§ Accordi letterari

Lettere inedite di G. Caproni a V. Pagano




Gino Pisaṇ



a) Ritornando su Caproni: altri appunti.
Del contributo reso da Giorgio Caproni ai periodici salentini del secondo dopoguerra ("Libera Voce", "L'Albero", "L'Esperienza poetica", "Il Critone") nonché dei suoi rapporti amicali con Girolamo Comi, si è detto sulle pagine di questa stessa rivista nel mio Lettere inedite di G. Caproni a G. Comi (1). In quella sede si censivano anche tre traduzioni, da Henri Thomas (La notte sopraggiunta - Ieri e domani - Il villaggio, l'albero), che il poeta livornese aveva pubblicato sulla rivista di Pagano e Santoro, ma non se ne riportava il testo per ragioni di spazio tipografico. Ora che di Caproni si va raccogliendo la tentacolare e sparsa produzione (2) , mi è sembrato giovevole offrirne il testo integrale (vedi Appendice) preceduto da un piccolo corpus di lettere inedite che le contestualizzano, in quanto indici paratestuali, e da alcune riflessioni sulla sincrona attività poetica del loro autore. Per un approccio al Caproni-traduttore sarà utile un richiamo a quanto ha scritto recentemente Alessandra De Biase: movendo, infatti, dall'assunto caproniano della "quasi assoluta" (3) impossibilità di tradurre la poesia, ella dimostra non sussistere aporia fra l'enunciato in parola e la conversione del poeta ad una intensa attività versoria (ebbe inizio nel 1951 con la traduzione del proustiano Tempo ritrovato)(4), dal momento che Caproni "sceglie non la fedeltà al testo, che resta sempre intraducibile, bensì alla poesia" (5), nella convinzione che il poeta soccorra il traduttore, "con le sue invenzioni e infedeltà", consentendogli di "arrivare dove la semplice trasposizione linguistica non arriverebbe" (6).
Ciò che accomuna Caproni e Pagano è, soprattutto, questo carattere, questa concezione dei tradurre le opere di autori stranieri, comune, per molti riguardi, a non pochi esponenti della scuola ermetica alla quale il Salentino rimase sempre fedele, epigono, quale fu, dell'ermetismo esistenziale di derivazione gattiana. Ma questa loro opzione era radicata anche in altre esigenze: trovare nuova linfa per la propria parola poetica al di fuori del concluso orto nazionale e sprovincializzare la cultura italiana indicandole, sull'esempio ormai remoto ma sempre attuale della Staël, la grande e proteica esperienza europea, non per penalizzare la tradizione classica italiana (Due e Trecento) ma, piuttosto, per rinverdirla ed esaltarla mercé la convergenza di antico e nuovo. Le forme duecentesche rivivono, infatti, nelle scelte metriche di Pagano e di Caproni, ossia tanto nell'ermetismo maudit del primo, quanto nel neostilnovismo popolare del secondo che nel Seme del piangere (Versi livornesi), Premio Viareggio, 1959, raggiunge il momento di massima Spannung.
Qui la poesia di Caproni sorprende per i movimenti musicali e leggeri che occultano, sotto la scorza di un melos reso apparentemente elementare da quell'aura di popolare e di fiabesco che lo connota, un accurato lavoro retorico. E' il secondo (o, se si vuole, il terzo) tempo della poesia di Caproni, sicché "colui che ha composto le grandi stanze di endecasillabi (7) non ha nulla a che fare con chi ha scritto le aguzze canzonette popolareggianti di settenarii e novenarii" (8) del Seme. Al Caproni erratico dei "detriti", delle albe e del transito, succede il Caproni del recupero memoriale e degli ipocoristici ("Annina", "camicetta", "serpentino", "catenina", "scialletto", "personcina", "canzonetta", "carrette", "collanine", "sciarpetta", "tavolino", "fagottino", "borsetta", "ragazzetti", "finestrino", "cornettino", "figurina", "borsellino") che ne contrappuntano il cavalcantiano liederimo in quella che mi sembra possa definirsi la chanson di Annina Picchi (la leggenda per Biancamaria Frabotta (9) ) in grazia delle movenze rapsodiche, eppure unitarie, nelle quali questo aedo della puella-mater (Oreste Macrì) articola il suo canto. Poesia di evocazione e di memoria che fa di Annina una essenza agile e leggera, dal figlio idoleggiata (ora nubile, ora sposa, ora puro spirito nell'ora della morte), fra i fragranti aromi di lavanda, snella e fugace in bicicletta fra le usate vie di Livorno ('dimora vitale') "accordellata istretta" ("la cintura stretta", L'uscita mattutina, "stringendosi nello scialletto", Né ombra né sospetto, "Fuggì nel vento, stretta / al petto la sciarpetta", Urlo) come la cavalcantiana Mandetta di Tolosa, mai così viva, forse, come ora che è morta, nella trepidazione dell'amore filiale o nell'equilibrio smorzato delle voci, delle strade, dei rumori di una Livorno popolare e liberty (la "Tazza d'oro", i "caldi specchi"), l'empita" dal vento (Parola chiave, cui si affida, al pari dell'altra, "ago", e degli ipocoristici, la funzione di iconizzare la leggerezza impalpabile dell'esile animico) che reca l'urlo delle sirene fra l'acciottolio dei brindisi nuziali, fra i cori degli epitalami: "Tinnivano, leggeri, / i brindisi cristallini. / Cantavano, serafini, / gli angeli, nei bicchieri" (10), fra i "confetti a manciate" (Eppure...
Poi il rapimento improvviso dalle romite stanze della vita (Epilogo, Il carro di vetro, Il seme del piangere, eponima della raccolta) e Livorno annera ("nera d'acqua", "nel buio di un portone" (11) ) , si vuota ("odore vuoto del mare /,sui Fossi, e il suo sciacquare") (12), mentre il mistero della morte di Annina si tinge di tinte pascoliane (13), più che crepuscolari, per l'evocazione di un caro fantasma pietoso del dolore filiale (si confronti, con le dovute eccezioni, Ad portam inferi con la Tessitrice del Pascoli), per quel carattere sommesso, colloquiale del tono nonché del ritmo franto eppur cadenzato dall'alternanza di prevalenti endecasillabi, settenarii e singhiozzanti senari, per certe corrispondenze testuali (Annina "seduta in quella stazione /la mano sul tavolino [ ... ] così sola / e debole, e senza l'appoggio d'una parola" ricorda la pascoliana tessitrice seduta "stretta su la panchetta / E non il suono d'una parola"), per il tessuto prosodico trapunto di enjambements, di rade rime e assonanze, ora sparse, ora baciate (un solo caso: intanto-pianto), ora alternate (14), che espungono il lacrimoso e il patetico: "Ma invano tenta / di ricordare: non sa / (si osservi il controrejet che isola e potenzia quel mistero: "non sa" come il successivo "non rammenta) nemmeno lei, non rammenta se è morto o se ancora è vivo e si confonde (la testa / le gira vuota) e intanto, / mentre le cresce il pianto / in petto (15), cerca confusa nella borsetta / la matita, scordata / (s'accorge con una stretta / al cuore) con le chiavi di casa". E' l'idillio della morte alle soglie dell'Erebo (Ad portam): Annina è fra i Mani ma Caronte non ha ancora riscosso il tributo. E' l'epos tutto domestico, umile, quotidiano, degli addii che precedono l'ultimo viaggio: "Attilio caro, ho lasciato / il caffè sul gas e il burro / nella credenza: compra / solo un po' di spaghetti, / e vedi di non lavorare / troppo (non ti stancare / come al solito) e fuma un poco meno, senza / ti prego, approfittare ancora della mia partenza" ... 1 "Nemmeno sa distinguere bene, / ormai, tra marito e figliolo. / Vorrebbe piangere, cerca / sul marmo il tovagliolo / già tolto" (16). Si osservino la rarità delle rime, l'ornatus ancora più scarno se non del tutto espunto, la diegesi prosastica, discorsiva, disadorna.
Ad portam inferi (calco biblico, cfr. nota 14) è l'elegia di Annina e la finzione scenica che vi ha vita la pareggia alla "regina delle elegie": l'undicesima del quarto libro di Properzio che contiene l'addio e i consigli di Cornelia, in viaggio per l'Ade, al marito e ai figli superstiti (Desine, Paule, meum lacrimis urgere sepulcrum). Ma lì un fremito di allori prosapici (Cornelia è eughenès) trascorre le leggi del sangue (Testor maiorum cineres [ ... ] a sanguine ductas), qui la coscienza di un ruolo subalterno nel consueto spazio domestico (" [ ... ] guarda fra tanto fumo / e tante bucce d'arancio [ ... ] "). Al "Tu Lepide, et tu, Paule" fa eco in Caproni "Caro son qui: ti scrivo / per dirti... / e intanto [ ... ] le cresce il pianto". Annina ci appare ancor più tenera e vera rispetto al suo archetipo. Non so se Caproni abbia mai letto Properzio, se si tratti di criptomemoria. Poco importa, anzi non gioverebbe saperlo. Resta la certezza che questa moderna elegia non ammette, nel suo genere, altri confronti, pur nella diversità dei tempi e dei versi, se non col canto del poeta latino ed ancor più con le scene dei rilievi funerari attici del IV sec. (si veda %a stele del saluto" o "La famiglia di Proclide Egialius").
Altri addii Annina aveva detto in giovinezza: "addio a Livorno. / Addio al Magazzino Cigni (17), / ai Trotta, ai Pancaldi; addio a a Tazza d'oro e ai caldi specchi, e addio [ ... ] ai fitti applausi sgorgati / dal cuore, all'Avvalorati. / Addio al valzer d'erba, / notturni, e al Calambrone; / addio dal Voltone / alle barcate matte / di ragazze, al tocco / vocianti" (18).
Ma il Seme del piangere è anche il canto del rimorso lustrale, non languoroso né topico, antidannunziano (penso a Consolazione del Poema paradisiaco), che invoca le Eumenidi nella coscienza di un impossibile risarcimento e di un irremeabile cammino:

Almeno le venisse in mente
che quel bambino è sparito!
E' cresciuto, ha tradito,
fugge ora rincorso
pel mondo dall'errore
e dal peccato, e morso
dal cane del suo rimorso
inutile
(19), solo
è rimasto a nutrire,
smilzo come un usignolo,
la sua magra famiglia
(il maschio, Rina, la figlia)
con colpe da non finire
(20).

Ancora al pascolismo di Caproni, che in Cronistoria aveva tenuto bordone alla "canzonetta gattiana" (21) per poi preferire l'ottonario montaliano, rimandano sia la 'qualità' sacrale dei luoghi affettivi, dei particolari più umili risorti nel rimpianto della madre, delle figure borghesi che ravvivano il realistico milieu del quartiere (Genì, Guglielmina, Chitì, "Ada con lo zio Arduino / e con lo zio Alceste, il Ciucci; / c'era Decio, il Guarducci, / Mentana con l'Angiolino / (quello della Fiaschetteria / Toscana, al Cavalcavia), / e c'erano Pilade e Italia, / Fedora con la zia Zicarola") (22), sia la regressione alla dimensione prenatale che consente l'incorporazione sepolcrale della giovinezza materna, sia, soprattutto, il nostos alla fanciullezza ("ùche lacrime nel bambino" che cerca "La mamma-più-bella-del mondo" girando per Livorno "tutto l'intero giorno") (23), tempo edipico in cui la madre è anche "fidanzata" ("Dille chi ti ha mandato: suo figlio, il suo fidanzato") (24) ed archetipo della donna e della bellezza. Con questa materia sentimentale concomita e s'allinea una rima elementare, ingenua, giullaresca: "Per lei (Annina) torni in onore / la rima in cuore e amore" (Iscrizione). Non più le ampie volute che timbrano i versi di Cronistoria, dei Sonetti, delle Stanze, ma un canto gioioso e argentino:

Per lei voglio rime chiare,
usuali, in -are.
Rime magari vietate
(25),
ma aperte: ventilate
(26).
Rime coi suoni fini
(di mare) dei suoi orecchini.
O che abbiano, coralline,
le tinte delle sue collanine.
Rime che a distanza
(Annina era così schietta)
conservino l'eleganza
povera, ma altrettanto netta.
Rime che non siano labili,
anche se orecchiabili.
Rime non crepuscolari,
ma verdi, elementari
(27).

Una rima che non aduggi, che bandisca ogni turgore, ogni condita oratio legata alla finzione poetica. Da qui l'invocazione alla mano:

Mia mano fatti piuma
fatti vela; e leggera
muovendoti sulla tastiera,
sii cauta. E bada, prima
di fermare la rima,
che stai scrivendo d'una
che fu viva e fu vera.
[ ………………. ]
Sii arguta e attenta: pia.
Sii magra e sii poesia
se vuoi essere vita.
[ .............................. ]
Sii fine popolare
come fu lei - sii ardita
e trepida, tutta storia
gentile, senza ambizione
(28).

Nell'invocazione alla mano, il ritratto transfrastico della madre (fine e popolare, leggera come una vela, cauta, arguta, pia, ardita e trepida, gentile) ma anche il significato salvifico della poesia. Sempre ondulato e franto il ritmo, non solo dagli enjambements ma anche dalla punteggiatura, fittissima, ossessiva in tutta la raccolta.
Come opportunamente osserva Biancamaria Frabotta, "la canzonetta èl'abito più conforme alla [ ... ] figura magra e schietta" (29) di Annina. Quanto aggrondato, specioso, inautentico sarebbe apparso l'alcaico endecasillabo se Caproni gli avesse commesso la trenodia della madre! Quanto inadatto a quei nomi, a quelle voci, a quella figura muliebre che compare e scompare, labile, aerea, angelica, fra la selva degli angiporti livornesi, vagheggiata nella sua giovinezza di ricamatrice gentile, "donna d'ingegno fino e di fantasia, sarta, suonatrice di chitarra" (30) che amava "frequentare i circoli e ballare" (31) e che di Caproni affinò "il gusto e la passione dell'arte" fin dalla sua "prima infanzia"! Quale mimesi figurale avrebbe avuto corpo in un canto di tipo illustre o tragico? E' privilegio dei veri poeti ciò che Auerbach chiama realismus, risemantizzando una voce, di significato tanto specifico, nella dialettica di un rapporto fra figura poetica, azione e significante, per cui "con un solo atto la fantasia dei poeta crea la figura e la sua sorte" (32).
Mimesi non come riproduzione a ricalco di una realtà fenomenica, sibbene come Vorstellung di fantasmi poetici e grumo di toni in sé unitari e coerenti. In quest'alveo è il disegno prosodico del Seme che a Ugo Dotti apparve come la canzone dell'esilio (33).
Ma quel tessuto poetico si configura anche come la chanson di Annina modulata nei tre tempi di una rapsodia: all'ouverture cavalcantiana ("Perch'io ...") segue una duplice partitura melica cui corrispondono due registri: quello epidittico, ecfrastico, in cui la donna domina la scena e vi si muove "snelletta e leggera" come il dantesco "vasello" purgatoriale (L'uscita mattutina, Né ombra né sospetto, Quando passava, Sulla strada di Lucca, La gente se l'additava La ricamatrice, La stanza, Barbaglio, Scandalo, Urlo, Ad portam inferi, Eppure..., Coda, Epilogo, Il carro di vetro) e quello più propriamente epilinguistico, monodico, connesso alla corona degli entremeses, cantucci lirici che il poeta si ritaglia per interiorizzare ciò che il canto ha oggettivato e si sdoppia nell'Anima, nella penna, nella pagina e risogna la perduta madre con cuore di fanciullo ("il figlio-fidanzato"). Agli intermezzi appartengono Preghiera ("Anima mia ti prego"), Battendo a macchina ("Mia mano fatti piuma"), Per lei ("Per lei voglio rime chiare"), Piuma ("Mia pagina leggera / Piuma di prirnavera"), Il seme del piangere e, infine, Ultima preghiera ("Anima mia, fa' in fretta") che ha funzione di congedo e chiama in causa, più di altre liriche, il modello cavalcantiano dell'Anima, dell'esilio, dell'addio.
Ma il cavalcantismo di Caproni mi pare originato da un bisogno di straniamento, da un originalissimo ludo figurale ("come vorrei che intorno / andassi tu canzonetta: / che sembri scritta per gioco, / e lo sei piangendo: e con fuoco", La gente se l'additava) più che indotto da un'austera e cogente fedeltà a uno schema letterario. Le ballatette e i congedi vivono del colloquio, tutto intimo e fidente, del poeta col proprio canto, dell'abbandono, segreto e solitario con cui Caproni si tende verso la sua poesia alla quale affida, con procedimento transfrastico, la voce mesta e penita dell'anima, il "seme dei piangere", appunto, che germoglia dalla "vergogna dell'errore" (cfr. Dante, Pg. XXXI, vv. 43-46: "Tuttavia, perché mo vergogna porte / del tuo errore, e perché altra volta, udendo le sirene, sia più forte, pon giù il seme del piangere e ascolta"). A differenza della donna amata dal Cavalcanti, Annina è morta ("Armina è nella tomba / Annina ormai è un'ombra" (34), si noti l'anafora) come la pascoliana tessitrice o come Laura del Petrarca e Silvia del Leopardi: ma ella non è la donna che il destino ha posto (per poi toglierla) sul sentiero della vita del poeta, è, invece, la madre ed assume "il volto che è stata capace di darle la leggenda" (35) che di lei il poeta aveva udito dai "discorsi in casa e guardando le fotografie"^ sicché far "rivivere" sua "madre come ragazza" gli imponeva di trasvalutare e sollevare quella leggenda in chanson, per risarcirla "contro le molte sofferenze e contro la morte" (37). E l'input ha dei tratti crepuscolari: come la gozzaniana Carlotta, Annina "è fissata nell'albo" (38), icona ancestrale evocata ed amata nel canto ("Ho invece amato moltissimo - e amo ancora moltissimo - l'Annina che non s'era ancora maritata e che io ho conosciuto [ ... ] soltanto nella leggenda") (39) come "ragazza vezzeggiata e vagheggiata dal poeta" (40).
Protagonisti del Seme due figure femminili dunque: Annina e l'Anima (con le sue ancelle, la "penna" e la "pagina"). Deuteragonista il poeta, quasi che la sua colpa non lo abiliti al colloquio diretto con la madre. Solo attraverso l'escamotage del proprio doppio (l'Anima), egli può attingere il perdono e la catarsi.
Ma questo sdoppiamento pone anche al riparo dal topico e dalla retorica il lamento filiale, fungendo da filtro a una materia "di fuoco" e da contrappunto alle "dissonanze" che nel Seme rilevò Giuseppe De Robertis (41). Produce, in più, quell'effetto di sbalzo da cui emerge in tutta la sua preziosa, aerea fragilità l'esile animico (l'anima del poeta parla ad Annina ormai anima) speculare all'illibato candore del canto. E il poeta affida, oltreché agli ipocoristici, anche al rilievo dei rejets e dei controrejets la funzione di semantizzare in campi associativi quella leggerezza muliebre l'umile, pretiosa e casta". Dei primi si osservino: bianca, timida ("Perch'io"); timida, d'oro ("Preghiera") -giovane, d'oro, di cipria, ilare, stretta ("L'uscita mattutina"); dritta ("Né ombra né sospetto"); d'aria ("Quando passava"); e freschi, volava, nel vento ("Sulla strada di Lucca"); in bianco, timido, magra ("La gente se l'additava"); e agile, bianco, lino, trasparente, candido ("La ricamatrice"); il lino, e magri, l'ago ("La stanza"). acuta ("Barbaglio"); dei raggi ("Scandalo"); gli angeli ("Urlo"); e magri, e vivo, di camicetta, di corallo, specchi, più tenero ("Eppure"); timido ("Epilogo"); l'aria ("Piume"); più lieve ("Ultima preghiera").- Dei secondi: vela, netta, fina, scia, sottile, in trina, leggera, schietta, l'ago, vago, fresco, spuma, vivo, stretta, il vento, leggero, fina. Fra le parolechiave complementari al campo associativo testé enucleato: anima, piuma, penna, tutte afferenti all'idea di un angelico volo, quello di Annina, pura essenza, proustiana creatura della memoria e del sogno, sortita nella mitopoiesi dalle quattro radici macriane della poesia.

b) Caproni e Pagano.
Introducendo questi appunti, dicevo delle analogie che accomunano Caproni e Pagano. Ad entrambi si addice quanto Giorgio Barberi Squarotti riconosce al poeta livornese, cioè l'attuazione di "un dia~ gramma comune alla poesia novecentesca, [ ... ] nata dopo le esperienze ungarettiane e montaliane, dopo il 1930" (42). Un diagramma che connota l'una ricerca di ordine nella regolarità metrica", nel "tentativo di ricostruire la regola dopo la distruzione tecnica di Ungaretti e quella metafisica di Montale; un tentativo che si attua nel recuperato monolinguismo di ascendenza petrarchesca di un Parronchi, nello schema musicale di Gatto, nell'endecasillabo classicamente atteggiato di Quasimodo" (43) e che nel primo Caproni origina quel contrasto che, mi sembra, timbri gran parte della produzione di Pagano per quei suoi virtuosismi sinestetici, per le sue vertigini analogiche sicché, "nonostante l'imposizione della norma metrica, la disposizione problematica resta evidente, e il tormento tecnico non fa che mettere in luce un tormento morale e storico".
Sintomatico, a questo proposito, il sonetto che Pagano dedicò a Caproni ("Perché, Giorgio, di scavi e scavi, sotto") in apertura di Calligrafia astronautica (44) (1958) che precede di un anno la pubblicazione del Seme del piangere. Il sonetto può considerarsi come il vero e proprio manifesto poetico del Salentino per l'enunciazione del ruolo connesso alla poesia ("Scavare, gioia di condanna, è questo /che impone la parola modulata, / l'edificio d'abisso ov'è raccolto / tutto il piangere, il ridere, il funesto / grido che raggelando ogni giornata / s'esilara in un mondo capovolto") e del tormento storico e morale cui accennava Squarotti: " [ ... ] A un filo s'è ridotto / l'àndito perseguibile, furente / se n'aggroviglia il piede che ci mente / provvidi scali -e il ponte umano è rotto". Non alle ariette del Seme, ma ai Sonetti dell'anniversario di Caproni (Cronistoria, 1938-1942) rimandano i caratteri ermetici, i toni oracolari di Calligrafia. In questa fase della poesia di Pagano si può cogliere lo stesso contrasto, fra metrica e gorgo sentimentale, che Squarotti coglieva nei Sonetti di Caproni, lo stesso "discorso franto, involuto, oscuro non per le difficoltà di allusione [ ... ] ma per involuzione ritmica, per l'ostilità della tematica a chiudersi nel giro del verso regolare delle rime" (45).
Leggendo sinotticamente I Sonetti e Caffigrafia ci si imbatte non solo nelle stesse peculiarità metrico-formali sopra accennate ma anche in tematiche affini e contigue: in Pagano, terra, mare, madre, morte (Epica), nulla, vanità, distopia (Ballata del Narciso), non-senso e, ancora, il nulla (Allée), il "cerchio delle mura" (Eclissi, si veda in Caproni "La città dei tuoi anni se fu rossa / di mura), l'"assonnato tufo", la "pietra disadorna [ ... ] alta e solare", l'occhio che "s'accieca", la piazza e le colonne (Allée), gli "ossari", il "liquido sfacelo" rievocano del primo Caproni "i Fori abbacinati", la "città incenerita nei clamori / bianchi di luglio", la "piazza tersa di vento e di cavalli", i "ponti bianchi d'ossa / lapidate al sole", i "bianchi archi", i "giorni di luce [ ... ]" in "tenebra d'affanni e ardori". Così alla esulcerata, "ardente lettura" di segni incisi da una "precaria / chiusa grafia, che nessuna figura / allenterà, se non morte plenaria", al "lutto" in cui rovina "l'umano dolore", alla funebre solarità della sabbia marina, alle "trombe infantili", alle "tube sottili" che in Caproni "penetrano nel sonno" fanno eco, in Pagano, "il vento di Geenna", "il rovello del nulla", il "canto della prefica", l'ardua "vacuità sul limitare", la voce che "s'arroca". E' tutto un convergere di campi semantici che di Pagano denota la fedeltà, forse fin troppo osservata, al modello caproniano e gattiano.
Nei Privilegi del povero, Pagano sarà alius et idem, nel senso che sottoporrà, non solo al dominio della metrica, ma anche a una struttura poematica in forma di tetralogia, quei temi che in Calligrafia appaiono enunciati sotto forma di preludio, primo fra tutti il tema della Morte il cui sentimento occupò, con dionisiaca ossessione, la sua mente e il suo cuore. E allora il canto si libererà in una infinita Kermesse di temi (si ritornerà sui Privilegi in altra sede) attraverso una mitopoiesi che è un crescendo sempre più immaginifico, prodigioso, di toni, di suoni, di segni, quasi che l'antica radice storica della Lecce barocca (sua "dimora vitale") si fosse transustanziata antropologicamente e vulcanizzata per metamorfosi sacrale dal "materiale" nell'immaginario, facendosi verità biografica, esistenziale, poetica. Conforta questa impressione -di virtuosismo neobarocco, di letteratissimo ludo -che si fa strada dopo la lettura della prima opera organica di Pagano (Calligrafia), quanto Caproni scriveva sulla "Fiera Letteraria" recensendo la plaquette in parola: " [ ... ] E di fronte a questa Calligrafia astronautica, che evidentemente raccoglie i capricci (nel senso più profondamente musicale) del nostro giovane amico, ricco di amore e di fede devota senza tuttavia riuscir bigotto di questa o di quell'altra infatuazione, ci limitiamo a dire che, dove egli non si diverte a tradurre se stesso (cioè a costringersi o stringersi tutto - e così indichiamo il peccato insieme con la virtù - nel proprio gioco metrico: basti leggere "Antifona" e "Rondò") sa raggiungere quella profonda risonanza di eloquio [ ... ] che proprio e soltanto grazie a una sapiente e insieme istintiva orchestrazione della parola e del ritmo riesce già a qualcosa di ben più concreto d'una pura e semplice promessa" (46). E qui il pensiero corre alla fortuna (finora parca) del Salentino il cui pregio, la facilità ovidiana (quod temptabam scribere versus erat, Tristia IV, 10, 25) di fare versi coincideva, forse, con un limite fisiologico sicché la mole della sua produzione forse poteva essere sottratta alla sensazione di elefantiasi, che il critico può avvertire, in grazia di un processo selettivo che la antologizzasse e, insieme, la liberasse dal preziosismo di una editoria ("I quaderni del Critone") elegantissima come una confettiera di Sèvres, ma di piccolo cabotaggio. Né valsero a Pagano, fermo sulle sue scelte, le relazioni con la cultura italiana di cui Caproni, Betocchi, Gatto, Traverso, Macri, lo stesso Montale, per citarne solo alcuni, erano (e sono) i maggiori esponenti. In questa luce di rapporti si iscrivono le lettere di Caproni al Salentino (ringrazio la famiglia Caproni e Marcella Romano Pagano per avermi dato facoltà di pubblicarle) dalle quali emergono inediti particolari biografici, valutazioni critiche, istanze amicali utili a connotare il contesto entro il quale si colloca il contributo del poeta livornese-genovese-romano all'attività letteraria di una piccola "regione": il Salento.

Le lettere

[foglio manoscritto] Roma, 3 settembre [1956]

Caro Pagano
ti ricordo sì, e con grande affetto e con grande stima. Anche se non conosco ancora il tuo volto.
Per il Critone, purtroppo, non ho nulla di eccezionale da mandarti (il libro mandato a Vallecchi mi ha vuotato i cassetti), ma vedi se ti piace questa canzoncina (47) (piaciuta molto a De Robertis) o questa mia prosetta sul settembre, anzi sulla lepre (48). E senza complimenti, giacché io voglio bene al cestino quando lo merito.
Per onestà ti avverto che la prosetta è già apparsa tempo fa nel Raccoglitore della Gazzetta di Parma (49) e che La lepre fu data alla RAI nel '53. Ma vedo che anche Macri pubblica sul Critone cose già apparse sul Raccoglitore.
Ti ripeto non far complimenti con me. Se vuoi cose inedite, devi intanto aver la pazienza di aspettare. Questa te la mando come prova di buona volontà e di affetto.
Salutami caramente Comi, col quale ho trascorso quest'estate una bellissima serata (o è ancora a Roma?).
A te affettuosi saluti e ringraziamenti
tuo Giorgio Caproni
P.S. So che sei un traduttore insuperabile. Ma mai ho ricevuto una delle tue pubblicazioni.


[foglio manoscritto] Roma 15/9/56

Carissimo Pagano,
grazie per la tua lunga e bella lettera, che rinsalda la nostra invisibile amicizia. E grazie per il promesso compensuccio, sempre gradito a un maestro elementare (mi fa piacere sentire che anche tu sei della famiglia). E ancora grazie per le notizie sul Salento! E ancora e ancora grazie per il promesso articolo, di cui sarò fiero. Ma vedi come ha agito Vallecchi (50): ha spedito i libri senza dedica e senza un volantino, senza mandare a me le copie che mi aveva promesso. Proprio le copie che mi ripromettevo di spedire agli amici più cari, come Comi. Se lo vedi, diglielo: io ho con me una unica copia!
Nel libro vi sono parechi errori di stampa: i più gravi sono questi:
pag. 139 XX linea
anch'essa - anche il tuo - leggere suo - fu certezza
pag. 186 V linea
e - leggi è - dalle cose tue che invano imparo.
Ma ora come faccio a mandarti la copia che non hai? Se V.[allecchi] sarà buono (ma perché non la chiedi per recensione a Gozzini?) te la spedirò, Sì, Bertolucci mi ha detto che siamo coinquilini. E io aspetto qualche tua antologia, appena uscita. E ne scriverò con gioia.
Saluta Comi e grazie ancora di tutto
tuo Caproni


Roma, 10 nov. 1956

Carissimo Pagano,
rispondo con un mese di ritardo alla tua cara dell'11 ottobre. Non mi scuso: mi vergogno. Soprattutto per non essermi rallegrato in tempo con te per la nascita del figlio.
Non so rendermi conto come sia passato tanto tempo. Forse dipende dalle mie preoccupazioni, e dalla scuolaccia, che mi succhia tutte le poche energie che ho.
Oggi leggo sul Messaggero il felice esito del Salento. Ho ricevuto il Critone con la mia poesiola (51) (piaciutissima a tutti, e ne sono contento per voi) e l'assegno (piaciuto anche a me). Ma non ho ancora avuto il numero ultimo, con ,la lepre" (52).
Quanto alle mie traduzioni da Baudelaire, dovrei copiarle (ne ho una copia unica) e lo farò appena possibile. Intanto mandami le tue: mi farai piacere. lo ti manderò, magari, la più lunga: Le voyage (53).
Per la conferenza, Dio sa se verrei volentieri (54). Ma non sono un conferenziere (dovrei leggermi), e per di più, ora, non saprei di che parlare. Ci penserò, e ti saprò dire qualcosa di preciso dopo le feste: lo farei volentieri dopo le feste o durante le vacanze natalizie. (Quanto dovrebbe durare la conferenza?)
Salutami, quando lo vedi, il carissimo Comi.
Auguri per il tuo nuovo nato, e fatti vivo qualche volta a Roma. Tuo aff/mo
Giorgio Caproni


Roma, 12/5/57

Carissimo Pagano,
no, non mi sono affatto scordato del Critone. E per dartene una prova, ti mando queste povere traduzioni di un poeta a me caro, Henri Thomas (55), perché tu scelga pubblicandone anche una sola (in questo caso l'ultima).
Purtroppo, sul momento, non ho cose mie.
Ti avrei mandato, per prova di affetto, Il viaggio di Baudelaire (nel centenario dei Fiori), ma poi ho pensato che per il Critone è troppo lungo. (A chi potrei mandarlo per levarmelo dal cassetto?).
Mi spiace che tu non abbia mandato nulla alla Fieraccia. Ne avrebbe guadagnato. Se tu non fossi già notissimo (qui ti conoscono tutti) ti avrei presentato io, in testimonianza di stima e di affetto.
Ma le tue poesie non le devi abbandonare così. Le vedrei tanto volentieri, magari dattiloscritte.
Insisti tanto, che finirai per smuovere la mia pigrizia e per farmi venir davvero a Lecce. Ma è che io non so - assolutamente - far conferenze e parlare in pubblico. I pochi esperimenti mi sono andati tutti male. Sono timidissimo, mi si asciuga la lingua e non riesco che a tremare (per questo ho smesso di suonare il violino: mi tremava la mano, e miagolavo).
Scrivimi ancora e muoviti con le tue poesie. So che sono belle.
Saluta caramente Comi e gli altri amici, e a te (e alla tua famiglia) un abbraccio dal tuo aff/mo
Ho perduto il tuo indirizzo di casa.
Giorgio


Roma, 9 agosto 1957

Carissimo Pagano,
scusa il ritardo: sono stato fuori, in Valtrebbia, a cercare un poco di fresco. Breve vacanza, ahimé. E grazie per le lodi che mi fai come traduttore. Ma che dovrei dire io di te, del tuo Cimitero marino (56) ? Credo che più in là non si possa andare di dove sei giunto tu. lo mi sarei rotto le ossa o avrei perduto tutti i capelli. E' un lavoro, il tuo, che meriterebbe un lungo discorso, che magari faremo a voce quando verrai a trovarmi.
Mandami senz'altro per la Fieraccia le due poesie tue. Saranno felici di pubblicarle. Ma perché vuoi che ti presenti io? Hai proprio bisogno di presentazioni? Comunque, non te lo dico davvero per ritirarmi, tutt'altro! Ma se vuoi che ti presenti, non mandarmi soltanto quelle due poesie, e forniscimi di qualche brevissimo dato anagrafico.
Grazie per il compensino, che ho ricevuto e che mi ha fatto molto piacere.
Se vieni, portami a far vedere il tuo Baudelaire (57). lo ti farò vedere il mio.
Buona estate anche a te, e un affettuoso abbraccio
Giorgio Caproni


Roma, 16/1/58

Carissimo Pagano,
sono in ritardo nel comunicarti che gli amici della F.L. (58), coi quali ho parlato, saranno ben felici di pubblicare le tue poesie.
Purtroppo io non sono in grado di garantirti, però, dagli errori tipografici.
Manda dunque (a me o a loro: in questo caso avvertendomi), e scusami se alla tua lettera risponderò con un poco più di calma. Oggi sono "mal preso", come dicono a Genova: devo finire un articolaccio che non mi viene.
Ti abbraccia il tuo aff/mo
Giorgio Caproni


[foglio manoscritto] Roma, 30/1/58

Carissimo Pagano
le tue poesie sono state definite stupende e sono già composte. Soltanto in questo momento sono riuscito a mettermi in contatto con la redazione della Fiera, ed ero sulle spine dopo la tua sfuriata, sacrosanta, s'intende. Nella mia lettera, però, volevo soltanto dirti di non poter garantire nulla circa gli errori di stampa. Ad altro non pensavo. 1 miei articoli, lo sai, ne sono pieni.
Angioletti non l'ho visto, quindi di nulla mi ha parlato.
Ti abbraccia il tuo
Giorgio
[P.S.] Mi hanno detto che le tue poesie andranno sul prossimo o sul successivo numero.


Roma, 11/2/58

Carissimo Vittorio,
stamani, aprendo la Fiera, ho visto le tue bellissime poesie (59): più belle ancora di quando le lessi dattiloscritte.
Qui ti unisco il pezzetto che mi hai chiesto, e presto spero di poterti mandare qualcosa di migliore: o una prosa sulla Sardegna o una su Genova. Ti prometto. Spero di vederti presto a Roma (ci pensi che non ci conosciamo ancora?). Saluta Comi se lo vedi, e a te un abbraccio dal tuo vecchio aff.mo
Giorgio


Roma, 14 luglio 1958

Carissimo Vittorio,
da quanto tempo dovevo rispondere a una tua cara (mesta) cartolina? Dico quella in cui accennavi alla tua anticamera presso Longanesi & C [ ... ].
Un editore (l'Amicucci) mi ha fatto una proposta: di dirigere, senza ch'egli ci metta il becco, una collana di poesia. Figurati se io sarei felice e fiero di cominciare con te. Ma tu meriti un grande editore, e quindi non c'è nemmeno da parlarne.
Quanto al disgusto per il mondo letterario, sai quanto io lo abbia sempre stimato. Non vale la pena di prendersela, credimi.
Il mio nuovo libretto presso Scheiwiller ritarda per colpa mia. Infatti non ho ancora finito di metterlo insieme, perché non ho tempo per riordinare e rivedere le mie cose, e soprattutto per aggiungere (ancora da scrivere) quelle che vorrei aggiungere.
Se verrai a Roma il mese entrante, può darsi che tu mi trovi ancora. Sì mi piacerebbe conoscerti. Ho conosciuto soltanto la tua voce per telefono: una voce così severa che mi mise in soggezione.
Rosario non mi ha telefonato e non mi ha detto nulla della sua visita a Lecce. Oppure può darsi che non mi abbia trovato in casa. Cerca dunque di farti vivo, e non crucciarti troppo per la stampa. L'essenziale è che tu scriva, come invece io non riesco più a scrivere. Faccio tutto a macchina, anche questa mia lettera, ahimé.
Un abbraccio fraterno dal tuo vecchio
Giorgio
Chi ha messo sulla busta "All'illustre Poeta Giorgio Caproni"?
Così vuoi ch'io ti chiami? Non facciamo più di questi scherzi. Di questa stagione non porto nemmeno la cravatta.


Roma, 19/12/58

Carissimo Vittorio,
ti lamenti del mio silenzio. Ma io ti scrissi da Vicenza, a proposito dei tuoi libretti, il 7 u.s.
Com'è possibile che tu non abbia ricevuto? Ti ho così poco dimenticato da averti menzionato perfino (perfino!) sulla F.L. (60), ultimo numero, facendo uno strappo alla mia promessa di non fare più recensioni (promessa a me stesso).
Ora son io ad aspettare tue notizie.
Intanto, i più affettuosi e sinceri auguri di buon Natale e di sereno anno nuovo. Anche a Comi, se lo vedi, ti prego.
Tuo aff/mo
Giorgio Caproni
Questa volta mando al Critone. Non vorrei che l'indirizzo che ho di casa tua fosse fasullo.

APPENDICE / Poesie di Henri Thomas tradotte da Giorgio Caproni


La notte sopraggiunta

La corda vibra prima che il giorno finisca,
una polvere circonda le pietre,
la corda trema e la polvere avanza
nelle ossa fra gli spazi vuoti,
così l'acqua buia invade le cave,
io non son più con l'erba e il vento,
ho deviato dalla curva infinita
che congiunge le notti, i giorni e le stagioni,
resta questo filo che vibra sordamente,
questa polvere che emanano le case,
un uomo seduto sotto gli orologi delle stazioni
la vede volitare fra il mondo e lui,
la corda vibra al passaggio dei rumori
come un insetto coperto di cenere,
ultima voce che parla senza speranza
quando s'è vuotata l'impalcatura nera,
chitarra d'osso sotto la mano d'un fantasma
che si confonde con la polvere oscura,
in luogo del corpo giunge un fuso di stelle,
ricostruisce un'altra creatura.


Ieri e domani

Passeremo il mare brumoso o turchino,
entreremo nel paese senza orologi,
un albero morto giace sulla spiaggia,
la sua ombra e io dobbiamo congiungerci.

Lasciamo gli orpelli della pazienza
e le opere utili soltanto alla morte,
le città sono cataste di feretri,
qui alte, semisfasciate più in là.

I fiori incollati dal vento alla roccia
quando la pioggia dalle lunghe gambe corre,
e quando il mare è un solo brontolìo
nel panico, alla fine delle belle giornate,

codesti fiori sotto la luna si rianimano,
l'onda strascica una rete d'oro, un faro
scintilla in fondo alla vecchia strada,
folle una mano ha disciolto i miei ormeggi.


Il villaggio, l'albero

Il villaggio e, invecchiato, l'albero, il camposanto
dove l'un dopo l'altro se ne vanno i parenti,
la casa e la sua piccola vita, il gesto stanco
di mia madre nell'orto, a lei docile ancora.

Povera madre mia, già in piedi anzi mattina,
io sento un mormorio di future stagioni,
tu al lamentio del gatto vaghi per la cucina,
pensi ch'io dorma, invece m'avvio nell'avvenire

verso un giugno di foglie e di luce rapita
nell'orto da cui ormai cancellato è il tuo sforzo,
- è lontano tuo figlio, s'è perso nella vita,
egli ha spesso ferito il tuo caro ricordo.

Tu che ingenua sognavi di sottrarmi al destino,
eccoli i giorni nuovi, l'orizzonte di morte...
Oh potessi tornare alle estati travolte
per udire il tuo passo sul far del mattino.


NOTE
1) Cfr. "Sudpuglia", XVII, marzo 1991, 1, pp. 121-131.
2) Si veda ALESSANDRA DE BIASE, L'opera giornalistica di Giorgio Caproni, in "La Rassegna della letteratura italiana", 93, VIII, Gennaio-agosto 1989, pp. 155-173. Tutte le poesie di Caproni sono raccolte, invece, nell'edizione garzantiana, curata dallo stesso poeta, Poesie 1932-1986, apparsa nel 1989.
3) Cfr. GIORGIO CAPRONI, La vita non è sogno, in "Il lavoro Nuovo", 1 Febbraio 1950, anno V, n. 26 e A. DE BIASE, L'opera ecc., cit., p. 157.
4) Torino, Einaudi, 1951.
5) A. DE BIASE, ibidem.
6) Ibidem, p. 158.
7) Il riferimento è a Stanze della funicolare, ma vale anche, mi sembra, per i Sonetti dell'anniversario.
8) Cfr. PIERO CITATI, "il seme del piangere", in "Il punto" del 14 novembre 1959.
9) Cfr. il suo utile ed elegante contributo: BIANCAMARIA FRABOTTA, La 'leggenda' di Annino Picchi nel 'Seme del piangere' di Giorgio Caproni, in "La Rassegna della letteratura italiana", 94, VIII, settembre-dicembre 1990, pp. 140-145.
10) Cfr. Urlo. L'edizione cui, d'ora in poi, si fa riferimento è quella garzantiana citata in nota 2. La lirica è a pag. 213.
11) Cfr. Il seme, p. 227.
12) Ibidem. Si osservi la sinestesia: "odore vuoto".
13) Sul poscolismo di Caproni, cfr. GIORGIO BARBERI SQUAROTTI, Appunti per un discorso su Caproni, in "Poesia Nuova", dicembre 1958 ora in "Galleria", XXXX, 1990, 2, AA.VV., GIORGIO CAPRONI, a cura di ANTONIO BARBUTO, pp. 342-359 (in particolare p. 344: "Nel modello pascoliano è il punto di partenza di Caproni ecc."), ALESSANDRO PARRONCHI, "Il seme del piangere", in "Paragone", n. 18, ottobre 1959 ora in "Galleria", cit., p. 373. Al Pascoli legava Caproni anche un non troppo remoto legame di parentela: devo la notizia al figlio dei poeta, prof. Mauro Caproni.
14) Il riferimento è Ad portam inferi. Inferi èun apax biblico, vale Inferorum. Cfr. ISAIA, XXXVIII: "Ego dixi: in dimidio dierum meorum vadam ad portas inferi".
15) Qui è il rejet a rafforzare "il pianto".
16) Ad portam inferi, pp. 214-218, ed. cit.
17) Annina "frequentò da ragazza il Magazzino Cigni, una delle case di moda allora in auge a Livorno: nella Livorno ancora ottocentesca". Così Caproni in FERDINANDO CAMON, G. CAPRONI, in Il mestiere di prete, Milano, Garzanti, 1982, p. 103 ora in "Galleria", cit., p. 284. Ivi altri riferimenti utili per l'approccio alla lettura dei Seme.
18) Eppure..., p. 221.
19) L'enjambement prolunga nel rejet la pena dei rimorso.
20) Ad portam inferi, pp. 216-217, ed. cit.
21) Cfr. A. PARRONCHI, "Il seme del piangere", cit., in "Galleria", cit., p. 371.
22) Eppure..., pp. 219-220, ed. cit.
23) Il seme del piangere, p. 227, ed. cit. Il poeta non esita ad affrontare l'alea dei topico ("La mamma ecc.") catafratto, com'è, dalla autenticità dei sentimento.
24) Ultima preghiera, p. 231, ed. cit.
25) Ovviamente ai poeti "laureati", perché considerate, da questi, dilettantesche.
26) Cioè non sofferte per il tormento tecnico, creativo; perciò spontanee, aperte, schiette come Annina.
27) Per lei, p. 211, ed. cit.
28) Battendo a macchina, p. 204, ed. cit.
29) Cfr. B. FRABOTTA, La leggendo ecc., cit., p. 143.
30) La testimonianza è resa dallo stesso Caproni. Cfr. nota 17.
31 ) Ibidem.
32) ERICH AUERBACH, Introduzione storica sull'idea e la sorte dell'uomo nella poesia, in ID., Studi su Dante, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 4
33) Cfr. UGO DOTTI, Giorgio Caproni, in "Belfagor", novembre 1978, pp. 681-696. Di U. Dotti si veda anche I racconti dei poeta, in "L'Unità", 8 maggio 1984.
34) Epilogo, p. 224 ed. cit.
35) Così Caproni nell'intervista a Camon. Cfr. F. CAMON, Il mestiere ecc., cit., p. 284.
36) Ibidem.
37) Ibidem.
38) GUIDO GOZZANO, L'amica di nonna Speranza, v. 49.
39) Cfr. nota 35.
40) Ibidem. Dei suoi genitori Caproni dice nella citata intervista a Camon: "quello ad essere più presente come tale, è mio padre, l'Anchise di quell'Enea in cerca, dopo la guerra e l'incendio, d'una mai trovata nuova terra dove fondare la mai fondato nuova città: di quell'Enea che simboleggia un po' il destino della mia generazione" (ivi). Delle sue città: "La città più 'mia', forse, è Genova. Là sono uscito dall'infanzia, là ho studiato, son cresciuto, ho sofferto, ho amato. Ogni pietra di Genova è legata alla mia storia di uomo [ ... ] ed è per questo che da Genova, preferibilmente, i miei versi traggono i loro laterizi. Livorno per me è l'infanzia: è Annina, è la madre [ ... ]. Con Roma, anche se ci vivo da anni e non so staccarmene, non lego molto: [ ... ] manca il paesaggio industriale a me tanto caro, manca il porto, mancano le navi [ ... ]. Ma amo molto, ugualmente, questa città [ ... ]. Non lascerei Roma, forse nemmeno per Genova [ ... ] diventata ormai in me pura città dell'anima". lbidem.
41) Cfr. GIUSEPPE DE ROBERTIS, "Il seme del piangere", in Altro Novecento, Firenze, Le Monnier, ora in "Galleria", cit., pp. 360-361
42) G. BARBERI SQUAROTTI, Appunti ecc., cit., p. 348.
43) Ibidem.
44) VITTORIO PAGANO, Calligrafia astronautica, Quaderni del "Critone", Galatina, 1958; pagine non numerate.
45) G. BARBERI SQUAROTTI, Appunti ecc., cit., p, 349.
46) G. CAPRONI, Poesie di Lamberto Pignotti e traduzioni di Vittorio Pagano, in "La Fiera Letteraria" del 21 dicembre 1958, pp. 3-6. Circa l'attività versoria del Salentino si legge: " [ ... ] In Francese Antico Pagano raccoglie alcuni esempi dei suo modo acuto e appassionato di tradurre dalle lingue e dai tempi più differenti dalla nostra lingua e dai nostri tempi un testo poetico. [...] Ma il dono di Pagano "imitatore" è proprio quello di non essere uno specialista, ma semplicemente un poeta, il che se non gli impedisce un giuramento di fedeltà coniugale all'intelaiatura metrica delle antiche forme, bisogna anche dire che non gli trattiene l'estro fra le sbarre della gabbia d'oro, dove invece, grazie alle felici scappatoie o scappatelle che sono proprie della poesia, questi riesce a muoversi con tanta intima libertà da dar l'impressione [ ... ] non d'un semplice ricalco ingegnoso, bensì di una vera e propria, saporosissima spesso, reinvenzione"; lbidem.
47) E' Preghiera, la ballatetta dedicata e ispirata alla madre Anna Picchi. Cfr. "Il Critone" (d'ora in poi con sigla CR) anno 1, n. 5-6 agosto-settembre 1956 poi ne Il seme del piangere (1950-58) ora in G. CAPRONI, Poesie (1932-1986), ed. cit., p. 201.
48) Cfr. CR, anno I, n. 7-8, ottobre-novembre 1956. la prosa è stata da me censita nel mio Lettere inedite ecc., cit. (cfr. nota 1), p. 127. Riferimenti a La lepre anche in GINO PISANO', Il sodalizio Betocchi-Comi, "Sudpuglia", XVII, dicembre 1991, 4, p. 104.
49) la collaborazione di Caproni alla "Gazzetta di Parma" non è segnalata nell'utile saggio di A. DE BIASE, L'opera giornalistica ecc. cit. Colgo l'occasione per dare qui di seguito gli scritti di Caproni, finora non censiti, apparsi ne Il Raccoglitore, pagina quindicinale de la Gazzetta di Parma": n. 26, 30 ottobre 1952, Brindisi sulla terrazza [racconto]; n. 30, 24 dicembre 1952, Una paura misera [racconto]; n. 36, 19 marzo 1953, Il largo" di Veracini [racconto]; n. 40, 14 maggio 1953, Gli insetti [racconto]; n. 48, 3 settembre 1953, La forza dell'automobile [racconto]; n. 51, 15 ottobre 1953, Cinquanta cavallini nuovi [racconto]; n. 69, 24 giugno 1954, Il cappuccino [racconto]; n. 86, 17 febbraio 1955, Rammarico per un'occasione perduto [in morte di Mario Colombi Guidotti]; n. 104, 27 ottobre 1955, La tromba del silenzio [racconto]; n. 120, 7 giugno 1956, Le case in dialetto ligure [su Genova]; n. 122, 5 luglio 1956, Due canzoncine per mia madre [All'antica e La ricamatrice]; n. 156, 21 novembre 1957, Una poesia morale [scritto dotato 1952]; n. 182, 4 dicembre 1958, quattro traduzioni da Henri Thomas: Quella strada, Victoria, Ieri e domani, La notte sopraggiunta delle quali la terza e la quarta furono pubblicate anche sul "Critone" (Cfr. Appendice); n. 193, 7 maggio 1959, Due appunti: Piuma e Aprile 24 [poesie]. Si segnalano, infine, due interventi critici: di O. MACRI' in ordine a Stanze della funicolare (n. 24 del 2 ottobre 1952) e di G. DE ROBERTIS a Il passaggio di Enea (n. 131 del 22 novembre 1956).
50) Il riferimento è relativo a G. CAPRONI, Il paesaggio d'Enea, Firenze, Vallecchi, 1956.
51) E' Preghiera, citata in nota 47.
52) Cfr. nota 48.
53) Non compare su alcun numero del "Critone".
54) Caproni si recò a Lecce nel 1962. Cfr. il mio Lettere inedite ecc., cit. nota 1, p. 125.
55) Cfr. CR, anno li, n. 5-6 maggio-giugno 1957, p. 7. Le traduzioni da H. Thomas vengono qui riportate in Appendice. Caproni non indicò l'edizione cui fece riferimento circa il testo da lui tradotto.
56) Cfr. "L'Albero", gennaio-dicembre 1956, n. 26-29, pp. 23-27.
57) Cfr. VITTORIO PAGANO, Antologia dei poeti maledetti, Versioni metriche di Vittorio Pagano, Edizioni dell'"Albero", Lucugnano, 1957.
58) "Fiera letteraria"
59) Cfr. "La Fiera Letteraria" del 9 e del 16 febbraio 1958.
60) Cfr. GIORGIO CAPRONI, Poesie di Lamberto Pignotti e traduzioni Vittorio Pagano, cit.


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