§ Rivoluzioni musicali

Opera seria Opera buffa (3)




Sergio Bello



Si diceva di un Ottocento crede di un doppio patrimonio, o meglio ancora di un patrimonio uno nella sostanza e bino nell'essenza, quest'ultima "svelata" da Piccinni nel segno della continuità dell'opera seria italiana, e da Gluck in termini di rottura e di drastico rinnovamento.
E' anche necessario dire, su un piano più generale, che il processo di emancipazione della musica in quanto arte autonoma, se già può dirsi avanzato in epoca illuministica, grazie soprattutto all'impegno di Denis Diderot, Jean-Jacques Rousseau - autore quest'ultimo del Dictionnaire de la Musique - e degli enciclopedisti tutti, è proprio con l'Ottocento che conquisterà una seppur parziale compiutezza, superando - nella musica strumentale innanzitutto e, di riflesso, in ambito operistico - i pregiudizi, ancora vivi all'epoca dei Lumi, derivanti dall'astrattezza propria di quest'arte, per sua natura poco disponibile ad interpretazioni e classificazioni oggettive ed univoche.
Spesso investita da un alone di religiosità, quasi sempre al centro delle dottrine e delle speculazioni dei più grandi filosofi, lodata in qualità di più elevata tra le arti (e proprio per quella indeterminatezza che le era sempre stata criticata, ora magicamente tramutata in capacità connaturata di esprimere l'inesprimibile), la musica infonde di sé tutto il Romanticismo, forte dei suo essere "la più romantica di tutte le arti", come amava definirla Ernst Hoffmann.
E ancora, prima di addentrarci nel pieno del tragitto nell'opera ottocentesca, non è superfluo ricordare come la diffusione del pensiero romantico sia stata in un certo senso "scaglionata", avendo preso le mosse in terra germanica, e come il Romanticismo sia stato recepito, assimilato, elaborato con modalità non sempre omogenee.
Prendiamo ora le mosse - seguendo il già collaudato criterio della trattazione per nazioni - dalla Francia: o meglio, da Parigi, visto che al principio del sec. XIX la Francia vede accentrarsi nella propria capitale - e nella piccola e grande borghesia a Parigi sempre più vitale -funzioni amministrative e vita culturale.
Se per la centralità di Parigi in territorio francese non si può parlare di sorpresa, il passaggio di consegne tra aristocrazia e borghesia è un elemento tanto nuovo quanto gravido di conseguenze.
A questo proposito l'analisi condotta da Piero Santi, critico musicale e direttore d'orchestra, è senz'altro illuminante: partendo dal presupposto che l'opera è per propria natura, in Francia, emanazione della classe dominante, distingue due percorsi interagenti seppur non perfettamente paralleli, ottenuti collegando lo sviluppo dell'opera attraverso le sue forme - nel senso tecnico di struttura e carattere di una composizione - alla classe di cui sono state l'espressione: la forma maggiormente aderente alle esigenze dell'aristocrazia è la Tragedie-Lyrique di Lully, originata dallo sviluppo e dall'espansione onnicomprensiva della Comedie-Ballet, a sua volta generata dal Ballet-de-Cour; di queste forme si è parlato nel precedente articolo, e sono dunque già note la connaturata magniloquenza e spettacolarità della Tragedie-Lyrique, caratteri tanto ricercati per la soddisfazione di esigenze di carattere celebrativo.
Parallelamente prende forma, a partire dalla Foire, spettacolo popolare le cui radici affondano nei lazzi e nelle acrobazie dei saltimbanchi, l'Opera-Comique, che conquisterà il proprio spazio in contrapposizione alla Tragedie, spettacolo istituzionale per eccellenza, e che meglio si attaglierà ai gusti ed alle esigenze della borghesia.
La contrapposizione non durò tuttavia a lungo: la Tragedie "contaminerà" l'Opera-Comique attraverso il trapianto di ambientazioni classiciste e di austeri miti, e si farà restituire il favore, mutuando dall'Opera snellezza e linearità.
Entrambe inoltre non rimarranno insensibili agli stimoli del sopravvenuto spirito romantico, che si tradurrà in scelte paesaggistiche suggestive ed anche esotiche, effettismo scenotecnico, soggetti storici, slanci insurrezionali, fino a far confluire le due forme nell'Opera-Historique, altrimenti nota come Grand-Opera.
L'Opera-Comique tuttavia non esaurirà il proprio tragitto ad esclusivo vantaggio del Grand-Opera, ma anzi ne diverrà indispensabile complemento nella vita culturale parigina. In effetti, essendo diventato il Grand-Opera lo spettacolo caratterizzante la borghesia più agguerrita e scaltrita, ed avendo di conseguenza tratto vantaggio, nel bene come nel male, dai criteri moderni imprenditoriali propri di questa classe -organizzazione, attenzione all'opinione pubblica, promozione dell'aspetto mondano e dunque celebrativo - si prestava poco ad assumere su di sé i caratteri peculiari del romanticismo senza incappare nel pericolo di renderli patetici e artefatti.
In questo spazio si insinuò l'Opera-Comique, forte della sua semplicità, a tutto vantaggio di quella media e piccola borghesia che cercava non la celebrazione, ma l'intimità e la riflessione.
L'ulteriore sintesi vide generarsi dal Grand-Opera e dall'Opera-Comique rispettivamente l'Opera-Lyrique, frutto dell'incontro tra la poesia romantica e la grandiosità del Grand-Opera, tradottosi in una liricità sempre fluida e corrente, e l'Opera-Bouffe (l'Operetta, cioè), sull'opposto versante dell'umorismo e della satira.
Questa, grossomodo, l'evoluzione dell'Opera in Francia nel corso dell'Ottocento, sintetizzata attraverso il susseguirsi ed il rincorrersi delle forme. A queste ultime viene spontaneo associare alcuni nomi: tralasciando la Tragedie-Lyrique, della quale ci siamo in precedenza diffusamente occupati, ci imbattiamo in Auber, Herold, Adam, Meyerbeer, cui si ricollegano le sorti dell'Opera-comique; lo stesso Giacomo Meyerbeer, accanto al librettista Eugene Scribe, fu il più celebrato autore di Grand-Opera. Thomas e Gounod si distinsero invece nella composizione di Opera-Lyriques quali, rispettivamente, il "Faust" e la "Mignon"; Jacques Offenbach, coadiuvato dai librettisti Halevy e Meilhac, riuscì brillantemente nella composizione di Opera-Bouffe, e sulla sua scia si inserirono compositori quali Ronger, Lecocq, Chabrier.
Verso la fine del secolo, infine, fa la sua comparsa Georges Bizet, che in particolare con la sua "Carmen", all'epoca tanto incompresa dal pubblico quanto apprezzata dall'antiwagneriano Nietzsche, porta a compimento tutte le tendenze del romanticismo musicale fiorite in Francia.
Per Bizet, la cui opera tanto influì sulla ricerca del secolo successivo, si parlerà di terza via, accanto a quelle tracciate da Wagner e da Verdi: una via solare, brillante, mediterranea.
Se per la Francia è più agevole e stimolante muoversi attraverso i tragitti formali, in Italia è per mezzo delle singole personalità dei compositori che si indovina il percorso più sicuro verso la comprensione dell'Ottocento operistico.
La linearità di tale percorso ci autorizza a parlare in termini di direttrice: da Rossini a Verdi ed alla "Giovane scuola" passando per Bellini e Donizetti; dall'opera del Settecento,' quindi, al verismo del primo Novecento quasi senza soluzione di continuità, senza fratture.
Due sono gli sviluppi più significativi dell'opera italiana: innanzitutto quello speciale isolamento ma sarebbe meglio chiamarlo distacco rispetto al resto d'Europa; accade infatti che in Italia l'opera, come già in buona misura era accaduto nel secolo precedente, prende il sopravvento su ogni altra manifestazione musicale. E' questa un'egemonia che non trova riscontri fuori d'Italia, dove, come dicevamo nel quadro introduttivo, la "indeterminatezza" e la "capacità di esprimere l'inesprimibile" riconosciute quali pregiate ed esclusive virtù alla musica dal romanticismo si traduce in un fortissimo impulso per il proliferare di composizioni strettamente strumentali.
Seconda questione, l'avvicendamento dell'opera seria a quella buffa in qualità di banco di prova per la ricerca e la sperimentazione compositiva per quegli stessi motivi che avevano suggellato il prevalere di quest'ultima nel secolo precedente; in effetti l'inizio del XIX secolo vede l'opera buffa costretta in strutture di maniera, strutture divelte ed espanse per l'ultima volta da Rossini, che tuttavia resterà un fenomeno tanto alto quanto isolato e conclusivo almeno fino al "Falstaff" di Verdi.
Rossini e Verdi in effetti rappresentano i fulcri intorno ai quali si muove la musica italiana di questo secolo; il primo, crede del patrimonio del Settecento, autore dirompente, è vero, ma sempre nei pur ampi margini di una solida e ben assimilata tradizione, al punto da "autocensurarsi" - secondo la lettura dello storico della musica Paolo Petazzi - quando, all'apice del successo in tutta Europa, intravvede lo spettro dell'inattualità, avendo oramai forzato in tutti i modi possibili gli schemi tradizionali, restandogli come ulteriore possibilità il distacco dalle strutture tradizionali.
Il secondo, in qualità di intellettuale perfettamente integrato nella società del tempo, della quale dà una lettura sempre fedele, interpretando e impersonando dall'interno i moti ed i fermenti.
Tra i due, il catanese Vincenzo Bellini ed il bergamasco Gaetano Donizetti, interpreti a tutti gli effetti del primo Romanticismo italiano, eredi del lascito 'serio' di Rossini, che, con il suo percorso, con la sua ricerca giunta a completa maturazione con il "Guglielmo Tell", è tuttavia precursore del romanticismo e non ancora protagonista.
Bellini e Donizetti, in maniera diversa, riescono a convogliare l'effusione romantica sui binari della liricità classica: una contrapposizione, questa, solo apparente, considerando il carattere peculiare e conciliante nel riguardi della classicità del Romanticismo italiano - e francese - rispetto agli opposti sviluppi mitteleuropei.
La direttrice appare così evidente: con Rossini l'esperienza settecentesca dell'opera buffa trova ad un tempo piena realizzazione e conclusione evolutiva, mentre l'opera seria prelude agli sviluppi che saranno propri delle opere dei romantici per eccellenza Bellini e Donizetti; sarà poi Verdi ad assimilare ed elaborare tematiche ed ambientazioni romantiche (attingendo peraltro ai lavori di Hugo, Byron, Schiller) non più per contrapporsi -romanticamente - alla società, ma per rappresentarla.
Dopodiché, sul finire del secolo, operarono compositori che, a dispetto di formazione ed interessi verso stimoli extraeuropei differenti, vengono accomunati dall'appartenenza ad una quanto mai vaga "Giovane scuola", crogiuolo di autori - a dispetto della scarsa attinenza con la poetica del Verga - di opere, appunto, veriste.
Tant'è che si rimprovera loro, appunto, eterogeneità nella scelta di soluzioni compositive, frammentazione degli equilibri interni propri del melodramma, suggestioni di svariata natura.
Probabilmente, senza con questo voler incorrere nell'opposto errore della sopravvalutazione, il limite dei giudizi così radicali sta proprio nella genericità del l'impostazione per così dire "accomunatrice" che si è soliti applicare nello studio di questi autori: la matrice "verista" stenta a proporsi in qualità di fattore accomunante, essendo in alcuni di questi autori assente o comunque incidentale.
Tra questi, il livornese Mascagni, il napoletano Leoncavallo, Cilea da Palmi di Calabria, Giordano da Foggia, Franchetti da Torino, sono i primi due a subire maggiormente le suggestioni veriste; il simbolismo francese, Wagner, l'impressionismo pervadono, guidano, ma anche - o forse soprattutto - travolgono e disorientano, questi autori, comunque mai chiusi alle tendenze europee.
Se Puccini - pure lui appartenente alla "Giovane scuola" - è sempre trattato dagli storici a sé, ciò non è dovuto alla sua refrattarietà a stimoli eterogenei o al suo pervicace rispetto degli equilibri: la sua grandezza sta nell'aver anzi sfruttato queste suggestioni e questi disequilibri - sorretti da una inedita concezione del tempo scenico - così da "... evidenziare la condizione psicologica disgregata dell'uomo contemporaneo" (P. Santi).

(3-continua)


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