a)
Ritornando su Caproni: altri appunti.
Del contributo reso da Giorgio Caproni ai periodici salentini del secondo
dopoguerra ("Libera Voce", "L'Albero", "L'Esperienza
poetica", "Il Critone") nonché dei suoi rapporti
amicali con Girolamo Comi, si è detto sulle pagine di questa
stessa rivista nel mio Lettere inedite di G. Caproni a G. Comi (1).
In quella sede si censivano anche tre traduzioni, da Henri Thomas (La
notte sopraggiunta - Ieri e domani - Il villaggio, l'albero), che il
poeta livornese aveva pubblicato sulla rivista di Pagano e Santoro,
ma non se ne riportava il testo per ragioni di spazio tipografico. Ora
che di Caproni si va raccogliendo la tentacolare e sparsa produzione
(2) , mi è sembrato giovevole offrirne il testo integrale (vedi
Appendice) preceduto da un piccolo corpus di lettere inedite che le
contestualizzano, in quanto indici paratestuali, e da alcune riflessioni
sulla sincrona attività poetica del loro autore. Per un approccio
al Caproni-traduttore sarà utile un richiamo a quanto ha scritto
recentemente Alessandra De Biase: movendo, infatti, dall'assunto caproniano
della "quasi assoluta" (3) impossibilità di tradurre
la poesia, ella dimostra non sussistere aporia fra l'enunciato in parola
e la conversione del poeta ad una intensa attività versoria (ebbe
inizio nel 1951 con la traduzione del proustiano Tempo ritrovato)(4),
dal momento che Caproni "sceglie non la fedeltà al testo,
che resta sempre intraducibile, bensì alla poesia" (5),
nella convinzione che il poeta soccorra il traduttore, "con le
sue invenzioni e infedeltà", consentendogli di "arrivare
dove la semplice trasposizione linguistica non arriverebbe" (6).
Ciò che accomuna Caproni e Pagano è, soprattutto, questo
carattere, questa concezione dei tradurre le opere di autori stranieri,
comune, per molti riguardi, a non pochi esponenti della scuola ermetica
alla quale il Salentino rimase sempre fedele, epigono, quale fu, dell'ermetismo
esistenziale di derivazione gattiana. Ma questa loro opzione era radicata
anche in altre esigenze: trovare nuova linfa per la propria parola poetica
al di fuori del concluso orto nazionale e sprovincializzare la cultura
italiana indicandole, sull'esempio ormai remoto ma sempre attuale della
Staël, la grande e proteica esperienza europea, non per penalizzare
la tradizione classica italiana (Due e Trecento) ma, piuttosto, per
rinverdirla ed esaltarla mercé la convergenza di antico e nuovo.
Le forme duecentesche rivivono, infatti, nelle scelte metriche di Pagano
e di Caproni, ossia tanto nell'ermetismo maudit del primo, quanto nel
neostilnovismo popolare del secondo che nel Seme del piangere (Versi
livornesi), Premio Viareggio, 1959, raggiunge il momento di massima
Spannung.
Qui la poesia di Caproni sorprende per i movimenti musicali e leggeri
che occultano, sotto la scorza di un melos reso apparentemente elementare
da quell'aura di popolare e di fiabesco che lo connota, un accurato
lavoro retorico. E' il secondo (o, se si vuole, il terzo) tempo della
poesia di Caproni, sicché "colui che ha composto le grandi
stanze di endecasillabi (7) non ha nulla a che fare con chi ha scritto
le aguzze canzonette popolareggianti di settenarii e novenarii"
(8) del Seme. Al Caproni erratico dei "detriti", delle albe
e del transito, succede il Caproni del recupero memoriale e degli ipocoristici
("Annina", "camicetta", "serpentino",
"catenina", "scialletto", "personcina",
"canzonetta", "carrette", "collanine",
"sciarpetta", "tavolino", "fagottino",
"borsetta", "ragazzetti", "finestrino",
"cornettino", "figurina", "borsellino")
che ne contrappuntano il cavalcantiano liederimo in quella che mi sembra
possa definirsi la chanson di Annina Picchi (la leggenda per Biancamaria
Frabotta (9) ) in grazia delle movenze rapsodiche, eppure unitarie,
nelle quali questo aedo della puella-mater (Oreste Macrì) articola
il suo canto. Poesia di evocazione e di memoria che fa di Annina una
essenza agile e leggera, dal figlio idoleggiata (ora nubile, ora sposa,
ora puro spirito nell'ora della morte), fra i fragranti aromi di lavanda,
snella e fugace in bicicletta fra le usate vie di Livorno ('dimora vitale')
"accordellata istretta" ("la cintura stretta", L'uscita
mattutina, "stringendosi nello scialletto", Né ombra
né sospetto, "Fuggì nel vento, stretta / al petto
la sciarpetta", Urlo) come la cavalcantiana Mandetta di Tolosa,
mai così viva, forse, come ora che è morta, nella trepidazione
dell'amore filiale o nell'equilibrio smorzato delle voci, delle strade,
dei rumori di una Livorno popolare e liberty (la "Tazza d'oro",
i "caldi specchi"), l'empita" dal vento (Parola chiave,
cui si affida, al pari dell'altra, "ago", e degli ipocoristici,
la funzione di iconizzare la leggerezza impalpabile dell'esile animico)
che reca l'urlo delle sirene fra l'acciottolio dei brindisi nuziali,
fra i cori degli epitalami: "Tinnivano, leggeri, / i brindisi cristallini.
/ Cantavano, serafini, / gli angeli, nei bicchieri" (10), fra i
"confetti a manciate" (Eppure...
Poi il rapimento improvviso dalle romite stanze della vita (Epilogo,
Il carro di vetro, Il seme del piangere, eponima della raccolta) e Livorno
annera ("nera d'acqua", "nel buio di un portone"
(11) ) , si vuota ("odore vuoto del mare /,sui Fossi, e il suo
sciacquare") (12), mentre il mistero della morte di Annina si tinge
di tinte pascoliane (13), più che crepuscolari, per l'evocazione
di un caro fantasma pietoso del dolore filiale (si confronti, con le
dovute eccezioni, Ad portam inferi con la Tessitrice del Pascoli), per
quel carattere sommesso, colloquiale del tono nonché del ritmo
franto eppur cadenzato dall'alternanza di prevalenti endecasillabi,
settenarii e singhiozzanti senari, per certe corrispondenze testuali
(Annina "seduta in quella stazione /la mano sul tavolino [ ...
] così sola / e debole, e senza l'appoggio d'una parola"
ricorda la pascoliana tessitrice seduta "stretta su la panchetta
/ E non il suono d'una parola"), per il tessuto prosodico trapunto
di enjambements, di rade rime e assonanze, ora sparse, ora baciate (un
solo caso: intanto-pianto), ora alternate (14), che espungono il lacrimoso
e il patetico: "Ma invano tenta / di ricordare: non sa / (si osservi
il controrejet che isola e potenzia quel mistero: "non sa"
come il successivo "non rammenta) nemmeno lei, non rammenta se
è morto o se ancora è vivo e si confonde (la testa / le
gira vuota) e intanto, / mentre le cresce il pianto / in petto (15),
cerca confusa nella borsetta / la matita, scordata / (s'accorge con
una stretta / al cuore) con le chiavi di casa". E' l'idillio della
morte alle soglie dell'Erebo (Ad portam): Annina è fra i Mani
ma Caronte non ha ancora riscosso il tributo. E' l'epos tutto domestico,
umile, quotidiano, degli addii che precedono l'ultimo viaggio: "Attilio
caro, ho lasciato / il caffè sul gas e il burro / nella credenza:
compra / solo un po' di spaghetti, / e vedi di non lavorare / troppo
(non ti stancare / come al solito) e fuma un poco meno, senza / ti prego,
approfittare ancora della mia partenza" ... 1 "Nemmeno sa
distinguere bene, / ormai, tra marito e figliolo. / Vorrebbe piangere,
cerca / sul marmo il tovagliolo / già tolto" (16). Si osservino
la rarità delle rime, l'ornatus ancora più scarno se non
del tutto espunto, la diegesi prosastica, discorsiva, disadorna.
Ad portam inferi (calco biblico, cfr. nota 14) è l'elegia di
Annina e la finzione scenica che vi ha vita la pareggia alla "regina
delle elegie": l'undicesima del quarto libro di Properzio che contiene
l'addio e i consigli di Cornelia, in viaggio per l'Ade, al marito e
ai figli superstiti (Desine, Paule, meum lacrimis urgere sepulcrum).
Ma lì un fremito di allori prosapici (Cornelia è eughenès)
trascorre le leggi del sangue (Testor maiorum cineres [ ... ] a sanguine
ductas), qui la coscienza di un ruolo subalterno nel consueto spazio
domestico (" [ ... ] guarda fra tanto fumo / e tante bucce d'arancio
[ ... ] "). Al "Tu Lepide, et tu, Paule" fa eco in Caproni
"Caro son qui: ti scrivo / per dirti... / e intanto [ ... ] le
cresce il pianto". Annina ci appare ancor più tenera e vera
rispetto al suo archetipo. Non so se Caproni abbia mai letto Properzio,
se si tratti di criptomemoria. Poco importa, anzi non gioverebbe saperlo.
Resta la certezza che questa moderna elegia non ammette, nel suo genere,
altri confronti, pur nella diversità dei tempi e dei versi, se
non col canto del poeta latino ed ancor più con le scene dei
rilievi funerari attici del IV sec. (si veda %a stele del saluto"
o "La famiglia di Proclide Egialius").
Altri addii Annina aveva detto in giovinezza: "addio a Livorno.
/ Addio al Magazzino Cigni (17), / ai Trotta, ai Pancaldi; addio a a
Tazza d'oro e ai caldi specchi, e addio [ ... ] ai fitti applausi sgorgati
/ dal cuore, all'Avvalorati. / Addio al valzer d'erba, / notturni, e
al Calambrone; / addio dal Voltone / alle barcate matte / di ragazze,
al tocco / vocianti" (18).
Ma il Seme del piangere è anche il canto del rimorso lustrale,
non languoroso né topico, antidannunziano (penso a Consolazione
del Poema paradisiaco), che invoca le Eumenidi nella coscienza di un
impossibile risarcimento e di un irremeabile cammino:
Almeno le venisse
in mente
che quel bambino è sparito!
E' cresciuto, ha tradito,
fugge ora rincorso
pel mondo dall'errore
e dal peccato, e morso
dal cane del suo rimorso
inutile (19), solo
è rimasto a nutrire,
smilzo come un usignolo,
la sua magra famiglia
(il maschio, Rina, la figlia)
con colpe da non finire (20).
Ancora al pascolismo
di Caproni, che in Cronistoria aveva tenuto bordone alla "canzonetta
gattiana" (21) per poi preferire l'ottonario montaliano, rimandano
sia la 'qualità' sacrale dei luoghi affettivi, dei particolari
più umili risorti nel rimpianto della madre, delle figure borghesi
che ravvivano il realistico milieu del quartiere (Genì, Guglielmina,
Chitì, "Ada con lo zio Arduino / e con lo zio Alceste,
il Ciucci; / c'era Decio, il Guarducci, / Mentana con l'Angiolino
/ (quello della Fiaschetteria / Toscana, al Cavalcavia), / e c'erano
Pilade e Italia, / Fedora con la zia Zicarola") (22), sia la
regressione alla dimensione prenatale che consente l'incorporazione
sepolcrale della giovinezza materna, sia, soprattutto, il nostos alla
fanciullezza ("ùche lacrime nel bambino" che cerca
"La mamma-più-bella-del mondo" girando per Livorno
"tutto l'intero giorno") (23), tempo edipico in cui la madre
è anche "fidanzata" ("Dille chi ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato") (24) ed archetipo della donna
e della bellezza. Con questa materia sentimentale concomita e s'allinea
una rima elementare, ingenua, giullaresca: "Per lei (Annina)
torni in onore / la rima in cuore e amore" (Iscrizione). Non
più le ampie volute che timbrano i versi di Cronistoria, dei
Sonetti, delle Stanze, ma un canto gioioso e argentino:
Per lei voglio
rime chiare,
usuali, in -are.
Rime magari vietate (25),
ma aperte: ventilate (26).
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era così schietta)
conservino l'eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari (27).
Una rima che non
aduggi, che bandisca ogni turgore, ogni condita oratio legata alla
finzione poetica. Da qui l'invocazione alla mano:
Mia mano fatti
piuma
fatti vela; e leggera
muovendoti sulla tastiera,
sii cauta. E bada, prima
di fermare la rima,
che stai scrivendo d'una
che fu viva e fu vera.
[
. ]
Sii arguta e attenta: pia.
Sii magra e sii poesia
se vuoi essere vita.
[ .............................. ]
Sii fine popolare
come fu lei - sii ardita
e trepida, tutta storia
gentile, senza ambizione (28).
Nell'invocazione
alla mano, il ritratto transfrastico della madre (fine e popolare,
leggera come una vela, cauta, arguta, pia, ardita e trepida, gentile)
ma anche il significato salvifico della poesia. Sempre ondulato e
franto il ritmo, non solo dagli enjambements ma anche dalla punteggiatura,
fittissima, ossessiva in tutta la raccolta.
Come opportunamente osserva Biancamaria Frabotta, "la canzonetta
èl'abito più conforme alla [ ... ] figura magra e schietta"
(29) di Annina. Quanto aggrondato, specioso, inautentico sarebbe apparso
l'alcaico endecasillabo se Caproni gli avesse commesso la trenodia
della madre! Quanto inadatto a quei nomi, a quelle voci, a quella
figura muliebre che compare e scompare, labile, aerea, angelica, fra
la selva degli angiporti livornesi, vagheggiata nella sua giovinezza
di ricamatrice gentile, "donna d'ingegno fino e di fantasia,
sarta, suonatrice di chitarra" (30) che amava "frequentare
i circoli e ballare" (31) e che di Caproni affinò "il
gusto e la passione dell'arte" fin dalla sua "prima infanzia"!
Quale mimesi figurale avrebbe avuto corpo in un canto di tipo illustre
o tragico? E' privilegio dei veri poeti ciò che Auerbach chiama
realismus, risemantizzando una voce, di significato tanto specifico,
nella dialettica di un rapporto fra figura poetica, azione e significante,
per cui "con un solo atto la fantasia dei poeta crea la figura
e la sua sorte" (32).
Mimesi non come riproduzione a ricalco di una realtà fenomenica,
sibbene come Vorstellung di fantasmi poetici e grumo di toni in sé
unitari e coerenti. In quest'alveo è il disegno prosodico del
Seme che a Ugo Dotti apparve come la canzone dell'esilio (33).
Ma quel tessuto poetico si configura anche come la chanson di Annina
modulata nei tre tempi di una rapsodia: all'ouverture cavalcantiana
("Perch'io ...") segue una duplice partitura melica cui
corrispondono due registri: quello epidittico, ecfrastico, in cui
la donna domina la scena e vi si muove "snelletta e leggera"
come il dantesco "vasello" purgatoriale (L'uscita mattutina,
Né ombra né sospetto, Quando passava, Sulla strada di
Lucca, La gente se l'additava La ricamatrice, La stanza, Barbaglio,
Scandalo, Urlo, Ad portam inferi, Eppure..., Coda, Epilogo, Il carro
di vetro) e quello più propriamente epilinguistico, monodico,
connesso alla corona degli entremeses, cantucci lirici che il poeta
si ritaglia per interiorizzare ciò che il canto ha oggettivato
e si sdoppia nell'Anima, nella penna, nella pagina e risogna la perduta
madre con cuore di fanciullo ("il figlio-fidanzato"). Agli
intermezzi appartengono Preghiera ("Anima mia ti prego"),
Battendo a macchina ("Mia mano fatti piuma"), Per lei ("Per
lei voglio rime chiare"), Piuma ("Mia pagina leggera / Piuma
di prirnavera"), Il seme del piangere e, infine, Ultima preghiera
("Anima mia, fa' in fretta") che ha funzione di congedo
e chiama in causa, più di altre liriche, il modello cavalcantiano
dell'Anima, dell'esilio, dell'addio.
Ma il cavalcantismo di Caproni mi pare originato da un bisogno di
straniamento, da un originalissimo ludo figurale ("come vorrei
che intorno / andassi tu canzonetta: / che sembri scritta per gioco,
/ e lo sei piangendo: e con fuoco", La gente se l'additava) più
che indotto da un'austera e cogente fedeltà a uno schema letterario.
Le ballatette e i congedi vivono del colloquio, tutto intimo e fidente,
del poeta col proprio canto, dell'abbandono, segreto e solitario con
cui Caproni si tende verso la sua poesia alla quale affida, con procedimento
transfrastico, la voce mesta e penita dell'anima, il "seme dei
piangere", appunto, che germoglia dalla "vergogna dell'errore"
(cfr. Dante, Pg. XXXI, vv. 43-46: "Tuttavia, perché mo
vergogna porte / del tuo errore, e perché altra volta, udendo
le sirene, sia più forte, pon giù il seme del piangere
e ascolta"). A differenza della donna amata dal Cavalcanti, Annina
è morta ("Armina è nella tomba / Annina ormai è
un'ombra" (34), si noti l'anafora) come la pascoliana tessitrice
o come Laura del Petrarca e Silvia del Leopardi: ma ella non è
la donna che il destino ha posto (per poi toglierla) sul sentiero
della vita del poeta, è, invece, la madre ed assume "il
volto che è stata capace di darle la leggenda" (35) che
di lei il poeta aveva udito dai "discorsi in casa e guardando
le fotografie"^ sicché far "rivivere" sua "madre
come ragazza" gli imponeva di trasvalutare e sollevare quella
leggenda in chanson, per risarcirla "contro le molte sofferenze
e contro la morte" (37). E l'input ha dei tratti crepuscolari:
come la gozzaniana Carlotta, Annina "è fissata nell'albo"
(38), icona ancestrale evocata ed amata nel canto ("Ho invece
amato moltissimo - e amo ancora moltissimo - l'Annina che non s'era
ancora maritata e che io ho conosciuto [ ... ] soltanto nella leggenda")
(39) come "ragazza vezzeggiata e vagheggiata dal poeta"
(40).
Protagonisti del Seme due figure femminili dunque: Annina e l'Anima
(con le sue ancelle, la "penna" e la "pagina").
Deuteragonista il poeta, quasi che la sua colpa non lo abiliti al
colloquio diretto con la madre. Solo attraverso l'escamotage del proprio
doppio (l'Anima), egli può attingere il perdono e la catarsi.
Ma questo sdoppiamento pone anche al riparo dal topico e dalla retorica
il lamento filiale, fungendo da filtro a una materia "di fuoco"
e da contrappunto alle "dissonanze" che nel Seme rilevò
Giuseppe De Robertis (41). Produce, in più, quell'effetto di
sbalzo da cui emerge in tutta la sua preziosa, aerea fragilità
l'esile animico (l'anima del poeta parla ad Annina ormai anima) speculare
all'illibato candore del canto. E il poeta affida, oltreché
agli ipocoristici, anche al rilievo dei rejets e dei controrejets
la funzione di semantizzare in campi associativi quella leggerezza
muliebre l'umile, pretiosa e casta". Dei primi si osservino:
bianca, timida ("Perch'io"); timida, d'oro ("Preghiera")
-giovane, d'oro, di cipria, ilare, stretta ("L'uscita mattutina");
dritta ("Né ombra né sospetto"); d'aria ("Quando
passava"); e freschi, volava, nel vento ("Sulla strada di
Lucca"); in bianco, timido, magra ("La gente se l'additava");
e agile, bianco, lino, trasparente, candido ("La ricamatrice");
il lino, e magri, l'ago ("La stanza"). acuta ("Barbaglio");
dei raggi ("Scandalo"); gli angeli ("Urlo"); e
magri, e vivo, di camicetta, di corallo, specchi, più tenero
("Eppure"); timido ("Epilogo"); l'aria ("Piume");
più lieve ("Ultima preghiera").- Dei secondi: vela,
netta, fina, scia, sottile, in trina, leggera, schietta, l'ago, vago,
fresco, spuma, vivo, stretta, il vento, leggero, fina. Fra le parolechiave
complementari al campo associativo testé enucleato: anima,
piuma, penna, tutte afferenti all'idea di un angelico volo, quello
di Annina, pura essenza, proustiana creatura della memoria e del sogno,
sortita nella mitopoiesi dalle quattro radici macriane della poesia.
b) Caproni
e Pagano.
Introducendo questi appunti, dicevo delle analogie che accomunano
Caproni e Pagano. Ad entrambi si addice quanto Giorgio Barberi Squarotti
riconosce al poeta livornese, cioè l'attuazione di "un
dia~ gramma comune alla poesia novecentesca, [ ... ] nata dopo le
esperienze ungarettiane e montaliane, dopo il 1930" (42). Un
diagramma che connota l'una ricerca di ordine nella regolarità
metrica", nel "tentativo di ricostruire la regola dopo la
distruzione tecnica di Ungaretti e quella metafisica di Montale; un
tentativo che si attua nel recuperato monolinguismo di ascendenza
petrarchesca di un Parronchi, nello schema musicale di Gatto, nell'endecasillabo
classicamente atteggiato di Quasimodo" (43) e che nel primo Caproni
origina quel contrasto che, mi sembra, timbri gran parte della produzione
di Pagano per quei suoi virtuosismi sinestetici, per le sue vertigini
analogiche sicché, "nonostante l'imposizione della norma
metrica, la disposizione problematica resta evidente, e il tormento
tecnico non fa che mettere in luce un tormento morale e storico".
Sintomatico, a questo proposito, il sonetto che Pagano dedicò
a Caproni ("Perché, Giorgio, di scavi e scavi, sotto")
in apertura di Calligrafia astronautica (44) (1958) che precede di
un anno la pubblicazione del Seme del piangere. Il sonetto può
considerarsi come il vero e proprio manifesto poetico del Salentino
per l'enunciazione del ruolo connesso alla poesia ("Scavare,
gioia di condanna, è questo /che impone la parola modulata,
/ l'edificio d'abisso ov'è raccolto / tutto il piangere, il
ridere, il funesto / grido che raggelando ogni giornata / s'esilara
in un mondo capovolto") e del tormento storico e morale cui accennava
Squarotti: " [ ... ] A un filo s'è ridotto / l'àndito
perseguibile, furente / se n'aggroviglia il piede che ci mente / provvidi
scali -e il ponte umano è rotto". Non alle ariette del
Seme, ma ai Sonetti dell'anniversario di Caproni (Cronistoria, 1938-1942)
rimandano i caratteri ermetici, i toni oracolari di Calligrafia. In
questa fase della poesia di Pagano si può cogliere lo stesso
contrasto, fra metrica e gorgo sentimentale, che Squarotti coglieva
nei Sonetti di Caproni, lo stesso "discorso franto, involuto,
oscuro non per le difficoltà di allusione [ ... ] ma per involuzione
ritmica, per l'ostilità della tematica a chiudersi nel giro
del verso regolare delle rime" (45).
Leggendo sinotticamente I Sonetti e Caffigrafia ci si imbatte non
solo nelle stesse peculiarità metrico-formali sopra accennate
ma anche in tematiche affini e contigue: in Pagano, terra, mare, madre,
morte (Epica), nulla, vanità, distopia (Ballata del Narciso),
non-senso e, ancora, il nulla (Allée), il "cerchio delle
mura" (Eclissi, si veda in Caproni "La città dei
tuoi anni se fu rossa / di mura), l'"assonnato tufo", la
"pietra disadorna [ ... ] alta e solare", l'occhio che "s'accieca",
la piazza e le colonne (Allée), gli "ossari", il
"liquido sfacelo" rievocano del primo Caproni "i Fori
abbacinati", la "città incenerita nei clamori / bianchi
di luglio", la "piazza tersa di vento e di cavalli",
i "ponti bianchi d'ossa / lapidate al sole", i "bianchi
archi", i "giorni di luce [ ... ]" in "tenebra
d'affanni e ardori". Così alla esulcerata, "ardente
lettura" di segni incisi da una "precaria / chiusa grafia,
che nessuna figura / allenterà, se non morte plenaria",
al "lutto" in cui rovina "l'umano dolore", alla
funebre solarità della sabbia marina, alle "trombe infantili",
alle "tube sottili" che in Caproni "penetrano nel sonno"
fanno eco, in Pagano, "il vento di Geenna", "il rovello
del nulla", il "canto della prefica", l'ardua "vacuità
sul limitare", la voce che "s'arroca". E' tutto un
convergere di campi semantici che di Pagano denota la fedeltà,
forse fin troppo osservata, al modello caproniano e gattiano.
Nei Privilegi del povero, Pagano sarà alius et idem, nel senso
che sottoporrà, non solo al dominio della metrica, ma anche
a una struttura poematica in forma di tetralogia, quei temi che in
Calligrafia appaiono enunciati sotto forma di preludio, primo fra
tutti il tema della Morte il cui sentimento occupò, con dionisiaca
ossessione, la sua mente e il suo cuore. E allora il canto si libererà
in una infinita Kermesse di temi (si ritornerà sui Privilegi
in altra sede) attraverso una mitopoiesi che è un crescendo
sempre più immaginifico, prodigioso, di toni, di suoni, di
segni, quasi che l'antica radice storica della Lecce barocca (sua
"dimora vitale") si fosse transustanziata antropologicamente
e vulcanizzata per metamorfosi sacrale dal "materiale" nell'immaginario,
facendosi verità biografica, esistenziale, poetica. Conforta
questa impressione -di virtuosismo neobarocco, di letteratissimo ludo
-che si fa strada dopo la lettura della prima opera organica di Pagano
(Calligrafia), quanto Caproni scriveva sulla "Fiera Letteraria"
recensendo la plaquette in parola: " [ ... ] E di fronte a questa
Calligrafia astronautica, che evidentemente raccoglie i capricci (nel
senso più profondamente musicale) del nostro giovane amico,
ricco di amore e di fede devota senza tuttavia riuscir bigotto di
questa o di quell'altra infatuazione, ci limitiamo a dire che, dove
egli non si diverte a tradurre se stesso (cioè a costringersi
o stringersi tutto - e così indichiamo il peccato insieme con
la virtù - nel proprio gioco metrico: basti leggere "Antifona"
e "Rondò") sa raggiungere quella profonda risonanza
di eloquio [ ... ] che proprio e soltanto grazie a una sapiente e
insieme istintiva orchestrazione della parola e del ritmo riesce già
a qualcosa di ben più concreto d'una pura e semplice promessa"
(46). E qui il pensiero corre alla fortuna (finora parca) del Salentino
il cui pregio, la facilità ovidiana (quod temptabam scribere
versus erat, Tristia IV, 10, 25) di fare versi coincideva, forse,
con un limite fisiologico sicché la mole della sua produzione
forse poteva essere sottratta alla sensazione di elefantiasi, che
il critico può avvertire, in grazia di un processo selettivo
che la antologizzasse e, insieme, la liberasse dal preziosismo di
una editoria ("I quaderni del Critone") elegantissima come
una confettiera di Sèvres, ma di piccolo cabotaggio. Né
valsero a Pagano, fermo sulle sue scelte, le relazioni con la cultura
italiana di cui Caproni, Betocchi, Gatto, Traverso, Macri, lo stesso
Montale, per citarne solo alcuni, erano (e sono) i maggiori esponenti.
In questa luce di rapporti si iscrivono le lettere di Caproni al Salentino
(ringrazio la famiglia Caproni e Marcella Romano Pagano per avermi
dato facoltà di pubblicarle) dalle quali emergono inediti particolari
biografici, valutazioni critiche, istanze amicali utili a connotare
il contesto entro il quale si colloca il contributo del poeta livornese-genovese-romano
all'attività letteraria di una piccola "regione":
il Salento.
Le lettere
[foglio manoscritto]
Roma, 3 settembre [1956]
Caro Pagano
ti ricordo sì, e con grande affetto e con grande stima. Anche
se non conosco ancora il tuo volto.
Per il Critone, purtroppo, non ho nulla di eccezionale da mandarti
(il libro mandato a Vallecchi mi ha vuotato i cassetti), ma vedi se
ti piace questa canzoncina (47) (piaciuta molto a De Robertis) o questa
mia prosetta sul settembre, anzi sulla lepre (48). E senza complimenti,
giacché io voglio bene al cestino quando lo merito.
Per onestà ti avverto che la prosetta è già apparsa
tempo fa nel Raccoglitore della Gazzetta di Parma (49) e che La lepre
fu data alla RAI nel '53. Ma vedo che anche Macri pubblica sul Critone
cose già apparse sul Raccoglitore.
Ti ripeto non far complimenti con me. Se vuoi cose inedite, devi intanto
aver la pazienza di aspettare. Questa te la mando come prova di buona
volontà e di affetto.
Salutami caramente Comi, col quale ho trascorso quest'estate una bellissima
serata (o è ancora a Roma?).
A te affettuosi saluti e ringraziamenti
tuo Giorgio Caproni
P.S. So che sei un traduttore insuperabile. Ma mai ho ricevuto una
delle tue pubblicazioni.
[foglio manoscritto] Roma 15/9/56
Carissimo Pagano,
grazie per la tua lunga e bella lettera, che rinsalda la nostra invisibile
amicizia. E grazie per il promesso compensuccio, sempre gradito a
un maestro elementare (mi fa piacere sentire che anche tu sei della
famiglia). E ancora grazie per le notizie sul Salento! E ancora e
ancora grazie per il promesso articolo, di cui sarò fiero.
Ma vedi come ha agito Vallecchi (50): ha spedito i libri senza dedica
e senza un volantino, senza mandare a me le copie che mi aveva promesso.
Proprio le copie che mi ripromettevo di spedire agli amici più
cari, come Comi. Se lo vedi, diglielo: io ho con me una unica copia!
Nel libro vi sono parechi errori di stampa: i più gravi sono
questi:
pag. 139 XX linea
anch'essa - anche il tuo - leggere suo - fu certezza
pag. 186 V linea
e - leggi è - dalle cose tue che invano imparo.
Ma ora come faccio a mandarti la copia che non hai? Se V.[allecchi]
sarà buono (ma perché non la chiedi per recensione a
Gozzini?) te la spedirò, Sì, Bertolucci mi ha detto
che siamo coinquilini. E io aspetto qualche tua antologia, appena
uscita. E ne scriverò con gioia.
Saluta Comi e grazie ancora di tutto
tuo Caproni
Roma, 10 nov. 1956
Carissimo Pagano,
rispondo con un mese di ritardo alla tua cara dell'11 ottobre. Non
mi scuso: mi vergogno. Soprattutto per non essermi rallegrato in tempo
con te per la nascita del figlio.
Non so rendermi conto come sia passato tanto tempo. Forse dipende
dalle mie preoccupazioni, e dalla scuolaccia, che mi succhia tutte
le poche energie che ho.
Oggi leggo sul Messaggero il felice esito del Salento. Ho ricevuto
il Critone con la mia poesiola (51) (piaciutissima a tutti, e ne sono
contento per voi) e l'assegno (piaciuto anche a me). Ma non ho ancora
avuto il numero ultimo, con ,la lepre" (52).
Quanto alle mie traduzioni da Baudelaire, dovrei copiarle (ne ho una
copia unica) e lo farò appena possibile. Intanto mandami le
tue: mi farai piacere. lo ti manderò, magari, la più
lunga: Le voyage (53).
Per la conferenza, Dio sa se verrei volentieri (54). Ma non sono un
conferenziere (dovrei leggermi), e per di più, ora, non saprei
di che parlare. Ci penserò, e ti saprò dire qualcosa
di preciso dopo le feste: lo farei volentieri dopo le feste o durante
le vacanze natalizie. (Quanto dovrebbe durare la conferenza?)
Salutami, quando lo vedi, il carissimo Comi.
Auguri per il tuo nuovo nato, e fatti vivo qualche volta a Roma. Tuo
aff/mo
Giorgio Caproni
Roma, 12/5/57
Carissimo Pagano,
no, non mi sono affatto scordato del Critone. E per dartene una prova,
ti mando queste povere traduzioni di un poeta a me caro, Henri Thomas
(55), perché tu scelga pubblicandone anche una sola (in questo
caso l'ultima).
Purtroppo, sul momento, non ho cose mie.
Ti avrei mandato, per prova di affetto, Il viaggio di Baudelaire (nel
centenario dei Fiori), ma poi ho pensato che per il Critone è
troppo lungo. (A chi potrei mandarlo per levarmelo dal cassetto?).
Mi spiace che tu non abbia mandato nulla alla Fieraccia. Ne avrebbe
guadagnato. Se tu non fossi già notissimo (qui ti conoscono
tutti) ti avrei presentato io, in testimonianza di stima e di affetto.
Ma le tue poesie non le devi abbandonare così. Le vedrei tanto
volentieri, magari dattiloscritte.
Insisti tanto, che finirai per smuovere la mia pigrizia e per farmi
venir davvero a Lecce. Ma è che io non so - assolutamente -
far conferenze e parlare in pubblico. I pochi esperimenti mi sono
andati tutti male. Sono timidissimo, mi si asciuga la lingua e non
riesco che a tremare (per questo ho smesso di suonare il violino:
mi tremava la mano, e miagolavo).
Scrivimi ancora e muoviti con le tue poesie. So che sono belle.
Saluta caramente Comi e gli altri amici, e a te (e alla tua famiglia)
un abbraccio dal tuo aff/mo
Ho perduto il tuo indirizzo di casa.
Giorgio
Roma, 9 agosto 1957
Carissimo Pagano,
scusa il ritardo: sono stato fuori, in Valtrebbia, a cercare un poco
di fresco. Breve vacanza, ahimé. E grazie per le lodi che mi
fai come traduttore. Ma che dovrei dire io di te, del tuo Cimitero
marino (56) ? Credo che più in là non si possa andare
di dove sei giunto tu. lo mi sarei rotto le ossa o avrei perduto tutti
i capelli. E' un lavoro, il tuo, che meriterebbe un lungo discorso,
che magari faremo a voce quando verrai a trovarmi.
Mandami senz'altro per la Fieraccia le due poesie tue. Saranno felici
di pubblicarle. Ma perché vuoi che ti presenti io? Hai proprio
bisogno di presentazioni? Comunque, non te lo dico davvero per ritirarmi,
tutt'altro! Ma se vuoi che ti presenti, non mandarmi soltanto quelle
due poesie, e forniscimi di qualche brevissimo dato anagrafico.
Grazie per il compensino, che ho ricevuto e che mi ha fatto molto
piacere.
Se vieni, portami a far vedere il tuo Baudelaire (57). lo ti farò
vedere il mio.
Buona estate anche a te, e un affettuoso abbraccio
Giorgio Caproni
Roma, 16/1/58
Carissimo Pagano,
sono in ritardo nel comunicarti che gli amici della F.L. (58), coi
quali ho parlato, saranno ben felici di pubblicare le tue poesie.
Purtroppo io non sono in grado di garantirti, però, dagli errori
tipografici.
Manda dunque (a me o a loro: in questo caso avvertendomi), e scusami
se alla tua lettera risponderò con un poco più di calma.
Oggi sono "mal preso", come dicono a Genova: devo finire
un articolaccio che non mi viene.
Ti abbraccia il tuo aff/mo
Giorgio Caproni
[foglio manoscritto] Roma, 30/1/58
Carissimo Pagano
le tue poesie sono state definite stupende e sono già composte.
Soltanto in questo momento sono riuscito a mettermi in contatto con
la redazione della Fiera, ed ero sulle spine dopo la tua sfuriata,
sacrosanta, s'intende. Nella mia lettera, però, volevo soltanto
dirti di non poter garantire nulla circa gli errori di stampa. Ad
altro non pensavo. 1 miei articoli, lo sai, ne sono pieni.
Angioletti non l'ho visto, quindi di nulla mi ha parlato.
Ti abbraccia il tuo
Giorgio
[P.S.] Mi hanno detto che le tue poesie andranno sul prossimo o sul
successivo numero.
Roma, 11/2/58
Carissimo Vittorio,
stamani, aprendo la Fiera, ho visto le tue bellissime poesie (59):
più belle ancora di quando le lessi dattiloscritte.
Qui ti unisco il pezzetto che mi hai chiesto, e presto spero di poterti
mandare qualcosa di migliore: o una prosa sulla Sardegna o una su
Genova. Ti prometto. Spero di vederti presto a Roma (ci pensi che
non ci conosciamo ancora?). Saluta Comi se lo vedi, e a te un abbraccio
dal tuo vecchio aff.mo
Giorgio
Roma, 14 luglio 1958
Carissimo Vittorio,
da quanto tempo dovevo rispondere a una tua cara (mesta) cartolina?
Dico quella in cui accennavi alla tua anticamera presso Longanesi
& C [ ... ].
Un editore (l'Amicucci) mi ha fatto una proposta: di dirigere, senza
ch'egli ci metta il becco, una collana di poesia. Figurati se io sarei
felice e fiero di cominciare con te. Ma tu meriti un grande editore,
e quindi non c'è nemmeno da parlarne.
Quanto al disgusto per il mondo letterario, sai quanto io lo abbia
sempre stimato. Non vale la pena di prendersela, credimi.
Il mio nuovo libretto presso Scheiwiller ritarda per colpa mia. Infatti
non ho ancora finito di metterlo insieme, perché non ho tempo
per riordinare e rivedere le mie cose, e soprattutto per aggiungere
(ancora da scrivere) quelle che vorrei aggiungere.
Se verrai a Roma il mese entrante, può darsi che tu mi trovi
ancora. Sì mi piacerebbe conoscerti. Ho conosciuto soltanto
la tua voce per telefono: una voce così severa che mi mise
in soggezione.
Rosario non mi ha telefonato e non mi ha detto nulla della sua visita
a Lecce. Oppure può darsi che non mi abbia trovato in casa.
Cerca dunque di farti vivo, e non crucciarti troppo per la stampa.
L'essenziale è che tu scriva, come invece io non riesco più
a scrivere. Faccio tutto a macchina, anche questa mia lettera, ahimé.
Un abbraccio fraterno dal tuo vecchio
Giorgio
Chi ha messo sulla busta "All'illustre Poeta Giorgio Caproni"?
Così vuoi ch'io ti chiami? Non facciamo più di questi
scherzi. Di questa stagione non porto nemmeno la cravatta.
Roma, 19/12/58
Carissimo Vittorio,
ti lamenti del mio silenzio. Ma io ti scrissi da Vicenza, a proposito
dei tuoi libretti, il 7 u.s.
Com'è possibile che tu non abbia ricevuto? Ti ho così
poco dimenticato da averti menzionato perfino (perfino!) sulla F.L.
(60), ultimo numero, facendo uno strappo alla mia promessa di non
fare più recensioni (promessa a me stesso).
Ora son io ad aspettare tue notizie.
Intanto, i più affettuosi e sinceri auguri di buon Natale e
di sereno anno nuovo. Anche a Comi, se lo vedi, ti prego.
Tuo aff/mo
Giorgio Caproni
Questa volta mando al Critone. Non vorrei che l'indirizzo che ho di
casa tua fosse fasullo.
APPENDICE / Poesie
di Henri Thomas tradotte da Giorgio Caproni
La notte sopraggiunta
La corda vibra
prima che il giorno finisca,
una polvere circonda le pietre,
la corda trema e la polvere avanza
nelle ossa fra gli spazi vuoti,
così l'acqua buia invade le cave,
io non son più con l'erba e il vento,
ho deviato dalla curva infinita
che congiunge le notti, i giorni e le stagioni,
resta questo filo che vibra sordamente,
questa polvere che emanano le case,
un uomo seduto sotto gli orologi delle stazioni
la vede volitare fra il mondo e lui,
la corda vibra al passaggio dei rumori
come un insetto coperto di cenere,
ultima voce che parla senza speranza
quando s'è vuotata l'impalcatura nera,
chitarra d'osso sotto la mano d'un fantasma
che si confonde con la polvere oscura,
in luogo del corpo giunge un fuso di stelle,
ricostruisce un'altra creatura.
Ieri e domani
Passeremo il
mare brumoso o turchino,
entreremo nel paese senza orologi,
un albero morto giace sulla spiaggia,
la sua ombra e io dobbiamo congiungerci.
Lasciamo gli
orpelli della pazienza
e le opere utili soltanto alla morte,
le città sono cataste di feretri,
qui alte, semisfasciate più in là.
I fiori incollati
dal vento alla roccia
quando la pioggia dalle lunghe gambe corre,
e quando il mare è un solo brontolìo
nel panico, alla fine delle belle giornate,
codesti fiori
sotto la luna si rianimano,
l'onda strascica una rete d'oro, un faro
scintilla in fondo alla vecchia strada,
folle una mano ha disciolto i miei ormeggi.
Il villaggio, l'albero
Il villaggio
e, invecchiato, l'albero, il camposanto
dove l'un dopo l'altro se ne vanno i parenti,
la casa e la sua piccola vita, il gesto stanco
di mia madre nell'orto, a lei docile ancora.
Povera madre
mia, già in piedi anzi mattina,
io sento un mormorio di future stagioni,
tu al lamentio del gatto vaghi per la cucina,
pensi ch'io dorma, invece m'avvio nell'avvenire
verso un giugno
di foglie e di luce rapita
nell'orto da cui ormai cancellato è il tuo sforzo,
- è lontano tuo figlio, s'è perso nella vita,
egli ha spesso ferito il tuo caro ricordo.
Tu che ingenua
sognavi di sottrarmi al destino,
eccoli i giorni nuovi, l'orizzonte di morte...
Oh potessi tornare alle estati travolte
per udire il tuo passo sul far del mattino.
NOTE
1) Cfr. "Sudpuglia", XVII, marzo 1991, 1, pp. 121-131.
2) Si veda ALESSANDRA DE BIASE, L'opera giornalistica di Giorgio Caproni,
in "La Rassegna della letteratura italiana", 93, VIII, Gennaio-agosto
1989, pp. 155-173. Tutte le poesie di Caproni sono raccolte, invece,
nell'edizione garzantiana, curata dallo stesso poeta, Poesie 1932-1986,
apparsa nel 1989.
3) Cfr. GIORGIO CAPRONI, La vita non è sogno, in "Il lavoro
Nuovo", 1 Febbraio 1950, anno V, n. 26 e A. DE BIASE, L'opera
ecc., cit., p. 157.
4) Torino, Einaudi, 1951.
5) A. DE BIASE, ibidem.
6) Ibidem, p. 158.
7) Il riferimento è a Stanze della funicolare, ma vale anche,
mi sembra, per i Sonetti dell'anniversario.
8) Cfr. PIERO CITATI, "il seme del piangere", in "Il
punto" del 14 novembre 1959.
9) Cfr. il suo utile ed elegante contributo: BIANCAMARIA FRABOTTA,
La 'leggenda' di Annino Picchi nel 'Seme del piangere' di Giorgio
Caproni, in "La Rassegna della letteratura italiana", 94,
VIII, settembre-dicembre 1990, pp. 140-145.
10) Cfr. Urlo. L'edizione cui, d'ora in poi, si fa riferimento è
quella garzantiana citata in nota 2. La lirica è a pag. 213.
11) Cfr. Il seme, p. 227.
12) Ibidem. Si osservi la sinestesia: "odore vuoto".
13) Sul poscolismo di Caproni, cfr. GIORGIO BARBERI SQUAROTTI, Appunti
per un discorso su Caproni, in "Poesia Nuova", dicembre
1958 ora in "Galleria", XXXX, 1990, 2, AA.VV., GIORGIO CAPRONI,
a cura di ANTONIO BARBUTO, pp. 342-359 (in particolare p. 344: "Nel
modello pascoliano è il punto di partenza di Caproni ecc."),
ALESSANDRO PARRONCHI, "Il seme del piangere", in "Paragone",
n. 18, ottobre 1959 ora in "Galleria", cit., p. 373. Al
Pascoli legava Caproni anche un non troppo remoto legame di parentela:
devo la notizia al figlio dei poeta, prof. Mauro Caproni.
14) Il riferimento è Ad portam inferi. Inferi èun apax
biblico, vale Inferorum. Cfr. ISAIA, XXXVIII: "Ego dixi: in dimidio
dierum meorum vadam ad portas inferi".
15) Qui è il rejet a rafforzare "il pianto".
16) Ad portam inferi, pp. 214-218, ed. cit.
17) Annina "frequentò da ragazza il Magazzino Cigni, una
delle case di moda allora in auge a Livorno: nella Livorno ancora
ottocentesca". Così Caproni in FERDINANDO CAMON, G. CAPRONI,
in Il mestiere di prete, Milano, Garzanti, 1982, p. 103 ora in "Galleria",
cit., p. 284. Ivi altri riferimenti utili per l'approccio alla lettura
dei Seme.
18) Eppure..., p. 221.
19) L'enjambement prolunga nel rejet la pena dei rimorso.
20) Ad portam inferi, pp. 216-217, ed. cit.
21) Cfr. A. PARRONCHI, "Il seme del piangere", cit., in
"Galleria", cit., p. 371.
22) Eppure..., pp. 219-220, ed. cit.
23) Il seme del piangere, p. 227, ed. cit. Il poeta non esita ad affrontare
l'alea dei topico ("La mamma ecc.") catafratto, com'è,
dalla autenticità dei sentimento.
24) Ultima preghiera, p. 231, ed. cit.
25) Ovviamente ai poeti "laureati", perché considerate,
da questi, dilettantesche.
26) Cioè non sofferte per il tormento tecnico, creativo; perciò
spontanee, aperte, schiette come Annina.
27) Per lei, p. 211, ed. cit.
28) Battendo a macchina, p. 204, ed. cit.
29) Cfr. B. FRABOTTA, La leggendo ecc., cit., p. 143.
30) La testimonianza è resa dallo stesso Caproni. Cfr. nota
17.
31 ) Ibidem.
32) ERICH AUERBACH, Introduzione storica sull'idea e la sorte dell'uomo
nella poesia, in ID., Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1974, p.
4
33) Cfr. UGO DOTTI, Giorgio Caproni, in "Belfagor", novembre
1978, pp. 681-696. Di U. Dotti si veda anche I racconti dei poeta,
in "L'Unità", 8 maggio 1984.
34) Epilogo, p. 224 ed. cit.
35) Così Caproni nell'intervista a Camon. Cfr. F. CAMON, Il
mestiere ecc., cit., p. 284.
36) Ibidem.
37) Ibidem.
38) GUIDO GOZZANO, L'amica di nonna Speranza, v. 49.
39) Cfr. nota 35.
40) Ibidem. Dei suoi genitori Caproni dice nella citata intervista
a Camon: "quello ad essere più presente come tale, è
mio padre, l'Anchise di quell'Enea in cerca, dopo la guerra e l'incendio,
d'una mai trovata nuova terra dove fondare la mai fondato nuova città:
di quell'Enea che simboleggia un po' il destino della mia generazione"
(ivi). Delle sue città: "La città più 'mia',
forse, è Genova. Là sono uscito dall'infanzia, là
ho studiato, son cresciuto, ho sofferto, ho amato. Ogni pietra di
Genova è legata alla mia storia di uomo [ ... ] ed è
per questo che da Genova, preferibilmente, i miei versi traggono i
loro laterizi. Livorno per me è l'infanzia: è Annina,
è la madre [ ... ]. Con Roma, anche se ci vivo da anni e non
so staccarmene, non lego molto: [ ... ] manca il paesaggio industriale
a me tanto caro, manca il porto, mancano le navi [ ... ]. Ma amo molto,
ugualmente, questa città [ ... ]. Non lascerei Roma, forse
nemmeno per Genova [ ... ] diventata ormai in me pura città
dell'anima". lbidem.
41) Cfr. GIUSEPPE DE ROBERTIS, "Il seme del piangere", in
Altro Novecento, Firenze, Le Monnier, ora in "Galleria",
cit., pp. 360-361
42) G. BARBERI SQUAROTTI, Appunti ecc., cit., p. 348.
43) Ibidem.
44) VITTORIO PAGANO, Calligrafia astronautica, Quaderni del "Critone",
Galatina, 1958; pagine non numerate.
45) G. BARBERI SQUAROTTI, Appunti ecc., cit., p, 349.
46) G. CAPRONI, Poesie di Lamberto Pignotti e traduzioni di Vittorio
Pagano, in "La Fiera Letteraria" del 21 dicembre 1958, pp.
3-6. Circa l'attività versoria del Salentino si legge: "
[ ... ] In Francese Antico Pagano raccoglie alcuni esempi dei suo
modo acuto e appassionato di tradurre dalle lingue e dai tempi più
differenti dalla nostra lingua e dai nostri tempi un testo poetico.
[...] Ma il dono di Pagano "imitatore" è proprio
quello di non essere uno specialista, ma semplicemente un poeta, il
che se non gli impedisce un giuramento di fedeltà coniugale
all'intelaiatura metrica delle antiche forme, bisogna anche dire che
non gli trattiene l'estro fra le sbarre della gabbia d'oro, dove invece,
grazie alle felici scappatoie o scappatelle che sono proprie della
poesia, questi riesce a muoversi con tanta intima libertà da
dar l'impressione [ ... ] non d'un semplice ricalco ingegnoso, bensì
di una vera e propria, saporosissima spesso, reinvenzione"; lbidem.
47) E' Preghiera, la ballatetta dedicata e ispirata alla madre Anna
Picchi. Cfr. "Il Critone" (d'ora in poi con sigla CR) anno
1, n. 5-6 agosto-settembre 1956 poi ne Il seme del piangere (1950-58)
ora in G. CAPRONI, Poesie (1932-1986), ed. cit., p. 201.
48) Cfr. CR, anno I, n. 7-8, ottobre-novembre 1956. la prosa è
stata da me censita nel mio Lettere inedite ecc., cit. (cfr. nota
1), p. 127. Riferimenti a La lepre anche in GINO PISANO', Il sodalizio
Betocchi-Comi, "Sudpuglia", XVII, dicembre 1991, 4, p. 104.
49) la collaborazione di Caproni alla "Gazzetta di Parma"
non è segnalata nell'utile saggio di A. DE BIASE, L'opera giornalistica
ecc. cit. Colgo l'occasione per dare qui di seguito gli scritti di
Caproni, finora non censiti, apparsi ne Il Raccoglitore, pagina quindicinale
de la Gazzetta di Parma": n. 26, 30 ottobre 1952, Brindisi sulla
terrazza [racconto]; n. 30, 24 dicembre 1952, Una paura misera [racconto];
n. 36, 19 marzo 1953, Il largo" di Veracini [racconto]; n. 40,
14 maggio 1953, Gli insetti [racconto]; n. 48, 3 settembre 1953, La
forza dell'automobile [racconto]; n. 51, 15 ottobre 1953, Cinquanta
cavallini nuovi [racconto]; n. 69, 24 giugno 1954, Il cappuccino [racconto];
n. 86, 17 febbraio 1955, Rammarico per un'occasione perduto [in morte
di Mario Colombi Guidotti]; n. 104, 27 ottobre 1955, La tromba del
silenzio [racconto]; n. 120, 7 giugno 1956, Le case in dialetto ligure
[su Genova]; n. 122, 5 luglio 1956, Due canzoncine per mia madre [All'antica
e La ricamatrice]; n. 156, 21 novembre 1957, Una poesia morale [scritto
dotato 1952]; n. 182, 4 dicembre 1958, quattro traduzioni da Henri
Thomas: Quella strada, Victoria, Ieri e domani, La notte sopraggiunta
delle quali la terza e la quarta furono pubblicate anche sul "Critone"
(Cfr. Appendice); n. 193, 7 maggio 1959, Due appunti: Piuma e Aprile
24 [poesie]. Si segnalano, infine, due interventi critici: di O. MACRI'
in ordine a Stanze della funicolare (n. 24 del 2 ottobre 1952) e di
G. DE ROBERTIS a Il passaggio di Enea (n. 131 del 22 novembre 1956).
50) Il riferimento è relativo a G. CAPRONI, Il paesaggio d'Enea,
Firenze, Vallecchi, 1956.
51) E' Preghiera, citata in nota 47.
52) Cfr. nota 48.
53) Non compare su alcun numero del "Critone".
54) Caproni si recò a Lecce nel 1962. Cfr. il mio Lettere inedite
ecc., cit. nota 1, p. 125.
55) Cfr. CR, anno li, n. 5-6 maggio-giugno 1957, p. 7. Le traduzioni
da H. Thomas vengono qui riportate in Appendice. Caproni non indicò
l'edizione cui fece riferimento circa il testo da lui tradotto.
56) Cfr. "L'Albero", gennaio-dicembre 1956, n. 26-29, pp.
23-27.
57) Cfr. VITTORIO PAGANO, Antologia dei poeti maledetti, Versioni
metriche di Vittorio Pagano, Edizioni dell'"Albero", Lucugnano,
1957.
58) "Fiera letteraria"
59) Cfr. "La Fiera Letteraria" del 9 e del 16 febbraio 1958.
60) Cfr. GIORGIO CAPRONI, Poesie di Lamberto Pignotti e traduzioni
Vittorio Pagano, cit.
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