1.
Premessa.
I primi segni del sorgere e dell'assurgere a rilevanza giuridica del
fenomeno della concorrenza sleale già si intravvedono nel diritto
romano. Si pensi alla tendenza a ricondurre nell'ambito dell'actio iniuriarum,
cioè nell'ambito del rimedio generale previsto contro l'atto
illecito, sia l'uso di false indicazioni di provenienza, sia la falsificazione
di marchi e di sigilli. Così, ancora, la tendenza a ricomprendere
lo storno o la subordinazione di dipendenti e di schiavi, al fine di
carpire segreti industriali, nell'ambito dell'actio servi currupti e
a considerarlo come un precedente dell'attuale illecito da storno di
dipendenti. Si pensi ancora allo stellionato, all'inganno cioè
circa l'origine, la qualità e l'identità delle cose vendute
e, quindi, a quella che oggi può essere definita come frode in
commercio. Già allora, inoltre, esistevano alcuni tipi di patti
limitativi della concorrenza, riportati nell'Editto di Zenone del 483
e, per Bisanzio, nel Libro del Prefetto di Leone il Savio. E già
allora si considerava illecita la concorrenza che violava norme imposte
ai colleghi artigiani a garanzia della qualità e della continuità
delle prestazioni.
Le limitate regole di concorrenza previste nel Libro del Prefetto continueranno
ad essere applicate anche nel Medioevo: così quelle sulle distanze
da rispettare tra botteghe e officine concorrenti, il divieto di vendere
cose diverse da quelle della categoria artigiana di appartenenza, il
divieto di far vanto della propria merce, e così via.
2. Il periodo
rinascimentale.
Si può dire, pertanto, che l'istituto della concorrenza ha
origini antiche, anche se solo nel Rinascimento la sua disciplina
acquisterà notevole ricchezza di contenuti, comprendendo il
divieto di usare marchi e altri segni distintivi altrui, il divieto
di sottrarsi clienti, apprendisti, lavori in corso, di boicottare
o di denigrare il concorrente, il divieto rigoroso della pubblicità,
della vendita su campione, dei patti di comparaggio, le regole in
base alle quali l'allievo può fare concorrenza al maestro e
quelle sulla concorrenza fra ex soci.
In realtà, i primi veri problemi connessi al fenomeno della
concorrenza sleale sorgono proprio sulla scia dei processi relativi
all'uso di marchi e di insegne altrui. Si tratta di questioni già
note che si ricollegano tanto al concetto romano di farsi passare
per un altro quanto a quello inglese di passing off, ossia di far
passare la merce propria come merce di altri.
Sia pure ricca di contenuto, la disciplina sulla concorrenza sleale
resta, in questo periodo, una disciplina ancora parziale e semplificata,
dalla quale è impossibile intravvedere quella che sarà
la regolamentazione attuale. E ciò a causa di una struttura
economica e istituzionale, facente capo alla Corporazione, profondamente
diversa da quella che finirà per caratterizzare gli ultimi
due periodi del liberismo economico.
3. La corporazione
quale ente regolatore dell'economia.
Durante il periodo rinascimentale, infatti, i mercanti si organizzano
e tramite le corporazioni dettano un complesso di regole volte ad
assicurare una determinata ripartizione di forza lavoro e di clientela
fra gli iscritti. La corporazione acquista così il ruolo di
ente regolatore dell'economia, e assume il controllo della produzione
ai vari livelli artigianale e mercantile. Controllo esercitato attraverso
il criterio all'iscrizione alla corporazione stessa.
Le regole sulla concorrenza, inoltre, hanno tutte un carattere professional-corporativo.
Così, il divieto di storno di dipendenti, il divieto di allettamento
dei clienti, il divieto di ribassare i prezzi non sono rivolti a tutelare
l'interesse del singolo mercante o dell'artigiano, bensì l'interesse
dell'intera categoria, quindi l'interesse della corporazione. Si pensi,
per esempio, che il marchio non è individuale, riconducibile
perciò alla singola bottega, bensì collettivo, della
corporazione.
In pratica, l'interesse della corporazione, che le norme sulla concorrenza
mirano a tutelare, finisce per coincidere con l'ente pubblico Comune,
visto che quest'ultimo, in definitiva, fa propri gli interessi del
ceto mercantile, assimilandoli a quelli della res pubblica. La conseguenza
di tutto ciò è che legittimato ad agire contro gli atti
di concorrenza sleale non è il singolo operatore danneggiato,
ma la corporazione o lo stesso Comune. Il danneggiato può soltanto
denunziare e non ha neppure il diritto al risarcimento. Gli spetta
solo un premio per la denuncia fatta. Mentre è la Corporazione
che procede di ufficio contro il colpevole, comminando pene (multe)
o sanzioni disciplinari, come l'espulsione del reo dalla Corporazione
stessa.
4 Il periodo
mercantilista.
Il mercantilismo, che segue al periodo rinascimentale, è contrassegnato
dalla nascita dei grandi Stati monarchici della Francia, della Spagna,
dell'Olanda. Durante l'assolutismo, si assiste ad un intervento diretto
dello Stato sull'economia, ad una progressiva perdita di potere politico
da parte delle Corporazioni e all'emergere e al consolidarsi del dominio
della nobiltà guerriera. Nascono in questo periodo le compagnie
coloniali, gestite su iniziativa dei grandi mercanti, al fine di sfruttare
i mercati d'oltre mare. Queste iniziative sono appoggiate dallo Stato
stesso, il quale giunge a concedere numerosi privilegi: come, ad esempio,
il privilegio della responsabilità limitata, cioè la
possibilità per coloro che hanno investito i propri risparmi
nella compagnia di limitare la propria responsabilità per le
obbligazioni assunte alla sola quota conferita.
Nel periodo mercantilista, le regole sulla concorrenza sleale non
hanno ragione di essere applicate e, di fatto, non lo sono. Le compagnie
coloniali e le industrie manifatturiere (soprattutto di armi e di
tessuti) divengono, infatti, enormi concentrazioni di potere politico-economico
che lasciano poco spazio all'iniziativa dei piccoli mercanti. D'altro
canto, il periodo mercantilista, come quello rinascimentale, è
caratterizzato da un principio opposto a quello di libertà
economica, ossia dal principio del controllo diretto o indiretto dell'economia
da parte dello Stato. Mentre nel periodo rinascimentale l'ente regolatore
dell'economia è la Corporazione, ora è direttamente
lo Stato che concede il privilegio di esercitare attività economiche
di ampio respiro.
E in effetti, sarà solo nel primo periodo liberista, con l'affermarsi
del principio della libertà economica, che si farà sentire
l'esigenza di elaborare una disciplina della concorrenza in senso
moderno, in grado di tutelare interessi diversi da quelli pubblici.
5. Il primo
liberismo economico.
Tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo, nasce in Inghilterra
la Rivoluzione industriale, che si estenderà all'Europa continentale
durante la prima metà dell'Ottocento. La libertà di
iniziativa economica è assicurata dalla legge, il che consente
il fiorire di numerose attività economiche a livello individuale.
Per contro, regole molto rigide vengono dettate nei riguardi delle
compagnie coloniali che si costituiscono nella forma delle anonime.
In molti casi, infatti, queste società si sono rivelate delle
truffe in grande stile, collocando sul mercato titoli azionari che
non hanno alcuna sostanza economica. La costituzione di tali compagnie
viene assoggettata, pertanto, ad autorizzazione amministrativa e ad
un rigido controllo da parte dello Stato.
Si aggiunga che con la rivoluzione francese scompaiono le Corporazioni.
Vengono meno, quindi, le sia pur limitate regole di concorrenza da
esse elaborate.
L'affermazione della libertà economica, da un lato, e la scomparsa
delle Corporazioni, dall'altro, determinano così un vuoto normativo
nei riguardi della disciplina dei comportamenti degli operatori economici
sul mercato, il che consente il diffondersi di pratiche sempre più
aggressive sul piano concorrenziale.
Questo vuoto sarà colmato sia attraverso lo strumento dell'autoregolamentazione
della concorrenza sia mediante l'elaborazione giurisprudenziale dell'illecito
civilistico, al fine di renderlo applicabile agli atti di concorrenza
sleale.
6. L'autoregolamentazione.
L'inesistenza di una disciplina concorrenziale aveva consentito alle
grandi imprese di sbarazzarsi delle imprese minori, attraverso una
politica di prezzi bassi e di più alti salari. Nel lungo periodo,
però, questa politica si era rivelata dannosa per le stesse
imprese che l'avevano adottata. Da qui il ricorso all'autoregolamentazione
e, quindi, la stipulazione di patti negoziali limitativi della concorrenza
(contratti di cartello, contratti di trust). Anche questa soluzione,
peraltro, appare inadeguata, in quanto il patto vincola solo coloro
che l'hanno stipulato e non può evitare che i nuovi arrivati
assumano comportamenti aggressivi. Ciò spiega le istanze provenienti
dal ceto imprenditoriale affinché sia emanata una disciplina
speciale che regoli il fenomeno concorrenziale.
Contemporaneamente, dapprima in Francia e poi in Italia, la giurisprudenza
elabora una serie di regole repressive degli atti di concorrenza sleale.
Essa argomenta dall'atipicità dell'illecito civilistico per
configurare delle figure speciali di illecito concorrenziale: l'illecito
concorrenziale viene visto come illecito professionale, ossia come
violazione dei doveri professionali di una data categoria di imprenditori.
7. L'elaborazione
giurisprudenziale dell'illecito civilistico.
Più precisamente, in Francia, la giurisprudenza costruisce
la disciplina della concorrenza sleale sulla base dell'art. 1382 del
Codice Napoleone, analogo al nostro art. 1151 del Codice Civile. Anche
in Inghilterra è merito della giurisprudenza la costruzione
della dottrina del "passing off", nell'ambito della Common
Law.
In Germania, invece, si rende necessario un intervento specifico,
a causa della mancanza di una norma di carattere generale disciplinante
l'atto illecito: l'intervento in questione è la legge 27 maggio
1896, che introduce una regolamentazione di fatti specifici, quali
gli abusi in materia di réclame, l'inganno sulla quantità
delle merci, asserzioni false idonee a recar danno ai concorrenti,
abuso di nomi e di segni distintivi, violazione dei segreti di fabbrica
o di commercio. Una norma di carattere generale viene invece introdotta
con il Codice Civile germanico del 18 agosto 1896, entrato in vigore
il 1 gennaio del 1900. Secondo l'art. 826, "chi, in modo contrario
ai buoni costumi, reca deliberatamente danno ad altri, è tenuto
verso questi al risarcimento del danno".
Questa norma, poi, ispirerà la formulazione della clausola
generale contro la concorrenza sleale, contenuta nella legge del 7
giugno 1909, sostitutiva di quella del 1896. L'art. 1 di tale legge
dispone, infatti, che "chi a scopo di concorrenza commette nell'esercizio
degli affari atti contrari ai buoni costumi può essere convenuto
in giudizio per la cessazione di tali atti e il risarcimento dei danni".
Anche in Portogallo, il 21 maggio 1896, viene introdotta una legge
sulla protezione della proprietà industriale, contenente alcune
disposizioni sulla concorrenza sleale. Analogamente in Spagna, il
16 maggio 1902, entra in vigore una legge sulla proprietà industriale
che pure contempla, al Titolo decimo, due articoli sulla "concorrenza
illecita".
La Svizzera, da parte sua, con il Codice delle obbligazioni del 1911,
introduce un articolo con il quale viene delineata una compiuta disciplina
della concorrenza sleale. Si tratta dell'articolo 48, che prevede
un'azione di inibizione e, in presenza di colpa, un'azione di risarcimento
dei danni a favore di coloro la cui clientela sia stata "compromessa
o minacciata ( ... ) da pubblicazioni non veritiere o da altri procedimenti
contrari alla buona fede". Nel 1943, con la legge federale sulla
concorrenza sleale, questo articolo sarà espressamente abrogato
e sostituito da una disciplina più analitica.
La posizione della dottrina e della giurisprudenza italiane in questa
materia non è certo originale. Infatti, mentre la nostra giurisprudenza,
a causa dell'assenza di una disciplina specifica sulla concorrenza
sleale, è costretta ad operare sulla base dell'articolo 1151
del Codice Civile abrogato e costruisce una propria dottrina sull'esempio
della giurisprudenza francese, la nostra dottrina pare ispirarsi maggiormente
al modello tedesco.
8. Il secondo
liberismo economico.
Con il secondo periodo liberista, dagli imprenditori si solleva l'istanza
di una disciplina specifica contro gli atti di concorrenza sleale.
Si assiste in questi anni a un vasto movimento internazionale diretto
a introdurre regole comuni in materia. La stessa Convenzione internazionale
di Parigi del 1883 non contiene alcuna disposizione sulla concorrenza
sleale. Ed è solo nel 1925, con la revisione tenutasi all'Aja
del testo di detta Convenzione e soprattutto del suo articolo 10-bis,
che prende vita un regolamento concreto. Le norme della Convenzione
verranno recepite in Italia con il regio decreto legislativo del 1926,
convertito nella legge del 29 dicembre 1927, n. 2701.
La Convenzione dell'Aja è diretta a soddisfare le esigenze
di tutela della proprietà industriale provenienti dagli imprenditori
dei Paesi industrializzati e conserva un'impronta tipicamente professional-corporativa.
Le norme chiave in materia di disciplina degli atti di concorrenza
sleale diventano, quindi, gli artt. 10-bis e 10-ter. L'art. 10-bis
definisce l'atto di concorrenza sleale come quell'atto di concorrenza
contrario agli usi onesti in materia industriale o commerciale, e
subito dopo elenca, in via esemplificativa, una serie di figure specifiche,
dagli atti di confusione agli atti di denigrazione e, a seguito della
revisione di Lisbona del 1958, gli atti ingannatori del pubblico o
di pubblicità menzognera.
L'art. 10-ter riconosce la legittimazione ad agire in materia di concorrenza
sleale alle associazioni professionali imprenditoriali.
E' da queste norme che si desume il carattere professional-corporativo
della Convenzione, la quale identifica nel ceto imprenditoriale il
solo gruppo collettivo di interessi legittimato a far valere la normativa
concorrenziale, con esclusione quindi dello Stato e dei consumatori
o degli utenti. li che porta ad avvalorare la tesi che considera gli
atti di concorrenza sleale come atti contrati ai doveri professionali
di una data categoria di imprenditori.
9. La codificazione
del 1942.
Abbiamo detto che l'ordinamento italiano recepisce la disciplina internazionale
in materia di concorrenza sleale e la potenzia con la codificazione
del 1942. Ciò che maggiormente sembra differenziare le due
discipline è l'accentuazione del carattere corporativo della
normativa interna laddove assegna un ruolo centrale alle nozioni di
"impresa" e di "imprenditore" e un ruolo più
marcato agli interessi degli imprenditori nella individuazione delle
fattispecie di concorrenza sleale. In altri termini, la convenzione
dell'Aja, pur contenendo essa stessa un carattere corporativo nella
tutela di interessi specificamente imprenditoriali, si ispira comunque
ad una concezione privatistica e liberistica della disciplina della
concorrenza sleale. Rispetto a questa disciplina, la funzione che
lo Stato è chiamato a svolgere è quella di mero garante
esterno, ossia quella di dettare una legislazione di sostegno degli
interessi privatistici coinvolti.
L'inserimento di questa disciplina di origine privatistica nell'ordinamento
corporativo dello Stato fascista modifica profondamente il suo significato.
Lo Stato corporativo, infatti, si propone di conciliare gli opposti
interessi collettivi, in vista di un superiore interesse nazionale
e attraverso il meccanismo delle Corporazioni. In realtà, questa
operazione porterà a far prevalere l'interesse degli imprenditori,
facendolo coincidere con quello generale.
E' solo con l'avvento della Costituzione repubblicana, e con la conseguente
abrogazione dell'ordinamento corporativo, che la disciplina sulla
concorrenza sleale torna ad inserirsi in un'ottica privatistica, in
cui gli interessi degli imprenditori devono confrontarsi con altri
interessi di carattere privato. Sulla base dell'art. 41 della Costituzione,
la libertà di iniziativa economica privata vede così
limitata la sua esplicazione in vista della tutela di altri valori
sovraordinati agli interessi degli stessi imprenditori. In questo
contesto, il ruolo dello Stato non è più né quello
di garante esterno dell'iniziativa economica privata, tipico del periodo
liberista, né quello di assuntore di interessi privati a livello
di interessi generali, proprio del periodo corporativo, bensì
quello di mediatore di interessi confliggenti: quelli privatistici
degli imprenditori e quelli che la Costituzione pone a livello sovraordinato,
come l'interesse alla tutela del paesaggio, del patrimonio culturale,
della salute e così via.
10. Art. 41
Costituzione e "funzionalizzazione dell'impresa".
Un quesito estremamente importante dal punto di vista politico e istituzionale
è quello di stabilire quale sia la natura della libertà
di iniziativa economica privata sancita dall'art. 41 della Costituzione.
Se cioè tale libertà debba essere intesa come una "funzione"
oppure come un diritto soggettivo del privato.
La differenza tra le due ipotesi è notevole, poiché
il diritto soggettivo è una situazione giuridica soggettiva
attiva concessa al titolare nel proprio interesse, mentre la "funzione"
è il potere che viene attribuito ad un determinato soggetto
per la tutela di un interesse altrui. In quest'ultimo senso, l'iniziativa
economica va esercitata per il perseguimento di un interesse che è
della collettività.
E' questa la cosiddetta "tematica della funzionalizzazione dell'impresa",
che sorge in relazione all'art. 41 co.2 Cost., in base al quale l'iniziativa
economica privata "non può svolgersi in contrasto con
l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza,
alla libertà, alla dignità umana`. Si tratta allora
di stabilire se l'utilità sociale ex art. 41 co. 2 Cost. sia
il "limite" al di là del quale non possa esercitarsi
la libertà imprenditoriale (limite esterno), oppure sia lo
"scopo", l'interesse che l'imprenditore deve perseguire
nell'esercizio dell'attività economica (limite interno).
A nostro avviso, la Costituzione concepisce la libertà di iniziativa
economica privata come un vero e proprio diritto soggettivo dell'imprenditore,
piuttosto che come una funzione. Il fatto che questa libertà
debba svolgersi nel rispetto di determinate regole non porta necessariamente
ad affermare che il diritto concesso al privato sia volto a tutelare
l'interesse pubblico. In questo senso vanno letti i commi 1 e 2 dell'art.
41 Cost.: si tratta, cioè, di individuare nel 2° comma
dei limiti esterni alla libertà di iniziativa economica e nel
3° comma di controllare l'esercizio di questa attività
e di coordinarla al perseguimento di specifiche finalità sociali,
attraverso la programmazione economica.
Ecco precisato entro quali limiti si possa parlare di una "funzionalizzazione"
dell'attività economica del privato, perché in realtà
si tratta pur sempre di coordinare il libero svolgimento dell'attività
medesima con il raggiungimento di finalità di interesse generale.
11. Il tramonto
dell'ideologia liberista.
A fronte di una concezione meramente privatistica e tuttavia ancora
dominante dell'istituto della concorrenza sleale, si sta facendo strada
una concezione che accentua la rilevanza degli interessi di soggetti
estranei al rapporto concorrenziale.
In base alla prima opinione, la disciplina della concorrenza è
dettata nell'esclusivo interesse degli imprenditori. Solo indirettamente
si preoccupa di tutelare l'interesse dei consumatori e degli utenti.
Questa impostazione si ispira chiaramente alla concezione liberistica
della società e dell'economia, in base alla quale il benessere
collettivo non è che la risultante del benessere individuale.
Ciascun soggetto può quindi intraprendere liberamente una qualsiasi
attività economica.
L'ordinamento tende, cioè, a lasciare ai singoli individui
la tutela dei propri interessi e da questa "autotutela"
deriva una sorta di armonia naturale che determina il benessere della
società. Tutto ciò grazie alla "mano invisibile"
del mercato, ai suoi meccanismi equilibratori.
Ma la concezione liberistica è ormai da ritenersi superata.
il modello di concorrenza perfetta, sul quale essa si basa, non si
è mai concretamente realizzato, rimanendo soltanto un'ipotesi
astratta di lavoro. L'economia si è sviluppata verso forme
di mercato a carattere oligopolistico o monopolistico, in base a modelli
di concorrenza imperfetta. Ciò ha determinato un sempre maggiore
intervento pubblico nell'economia ed una progressiva sostituzione
dei meccanismi di autotutela con meccanismi di eterotutela.
L'influenza dello Stato nell'economia si riflette ovviamente anche
sulla disciplina della concorrenza. Si sostiene che vi sia un sempre
maggiore interesse del legislatore per i problemi dei consumatori
e degli utenti. La disciplina della pubblicità e, soprattutto,
la previsione di atti di concorrenza sleale per pubblicità
menzognera non comparativa, nonché le norme che garantiscono
i consumatori nel momento dell'acquisto di beni e di servizi sarebbero
appunto caratterizzate dalla preoccupazione pubblicistica di una tutela
più diretta ed immediata della generalità dei consociati.
Da quanto detto, quindi, risulta chiaro che il ruolo assegnato alla
disciplina della concorrenza sleale è ben diverso a seconda
che si aderisca alla concezione tradizionale, tipicamente professional-corporativa,
o alla concezione "funzionalistica" più moderna e
tuttavia minoritaria. La prima, ripetiamo, assegna una portata meramente
privatistica alla disciplina in esame: l'interesse tutelato essendo
soltanto l'interesse degli imprenditori che si confrontano sul mercato
e la qualificazione dell'atto come "leale" o "sleale"
essendo demandata agli usi, alle consuetudini, alle valutazioni della
stessa cerchia di imprenditori interessati. La seconda concezione,
invece, interpreta la portata della normativa alla luce dei principii
costituzionali, per giungere ad attribuirle valenza più generale
e ad ammettere la possibilità di una sua attivazione anche
da parte di soggetti diversi dal ceto imprenditoriale.