta ciò che sta a margine (il Salento/silenzio) non copre
unicamente un'esistenza marginale.
Si muovono continuamente i termini che fanno respirare la comunità,
i termini sostanziali di nascita e morte, la necessità e l'urgenza
della comunità da questi stessi elementi muovono. "Georgese
Bataille ha enunciato con semplicità i due momenti in cui si
impone, ai suoi occhi e al suo animo, l'esigenza di una comunità,
in rapporto all'esperienza interiore. Quando scrive "la mia condotta
con i miei amici è motivata: ogni essere è, io credo,
incapace, di per sé solo, di andare all'estremo dell'essere",
questa affermazione implica che l'esperienza non può aver luogo
per l'unico, poiché ha la caratteristica di spezzare la particolarità
del particolare e di esporlo ad altri: dunque, di essere essenzialmente
per altri; lise voglio che la mia vita abbia un senso per me, bisogna
che abbia un senso per altri". Oppure "non posso smettere
un istante dal provocarmi io stesso all'estremo e non posso fare differenza
tra me stesso e quelli tra gli altri con cui desidero comunicare""
(M. BLANCHOT, La comunità inconfessabile).
Nel duplice movimento della condizione oggettiva dell'operare nel
Salento, in questa terra dell'abbandono (di tutto, da tutto, compresa
l'impossibilità dell'abbandono) e dello scrivere, prende corpo
l'esigenza di dare un corpo allo scrivere, uno spazio, un luogo, alla
comunità di chi non ha comunità.
"Il poeta è il soggetto del libro, la sua sostanza e il
suo padrone, il suo servitore e il suo tema. E il libro è il
soggetto del poeta, essere parlante e conoscente che scrive nel libro
sul libro. Questo movimento per cui il libro, articolato dalla voce
del poeta, si piega e si ricollega a sé, diventa soggetto in
sé e per sé, questo movimento non è una riflessione
speculativa o critica ma, fin dal principio, poesia e storia. Perché
il soggetto si spezza e si dischiude in esso, mentre va rappresentandosi.
La scrittura si scrive, ma insieme si immerge nella propria rappresentazione"
(J. DERRIDA, Jabès e la interrogazione del libro).
Ma oggi si può cercare di sostituire al poeta un corpo, nel
percorso a ritroso, nell'ultima genealogia possibile per uno scrittore
di risalire quel fiume nero che ha portato alla nascita della scrittura,
il recupero del graffio, del graffito sul muro, della rappresentazione
nello spazio della parte del luogo vissuto del dolore, della paura,
dell'invocazione.
Dalla scrittura al corpo, in questo mondo che sta cancellando l'ultima
rappresentazione ottocentesca del corpo (il tattile, il meccanico)
verso una ancora più sofisticata sottrazione di corpo (il digitale,
il virtuale). Dalla scrittura al corpo in una pratica di scrittura
che si dilata, che abbandona per non scordarlo mai; lo specifico della
scrittura, verso il visuale, verso il sonoro, verso il plastico, verso
l'oggettuale.
Dalla scrittura che comunica solo con l'assenza, con la presunzione
dell'altro al corpo che circola, scambia continuamente i propri umori.
Lo spazio della rappresentazione della scrittura diviene il primo
passo di un percorso di conoscenza, di pratica sociale che opponendosi
al virtuale e all'oblio diviene pratica militante della scrittura,
politica rivoluzionaria del conoscere.
"Eppure, alla domanda: "Per chi scrive?", aveva risposto
spontaneamente: "Per nessuno; per il silenzio, forse, che è
sempre attesa di qualcuno"" (E. JABÉS, Uno straniero
con sotto il braccio un libro di piccolo formato).
Tutto questo e altro, molto altro, mi hanno portato alla convinzione
divenuta poi pratica, sfida in atto, del portare nel luogo teatrale,
nel Salento, il fare della poesia.
In questi anni si sono avuti diversi e differenti esempi di quella
forma che chiamiamo di teatro-poesia, ma la natura degli interventi
e dei discorsi ha sempre riguardato il versante propriamente teatrale,
tralasciando ciò che in questa sede più interessa, vale
a dire lo stabilire le aperture di prospettive per la scrittura in
una pratica che determina lo spostamento dalla pagina al corpo, ai
corpi, e dallo spazio del libro dove il rapporto è dei sé
con l'oggetto-libro alla scena, allo spazio teatrale dove ogni rapporto
rimanda continuamente all'altro.
La scrittura diviene atto all'interno di un processo di conoscenza,
e la comunità di chi comunica mostra strade possibili, prima
fra tutte la possibilità di praticare un testo, di inverarlo
continuamente attraverso il proprio corpo, attraverso la capacità
di questo corpo di comunicare con gli altri corpi, spezzandone l'unità
(falsa) testuale per riproporre una molteplicità continua di
senso. La parola riacquista tutto il proprio corpo di suono, di simbolo,
di vita, di ritualità, di resistenza politica.
La poesia non più letta, né tanto meno acquistata, rientra
con energia nel flusso concreto di un rituale sociale ampio e profondo.
La poesia come pratica dell'impensato vive nello spazio della irrappresentabilità,
concretizzazione del bordo, della marca, del confine sempre temuto
tra conosciuto e sconosciuto.
il teatro, luogo in cui lo straniero vive e si muove. La poesia, le
parole, la scrittura/corpo, il graffio che questo straniero porta
sul proprio petto:
"Guarda davanti
a te. Cosa vedi?
- Vedo una strada ed un uomo che si allontana. E' solo.
- Com'è?
- Cerco di dargli un volto, perché lo vedo solo di spalle.
- Chi è?
- Uno straniero, senza dubbio, con, sotto il braccio, un libro di
piccolo formato". (E. JABÉS)
Ridare urgenza
alla poesia, ridare energia alla scrittura, nutrire un senso per i
corpi che si scavano, si scoprono, si incontrano.
Non va dimenticato come la poesia e il teatro si arricchiscano se
posti in stretto contatto, laddove il suono, il ritmo, la memoria
dei detto, il riemergere continuo del corpo non possono che gettare
nello scompiglio le anime pie in cerca di un senso rassicurante, annichilente,
falsamente speculativo.
La poesia, si dice, prende corpo, il teatro abbandona la truffa oggi
impraticabile del raccontato, della storia narrata, della trama, del
messaggio centrale, per inserirsi in un continuo flusso di molteplici
narrazioni possibili, di sensi interconnessi, di piani di comunicazione
che incitano, provocano, irritano il sentire.
E questo corpo ora brucia in una estrema azione, nella disseminazione,
nelle pieghe dell'inutile dire. "Inutile", categoria centrale
e ineludibile dell'arte, luogo della depanse, improduttiva sfera dove
il depensamento conduce a un luogo sostanziale. E il mio corpo brucia
sulla scena e la scrittura marchia il corpo, i corpi.
"- Il fuoco ciò che non si può spegnere in quella
traccia fra tante che è una cenere. Memoria, oppure l'oblio
come preferisci -: ma comunque del fuoco, indizio che riconduce ancora
a una bruciatura. il fuoco si è certo ritirato, l'incendio
è stato domato, ma se vi è là cenere - sotto
sotto - un po' di fuoco resta. Ed è ancora tramite questa sua
dissimulazione che finge di aver abbandonato il campo. Continua a
simulare, a mascherarsi sotto la molteplicità, la polvere,
le ciprie, il pharmakon inconsistente d'un corpo plurale che non gli
appartiene più. Non restar più in contatto con sé,
non appartenere più a sé: sta in questo l'essenza della
cenere, la sua stessa cenere" (J. DERRIDA, Ciò che resta
del fuoco).
In questo passaggio, in questo spostamento dove il conoscere diviene
processo urgente, il dire, il dirsi si rilancia in un mondo veloce,
distratto, sintetico, organizzando la propria resistenza a partire
dal corpo, dal sangue, dalla propria inevitabile peste.
E dunque il teatro si innerva nella poesia, elegge il proprio luogo
della traduzione, invera la metafora della scrittura, dà un
corpo alla mano ormai scomparsa che ha scritto, ritorna soffio, fuoco,
vita.
Questa è una delle ipotesi possibili del fare letterario oggi,
di fornire una risposta che apra mille nuove domande.
Dall'ostinazione di chi sceglie di continuare ad operare in questo
bordo, e partendo da questo cerca di praticare l'ultimo e antico atto
del dirsi, del darsi. Oltre le accademie, oltre i giardini piccoli
e grandi, dorati e di plastica, nel flusso di una comunicazione concreta,
vera, piena di sangue e di vita.
(3-fine.)