Un
oggetto sicuramente complesso e molteplice si pone come punto iniziale,
non fosse altro per la propria vicinanza, per la propria persistenza;
ma questo dato, se da un lato rende parziale la visione storico-scientifica,
dall'altro diviene strumento ai limiti dell'esperienza descritta, bordo
estremo del fatto narrato.
Tanto più se si considera partecipata l'osservazione dei fatti
letterari nel Salento.
Altro dubbio costitutivo, paradosso in atto: la condizione dissolta
della provincia, dell'isolamento, in definitiva l'inedito panorama dello
spazio letterario globale, l'impossibilità di definire oggi (o
meglio oggi più che mai) la salentinità letteraria, o
la sua italianità o la propria dimensione europea.
Come stabilire il confine di un andamento discorsivo in una società
mass-mediata? Come porre l'accento sulla esclusività di un'esperienza
in continuo e indissolubile legame con una comunità vasta, infinita,
intraducibile e nel medesimo tempo sempre in movimento?
L'ulteriore asse centrale di questo percorso è l'individuazione
di un oggetto molteplice, del soggetto operante il chi è chi
dell'agire letterario.
Già in queste poche parole è chiaro che mi riferisco ad
una situazione esplosa dove l'idea di autore, l'autorità, viene
riportata alla funzione più ricca, di dispiegamento e non di
chiusura del discorso.
Esistono, comunque, condizioni storiche specifiche, che portano il Salento
negli anni Ottanta a riattualizzare una propria specifica presenza nel
campo letterario; in questo senso va fatto inizialmente un passo indietro.
Gli anni '70 hanno rappresentato un sensibile punto di svolta nel lavoro
letterario, il "bodinismo" è stato l'autentico scoglio,
la pietra di paragone inevitabile, il punto di partenza per molti, per
tutti. Il punto di svolta risiede proprio nel superamento della maniera
di certo meridionalismo, posto continuamente in crisi dalle spinte e
dagli echi di una nuova pratica sperimentale.
Il dato che spesso emerge da questo contrasto è l'ossessione
del superamento del provincialismo, che continuamente viene invocato
come unico e solo nemico, la vera insidia. Non c'è editoriale
di rivista od operatore che non chiami continuamente in causa questo
livello.
Una continua commistione sembra agitare le esperienze letterarie che
dagli anni '70 si muovono. La lezione di Bodini resta invischiata in
una corruzione di fondo, in una compressione del fare poetico dove la
"salentinità" viene sempre anteposta ad ogni altra
dimensione di significazione.
E' in pratica la dimensione che portava a cercare il Salento nella Spagna
di Bodini, anche quando quel Salento cominciava a divenire una realtà
residuale.
Il muretto a secco e le donne vestite di nero vengono cancellati da
colate di cemento e dalla tecno-lingua italiana, veicolata dal medium
televisivo, strumento omologante da Torino a S. Maria di Leuca.
Ma ancora insiste chi vuole la poesia come idillico incanto di immagini
stucchevoli. Colate melense come dolci natalizi, come la pasta di mandorle.
In questa insistenza la malinconia della perdita, propria della civiltà
industriale, della inciviltà, della cosiddetta modernità,
ancora non ha operato un vero percorso in questo territorio, ancora
non ha esaurito la propria parabola fino alla propria distruzione.
Sembra, proprio in questo senso, che la lezione di Bodini in Metamor,
non sia stata raccolta da nessuno, almeno per ora. Non basta certo mettere
qualche parola in inglese per produrre una scrittura metropolitana,
ma le condizioni oggettive di oggi intaccano irreversibilmente la possibilità
di mantenere una identità regionale e subregionale.
Uno dei nuclei duri, rappresentato in maniera complessa dal rapporto
tra dichtung e techne, risiede proprio nell'esperienza bodiniana di
Metamor, ma questa indicazione di ricerca non ha avuto neanche un seguito
teorico.
Sembra dunque che il bodinismo, come ogni tendenza successiva, sia tremendamente
lontano dalla tensione di ricerca e di profondità intellettuale
che prende corpo nel lavoro da cui parte, abbandonandone le caratteristiche
costitutive.
Quale è stato, dunque, il contesto storico-sociale che ha visto
negli anni '70 una provincia dell'estremo Sud d'Italia un po' stupita
e stralunata affrontare un cambiamento radicale?
Il livello soprattutto dell'incanto idilliaco e sempre più imbalsamato
del Mezzogiorno - amara contea - si mischia alla corsa sfrenata all'avanguardia
che in tutta Italia prende vigore, attraverso soprattutto la figura
di una nuova militanza intellettuale.
Questo secondo polo porta a due risultati, a volte ben distinti, a volte
intrecciati tra loro. La ricerca dell'identità culturale, antropologica,
della terra d'origine e - in altra direzione - lo sperimentalismo sfrenato,
la necessità di svecchiamento in ogni ambito.
Il passaggio evidente ma tremendamente contraddittorio da una cultura
contadina ad una cultura tardo-industriale pone in essere una serie
di cambiamenti micidiali, repentini, dove il mutamento delle condizioni
del fare cultura, dell'essere operatori letterari, comprime anche molti
livelli positivi preesistenti.
Il fare politico negli anni '70 pone l'accento, anche nel Salento, sulla
valenza sociale dell'operare in un territorio specifico in via di trasformazione
e, comunque, sempre sfruttato. La riconquista delle tradizioni popolari,
la corsa al dialetto, sono stati elementi centrali, di cui chiaramente
a volte si è abusato. Così come certe forme esasperate
di sperimentalismo, non sempre accompagnate da una profonda consapevolezza
degli strumenti impiegati.
In questi discorsi cercherò dunque di cogliere i percorsi della
ricerca culturale nella provincia di Lecce negli anni 180, nella consapevolezza
di tracciare un panorama parziale della complessa attività letteraria
tout court.
Negli anni '70 la sola esperienza che stacca nettamente con il periodo
precedente e che mette in luce una nuova generazione culturale è
quella del gruppo genetico Ghen. Il lavoro di questo gruppo tende innanzitutto
ad una dimensione multimediale, in una continua contaminazione dei distinti
linguaggi espressivi e, al di là delle connotazioni teoriche
forti di alcuni esponenti del gruppo, già possiamo notare un
tratto tipico delle successive esperienze: l'incapacità di essere
veramente gruppo (sarebbe forse più opportuno parlare di impossibilità),
ma piuttosto una cerchia di persone che prendono parte ad una esperienza
di comunicazione, conservando però fortemente una propria dimensione
solitaria, isolata, non venendo mai "contaminato" dalle esperienze
delle altre individualità presenti in quella situazione.
Quindi Ghen, al di là della ricerca specifica di alcuni nella
direzione di uno sguardo accortamente psicoanalitico, di una tensione
verso il recupero del tempo scandito dal battito cardiaco materno, di
espansione liquida nella sostanza alchemico-amniotica, in una sacralità
pienamente laica, designa - innanzitutto - una nuova forma di produzione
della cultura, di fare e di confrontare in un tentativo quasi sempre
fallimentare e comunque continuamente incantato dell'essere socialmente
nelle situazioni.
Nella generosità e nel rigore di Francesco Saverio Dodaro (un
po' troppo scientista, per me, ma indubbiamente anima delle esperienze
da quel punto in avanti, più all'avanguardia in questo territorio)
o nella esplosione di Franco Gelli e di Antonio Massari, si innesta
un altro livello centrale, costitutivo, e purtroppo isolato, la necessità
di avere un luogo dove far crescere questa esperienza.
Questa esperienza porta un altro dato estremamente importante, i nomi
sopraddetti appartengono ad una esperienza essenzialmente visiva, questa
dimensione pittoricografica pone le condizioni per consentire lo sviluppo
di diversificate esperienze nel campo della poesia visuale, che Verri
e Dodaro concretizzeranno con quella importantissima iniziativa della
collana "Spagine" (1989) e della avveniristica collana (di
cui pochi sono a conoscenza) "Diapoesitive", dove addirittura
il supporto cartaceo viene superato in favore della proiezione su diapositiva.
Non solo sull'esperienza di poesia visiva influisce questa presenza
iniziale del gruppo Ghen, ma anche sulla necessità i molti "scrittori"
i misurarsi con le tecniche propriamente pittoriche o grafiche. Potremmo
trovare, in questo senso di debito della letterarietà salentina
nei confronti delle esperienze visuali, un grandissimo peso nella serie
di opere che il Maestro (per molti di noi) Edoardo De Candia compie
proprio agli inizi degli anni Settanta: si compongono, con quei suoi
colori sapienti, enormi parole, enormi lettere, il colore entra in questa
esperienza mallarmeana acquistando il vigore della disperazione, della
carne. Consapevole o meno, chiunque agisca con la parola, con la scrittura,
è legato inesorabilmente a quella operazione.
Quali son le istituzioni della letteratura negli anni '80 a Lecce e
nella provincia?
Dovremmo cercare di osservare situazioni ancor'oggi operanti o appena
scomparse.
Iniziamo dall'Università: La Facoltà di Lettere e Filosofia
conosce un impoverimento progressivo, perdendo sempre più insegnamenti,
chiudendo gli spazi verso l'esterno; basti ricordare che attualmente
l'insegnamento di Letteratura italiana sembra essere in attesa della
designazione dell'erede di Mario Marti, che da qualche anno ha concluso
la propria attività di insegnamento. La Facoltà di Magistero
riconferma la propria attitudine ad essere luogo di passaggio per decine
e decine di docenti che utilizzano la sede di Lecce per progredire nella
propria carriera accademica. Completa il quadro un assenteismo largamente
diffuso, che fa dell'università non un luogo di ricerca inserito
nell'ambito sociale, bensì una sede di contrattazione i poteri
non mancano però le eccezioni in positivo, ma restano sporadiche
eccezioni).
L'università viene meno dunque al proprio ruolo: essere luogo
- indicato istituzionalmente - del costituirsi di un sapere socialmente
spendibile, di centro di promozione e crescita della cultura di un territorio
che si collega con strumenti scientifici adeguati a livello nazionale
e internazionale.
BIBLIOTECHE
In questa realtà
estremamente disgregata, frammentaria, priva di qualsiasi coordinamento
e funzionalità, brilla per inefficienza il sistema bibliotecario
nel territorio.
Situazioni propriamente scandalose vedono l'elementare diritto alla
piena utilizzazione del materiale librario esistente trasformarsi
in una difficile operazione dove anche il livello primario della schedatura
risulta ostacolo quasi insuperabile.
In questo contesto emergono per assurdità le giacenze della
biblioteca provinciale - sorta di scantinato borgesiano, dove solo
la memoria immaginifica di un cieco riuscirà un giorno a rendere
visibile i volumi prodotti nel territorio e lì conservati -ancora
le biblioteche dell'università che, decentrandosi, si sono
disintegrate, perse nell'assenza di un coordinamento reale (soprattutto
di uno schedario unitario) nella biblioteca interfacoltà, che
pure dovrebbe essere la sede in dovere di mantenere unito questo variegato
quadro.
Non parliamo della totale assenza di un serio discorso di continuo
e necessario aggiornamento delle non molto piccole biblioteche sparse
nei comuni della provincia. Luoghi dove principalmente circolano libri
distribuiti da vari enti o donazioni mai sistematizzate.
L'indicazione forse più interessante nasce anche in questo
caso da una esperienza isolata ma estremamente interessante, quella
prodotta a Novoli da Dino Levante con la sua Biblioteca Minima.
Oltre la serietà professionale di questo luogo di libri garantita
dal continuo sforzo individuale di chi promuove questa realtà,
va valutata la cifra dell'operazione. In questa biblioteca è
interessantissimo il livello della raccolta del materiale inerente
e prodotto dal territorio salentino, non tralasciando una particolare
attenzione per la promozione di nuova ricerca bibliografica.
Da questo livello minimale prende corpo l'indicazione di un funzionamento
possibile, un centro di lettura, con gli strumenti e il personale
adeguato per garantire la formazione e la ricerca in molteplici realtà
decentrate.
Per fare ciò è chiaro che esiste la necessità
di soggetti come Dino Levante, altamente preparati e intellettualmente
motivati.
Resta il dato sconsolante che solo all'iniziativa privata ed amatoriale
è legata l'unica esperienza positiva dello strumento-biblioteca.
Questo cattivo funzionamento si riflette inoltre sulle numerose donazioni
mancate che in questi anni si susseguono. Molte biblioteche di privati
enormemente interessanti sono
infatti con molta diffidenza cedute ad istanze pubbliche proprio per
il mancato funzionamento di queste strutture che non danno assolutamente
alcuna garanzia agli eventuali donatori.
CASE EDITRICI
Il discorso qui
è molto complesso e cercherò brevemente di fornire un
piccolo panorama della situazione editoriale salentina negli anni
180.
In questi anni assistiamo al progressivo dissolvimento della casa
editrice Milella, che comunque conserva un ruolo di prestigio per
quel che riguarda la saggistica in campo letterario, andando man mano
scomparendo per riprendere - attraverso una nuova gestione - in questi
ultimissimi anni la propria attività.
L'attività delle case editrice Congedo di Galatina e Capone
di Cavallino è sostanzialmente indirizzata verso pubblicazioni
sempre di carattere saggistico o documentale, sempre di sicura committenza
e di mercato abbastanza garantito. Come nel caso della Milella, buona
parte del catalogo vive del rapporto con l'Università.
Sul versante creativo troviamo le edizioni del Pensionante de' Saraceni
di Antonio Verri e, successivamente, la Piero Manni e c. di Lecce.
A queste due va aggiunta, anche se con ritmi più lenti di titoli
pubblicati, la casa editrice legata ad Aldo D'Antico, Il Laboratorio
di Parabita.
Per il discorso che andiamo svolgendo risulta quindi necessario spendere
qualche parola in più per il binomio Verri/Manni che può
essere considerato come l'asse caratterizzante il decennio trascorso.
Nel corso della successiva trattazione analitica avremo modo di tornare
spesso su questa divaricazione, ma sin d'ora possiamo dire che si
trovano a confronto due differenti modi di intendere e di agire la
letteratura, modi che ancora si stanno sviluppando e che sicuramente
porteranno ad ulteriori interessanti risultati nei prossimi anni.
Intorno al Pensionante si è sviluppato un variegato gruppo
che ha dato vita e spessore a numerose iniziative in questi anni,
facendo di Lecce un punto di confronto interessante per le esperienze
letterarie di ricerca, di bordo, a livello nazionale.
Il merito essenziale di questa esperienza ancora in corso è
indubbiamente quello di aver dato cittadinanza certa alla ricerca
letteraria nel Salento, concedendo spazio e dando credibilità
anche a molti giovani, affiancandoli alle situazioni più accorte.
Per quello che riguarda Manni assistiamo ad una parabola differente;
fornito forse inizialmente di strumenti critici più accorti,
questa esperienza si è andata via via fossilizzando in una
specie di depandance dei nomi illustri della letterarietà contemporanea.
Se va tenuto in debito conto l'importanza di una casa editrice che
è conosciuta in tutto il territorio nazionale, non va sottaciuta
la sufficienza che questa casa editrice ha progressivamente riservato
alle situazioni locali. Questo atteggiamento ha fatto sì che
le iniziative promosse da questa realtà fossero solo sulla
carta svolte a Lecce; come non ricordare le fantomatiche "tesi
di Lecce" apparse più volte nei discorsi di letteratura
degli anni '80 a partire dalla pagine di Alflabeta? A partire da queste
considerazioni ci sembra estremamente difficoltoso, e più oltre
avremo modo di verificare ci(, parlare dell'attività di Manni
in questo territorio. Esistono, e le due esperienze sopraccitate lo
dimostrano ampiamente, diversi modi di produrre presenza letteraria:
una militanza intellettuale che attraversa complessivamente, interrogandosi,
l'esistente concretooppure il rincorrere l'ufficialità che
passa dai circuiti nazionali riconosciuti, accontentandosi magari
di libri di scarto di famosi autori.
RIVISTE - GIORNALI
Strettamente legato
a questo discorso editoriale va collocata la presenza delle riviste.
Pensionante de' Saraceni, dopo l'esperienza di Caffè Greco,
è stato lo strumento con cui il gruppo legato a Verri ha potuto
inizialmente confrontarsi, dando poi vita ad altre esperienze come
Il quotidiano dei poeti, On board, Ballyhoo, fino a giungere all'attuale
Titivillus; luoghi di incroci, di progetti mai realizzati, di fini
e grossolane provocazioni. Da Manni - dopo l'iniziale militanza nel
Pensionante - è nata L'Immaginazione (1984), dove aldilà
delle iniziali promesse di trasgressività si è verificata
una progressiva mancanza di progettualità.
Questo tradimento delle intenzioni originarie è percepibile
già dal cambiamento dopo un anno della veste grafica di F.S.
Dodaro - che aveva provocato non poche critiche - con una veste assolutamente
"normalizzata".
Immaginazione esce ancora, arrivando così all'ottavo anno di
vita, dato di non poco conto valutando le difficoltà che ogni
rivista incontra.
Anche il paginone centrale del Quotidiano di Lecce ricopre un ruolo
importante nell'attività letteraria del territorio, ma questa
funzione al di là di pochissime eccezioni è vanificata
dalla totale improvvisazione con cui l'inserto culturale viene gestito.
Se nei primi anni del 1980 gli articoli del Paginone potevano promuovere
livelli di dibattito e fungere da stimolo alla provincia, assistiamo
in seguito ad un vivacchiare su pezzi singoli più o meno interessanti,
quasi sempre promossi dagli autori (occasionali) degli articoli.
Alle riviste sopraccitate va affiancato L'incantiere" rivista
prodotta dal Laboratorio di poesia legato all'attività soprattutto
di Walter Vergallo e di Arrigo Colombo.
In questa rivista assistiamo ad una sorta di "ecumenismo"
editoriale, con note critiche dedicate quasi esclusivamente ad ospiti
illustri e con una continua disparità di prove poetiche al
proprio interno.
In questo modo abbiamo sommariamente abbozzato la situazione letteraria
salentina, ponendo brevemente le premesse per una trattazione più
particolareggiata delle condizioni della ricerca letteraria in questo
territorio negli anni '80.
Non va dimenticata la difficile situazione che il mondo della cultura
oggi vive in questa regione.
Numerose positive esperienze in campo creativo, soprattutto teatrale,
vengono strozzate e chiudono una stagione sicuramente ricca di stimoli
e di indicazioni.
Alcune voci scompaiono, come quelle del grande Salvatore Toma, altre
cercano di riapparire come quella di Vittorio Pagano.
Comunque è chiaro che da queste poche righe iniziali, ancora
interne allo svolgimento di ciò che si descrive, che una ricchezza
è molteplicità di voci, di energie culturali ha poggiato
interamente sulla caparbietà dei singoli, venendo quasi completamente
ignorata dalle situazioni istituzionali che hanno vissuto, e continuano
a vivere, nel totale distacco da ciò che accade veramente sul
vivo e contraddittorio terreno del fare cultura in un Salento sempre
più criminalizzato e sempre meno "poetico".
IPOTESI DI PRESENZA
LETTERARIA
Il convegno di
" Le terre di Carlo V " si tiene nelle Università
di Roma, Bari e Lecce a dieci anni dalla morte di Vittorio Bodini,
interamente dedicato all'operare culturale di questa gigantesca figura
della nostra letteratura.
L'anno precedente moriva Vittorio Pagano, altra figura centrale della
cultura salentina, grande traduttore ed agitatore culturale.
La nuova pagina dell'attività letteraria comincia a muoversi
in quel contesto che poco prima ho cercato di delineare.
Vorrei cominciare da una situazione, da un evento preciso, punto di
svolta e - nel medesimo tempo - pieno di improvvisazione, di ingenuità,
di uno sguardo incantato, ben lontano dal livello istituzionale che,
da sempre, immobilizza l'operare. Mi riferisco alla prima edizione
di "Salento Poesia", agosto 1984.
Nata da un'idea che già aveva avuto precedenti illustri, come
Castel Porziano e Milano Poesia (in quell'anno alla propria V edizione
), portata a Lecce da Bruno Brancher ed organizzata con Anna Maria
Cenerini, Luisa Elia ed il sottoscritto.
Questa armata Brancaleone riesce a smuovere molto, creando un nuovo
livello di incontro e di confronto, collegando la letteratura della
poesia con ambiti di espressione artistica differenti, arti visive
soprattutto.
Il livello più interessante è sicuramente rappresentato
dalla libera strutturazione delle due serate, che permettono l'intervento
di scrittori non invitati ufficialmente, una sorta di auto-organizzazione
e di presenza partecipata che mai più si verificherà.
Mi riferisco apertamente alle edizioni successive, poiché un
interessante balletto si muove appena conclusa l'edizione del 1984.
La formula piace, il pubblico è numerosissimo, le risposte
sono estremamente positive a più livelli.
Aldilà dell'anedottica che parla di furiosi litigi tra Brancher
e me, l'edizione successiva si tiene a Gallipoli (la precedente si
era svolta al "New Frontier" a Magliano), molta pubblicità,
molti nomi, molti sponsor: organizzazione Manni e Brancher.
Questa seconda edizione, però, prevede anche molte esclusioni,
restrizioni organizzative dettate più da un efficentismo di
facciata che da una reale scelta: non è più il Parnaso
dei poeti, la selezione sembra obbedire ad un principio di qualità,
ma la chiusura ad interventi liberi già preannuncia una rigidità
che si andrà sempre più diffondendo nelle successive
edizioni.
Le successive edizioni vedranno sempre Brancher nella fase organizzativa
dei poeti provenienti da altre realtà (naturalmente con molta
attenzione all'area milanese), affiancato dal gruppo di Colombo e
Vergallo del Laboratorio di Poesia.
Sul Laboratorio di Poesia vanno spese alcune riflessioni.
Nasce nel 1984-'85, su progetto di Arrigo Colombo, sulla base di un
documento-appello che teorizzava, partendo dalla necessità
di un'arte per il popolo, l'inevitabile impegno degli artisti delle
varie aree espressive, accomunati dal medesimo intento.
Come già accennato, in realtà il Laboratorio ha unicamente
agito in ambito poetico.
Fin da subito si sono palesati i limiti di questa operazione: un luogo
fintamente asettico, dove confluivano in maniera indistinta - e in
buona sostanza filtrati dall'esuberante personalità di Arrigo
Colombo - esperienze estremamente distanti tra loro; un giardino incantati
dei poeti, che non nell'agire creativo ma in una sorta di sovrapproduzione
discorsiva su di sé continuava ad agitarsi.
Al di là di questo non indifferente problema, va tenuto conto
di alcuni dati estremamente positivi, che cercherò ora di elencare.
Il minimo livello progettuale sopraddetto si è concretizzato
in parte attraverso l'intervento annuale nelle scuole della provincia.
Non è certo di poco conto il portare l'esperienza viva e diretta
del fare letteratura, soprattutto in una scuola che uccide la creatività,
che nega dignità di studio a tutte le esperienze letterarie
che superino il 1925.
In quella scuola che considera la poesia contemporanea quella di Ossi
di Seppia di Montale, tralasciando allegramente 70 anni di esperienze,
il produrre un contatto diretto con dei giovani ha creato una notevole
spinta alla partecipazione creativa. In questo non va neanche trascurato
il fatto che la domanda di poesia, di letteratura, di arte, di una
formazione e informazione ha avuto spazio svolgendosi in maniera attiva
e partecipata. Una richiesta che continua anche oggi, e che vede poca,
troppo poca presenza organizzata in grado di dare una effettiva risposta
a questo bisogno diffuso.
Non va inoltre trascurato il livello di incontro di esperienze che
comunque aveva, ed in misura minore ha ancora, il Laboratorio. In
questi incontri veniva, all'inizio di ogni anno, stabilito un tema
su cui sviluppare discussioni, interventi creativi e successiva verifica
del lavoro poetico svolto. Questa interessante indicazione ha peraltro
permesso un abbozzo di lavoro su di un terreno comune.
Sempre restando nell'ambito delle pratiche artistiche tese a lanciare
o a rilanciare partecipazione creativa, trova sicuramente posto la
figura di Enzo Miglietta, che realizzo a Novoli all'inizio degli anni
'80 una casa-laboratoio.
L'ipotesi, pienamente realizzata, consisteva nel dare luogo alle pratiche
della scrittura e della performance.
Salento Poesia, Laboratorio di Poesia di Colombo e Vergallo, Laboratorio
di Miglietta a Novoli rispondono, in realtà, all'esigenza di
produrre discorso vivo e concreto, circolazione e scambio tra corpi
viventi, superamento del supporto cartaceo: in sostanza premessa necessaria
ed ineludibile per attraversare la condizione presente, viva, palpitante
e contraddittoria dell'agire letterario.
In realtà si verifica una sorta di scollamento, ancora oggi
tremendamente in atto: da un lato il concreto dell'agire letterario
formato dalla voce che dice, dal corpo che si mischia al suono, da
una sorta di infinita scrittura - senza autore - che torna al soffio;
dall'altro lato, le piuttosto rare pubblicazioni appartengono al tessuto
della letteratura, una sorta di corpo oscuro che rinuncia all'esplosione.
Un lavoro di altra natura potrebbe inserirsi in questa divaricazione:
il problema della verità in una pratica esplosa, anche frettolosa,
distratta, non sedimentabile.
E qui è forse il punto: una pratica di scrittura, o di voce
che segue la traccia della scrittura, non può che ricostruire
e decostruire nuove condizioni di possibilità per gli enunciati,
una nuova verità che agisce sulla scrittura/voce, che è
agita dalla scrittura/voce.
Già abbiamo accennato alla scelta che sottende a questo percorso
nell'attività letteraria di ricerca nel Salento negli anni
'80, giocato essenzialmente all'interno di una considerazione complessiva
del costituirsi dei discorsi che muovono dalla dimensione letteraria.
Non un panorama storico, ma l'indicazione di una possibile, ampia
e parziale visione dell'accadere.
In questo senso va collocata quella grande maturazione poetica, ancora
in fase di approfondimento, di Giovanni Bernardini.
Non mi riferisco qui a Segni del Diluvio (Lacaita, Manduria, 1981),
quanto a Emblema e Metafora (Piero Manni, Lecce, 1988), nel quale
si produce una scrittura lacerata, rappresa, ma nello stesso limpida,
dove la parola ancora evoca la propria capacità di narrare,
attraverso il metro dell'ironia.
In Bernardini la scrittura poetica si accresce, si gonfia attraverso
la parola che guarda alla condizione umana, profondamente umana, della
sofferenza, della morte, della corruzione (sia essa civile, del tessuto
sociale, della minuta vita quotidiana) o fisiologica (della propria
carne, della propria memoria).
Questo discorso ci introduce in uno degli universi più importanti
ove lo spostamento è risultato estremamente sensibile; la morte,
vera energia della letteratura. La morte non è più rituale,
non è l'esortazione che tenta di frenare l'inarrestabile accumulo
di morte, non è molteplice ed esponenziale, non è più
una morte viva e quotidiana, naturale. L'urlo "Morta, non morire
più", con il suo carico e strascico di saperi quotidiani,
scompare.
Prende il suo posto una morte plastificata, una morte rifiutata, già
in atto e silenziosa, a Bodini si sostituisce Salvatore Toma: alla
sua convinzione di non morire mai, tragico e falso gioco di una morte
continua e negata, di chi a 36 anni conoscerà il gonfiore abnorme
di una morte vera e atroce, aliqua del mito di se stesso, in una provincia,
in un tempo in cui gli scrittori sono superflui e - forse anche per
questo - superficiali. Ma è in questo spostamento della morte
che la resistenza di chi scrive, del corpo di chi scrive, si organizza
In una continua ostinata ricerca di armonia complessa, profonda e
molteplice, quasi sempre invisibile, tra il mondo e l'agire creativo.
Tra un mondo distratto, che ha troppa fretta per dare ascolto all'improduttivo,
al dispendio che costituisce l'arte, e dei soggetti travolti da mutamenti
troppo rapidi, senza luoghi dove ripararsi o da cui partire.
Il Due di Verri ne La Betissa (Sudpuglia, Matino, 1987) apre e chiude
"Ogni notte la terra subisce la baionetta: non va meglio per
chi, curvo, scrive in fondo alla bivett del teatro".
Una delle vie di uscita è proprio rappresentata dallo sforzo
continuo di coniugare l'offesa e la sofferenza di una terra che si
stravolge con lo sguardo strabuzzato di una mano che scrive.
La mano è quella di uno squalo, animale poco nobile e temutissimo,
simbolo non piacevole per epoche passate, terreno in cui Verri condusse
me, Lucio Conversano, e altri. Questo "folle" progetto,
questa scelta di campo, si trova in un libro di cui esiste un esemplare
unico, dal titolo Aderire allo squalo. Ciò che mi preme maggiormente
sottolineare è proprio la natura non circolante delle esperienze
letterarie nel Salento.
Questo elemento costitutivo non è sicuramente determinato dalla
cattiva qualità dei prodotti, ma da una sorta di isolamento
a cui la produzione creativa salentina è soggetta.
Aldilà della rubrica altamente meritoria che fornisce utilissimi
strumenti operativi di Bonea dalle pagine domenicali del Quotidiano
o dalle sezioni dedicate da Sudpuglia, oltre agli interventi sporadici
di altre riviste o giornali, non esistono azioni strutturate per dare
un luogo e dignità di esistenza al discorso complessivo del
fare letterario nel Salento. Questo isolamento si riflette direttamente
sul tessuto compositivo, sulla natura della circolazione della letteratura
qui prodotta.
Basti pensare ai brani qui citati da Ancora un anno di Salvatore Toma
(Capone, Cavallino, 1981) o la Betissa di Verri o Emblema e metafora
di Bernardini: libri introvabili, senza alcuna distribuzione, senza
alcun livello di pubblicizzazione.
In molti, troppi casi, la scrittura creativa diventa l'occasione per
l'editore di farsi qualche soldino, per lo scrittore di accettare
l'immagine di sé come di un soggetto disposto a pagare o a
trovare i soldi attraverso varie forme di finanziamento pur di vedersi
pubblicato il libro. Il libraio, che èperfettamente a conoscenza
di ciò, compie lo sforzo caritatevole di mantenere in vetrina
quel libro per qualche settimana (se ha rapporti di amichevole conoscenza
con lo scrittore) constatando che il proprio giudizio a libro mai
aperto è più che fondato, in quanto nessuno compra una
copia di quel libro.
Resta la delusa follia di chi ha scritto e pagato il libro, forse
unica figura in cui si rapprendono le antiche categorie medioevali.
Oltre quindi lo sguardo compassionevole di chi non capisce come sia
mai possibile scrivere libri inutili, brutti, che mai nessuno leggerà,
resta la presenza inquietante di una continua produzione dispendiosa
e inutile, con buona pace per quegli editori che si fanno pagare dagli
scrittori. La scrittura creativa si colloca dunque istituzionalmente
al di fuori o, meglio, ai bordi della circolazione della mercelibro.
Questa esclusione dal mercato ne detta, peraltro, caratteristiche
essenziali. Non potrà mai verificarsi, come accade in pittura
e in musica, di sentire affermazioni del tipo: "questo lavoro
è fatto così perché così vende".
La scrittura si sottrae, dunque, in questo preciso contesto storico,
alla tautologia del mercato, alla profonda metafisica dell'economia.
La situazione di bordo della scrittura permette di prendere tempo,
di superare l'ossessione della vendibilità, di collocarsi in
una situazione di importanza, mai di urgenza o di emergenza. Gli scrittori,
in questo allucinato territorio che comincia dagli anni Ottanta a
conoscere la devastante presenza di una malavita organizzata, vivono
non visti ed intervengono tranquillamente su ampi progetti di scrittura.
Non è solamente un luogo comune obbligato, il riferirsi alla
dilagante presenza criminosa. Il territorio incantato, forse affamato,
costituito dall'assenza di chi deve partire, lascia il posto ad una
dilagante violenza, al telefono portatile, all'espansione dei pollici
televisivi, alle esplosioni continue, alla presenza naturale delle
sirene.
Può esserci comunità tra chi agisce creativamente? Può
essere elaborata una risposta collettiva? Può esserci una comunità
che produce scrittura e resistenza?
"La comunità non è il luogo della Sovranità.
La comunità esponendosi espone. Include l'esteriorità
d'essere che la esclude. Esteriorità che il pensiero non domina,
foss'anche dandole nomi svariati: la morte, la relazione ad altri
o ancora la parola, quando non è risolta nei modi in cui si
esprime il parlare, e così non permette nessun rapporto (di
identità né di alterità) con se stessa.
La comunità, in quanto regge per ciascuno, per me e per sé,
un fuori-di-sé (sua assenza) che è il suo destino, dà
luogo a una parola senza condivisione e tuttavia necessariamente molteplice,
di tal sorta quindi da non potersi sviluppare in parole: sempre già
persa, senz'uso e senz'opera, e che non trova, in questa perdita stessa,
magnificenza". Così Blanchot ne La comunità inconfessabile,
così noi ci agitiamo partendo e moltiplicando la traccia, la
scrittura, una scrittura che diviene voce, talvolta. In questo tentativo
di creare e ricreare la "comunità di chi non ha comunità",
come diceva Blanchot, diceva Bataille.
Il tentativo è anche il Quotidiano dei poeti, dove la quotidianità
rientra e stravolge i propri connotati, siamo nel 1989 e lì
mi trovo ancora nell'osservare il passaggio a Nord-Ovest.
"Il francese 'randonnée', e l'inglese 'random', il caso
la possibilità, e il fatto che egli voleva riunire i due sensi,
attraverso la Manica o il San Lorenzo".
O ancora "La voce, ancora la voce, unico segno che rimane nelle
mani sbriciolate della poesia. Il resto è letteratura. Nella
poesia che il pesce ogni giorno dice, inudita e inaudita l'ultima
persistenza dell'esistere".
E come non fare emergere la presenza, il corpo e la voce di Edmond
Jabes, a Lecce l'anno precedente, forse non casuale presenza, voce
che ancora resta e ritorna: "Due libri - disse il saggio - erano
rimasti sul tavolo; quello di Dio è il mio. / Dio portò
con sé il mio, e io l'altro".
Nella circolazione continua di voce e di scrittura, di corpo che r/esiste,
di traccia della comunità di chi non ha comunità: l'ipotesi
originale ed ultima nella provincia di Lecce negli anni Ottanta.
(1 - continua)
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