§ Nostoi

Gli indovini




Antonio Errico



- Per quanto tempo ancora questi arbusti resisteranno sugli argini a tenerci sospesi ne vuoto del dirupo?
Poi cadremo, Calcante, come uno dei tuoi uccelli, passero o rondone, strappati al cielo dalla fionda di un fanciullo.
L'abisso sotto noi non ha colore, non sappiamo se sia foresta o mare, se troveremo tenebra o chiarore, quando accadrà.
Se troveremo un silenzio di timore, di sonno, di scordanza più profonda, o un clamore di spade e di scudi, di un rito per propiziarsi fortuna o lucenza di luna tra gli ulivi o lo scuro di vendette ostinate che nemmeno la morte riesce a dissuadere.
Ho visto un palazzo in fiamme, un'altra volta. Si alzava il fuoco fino alle alte volte, correva come serpe nelle stanze, divorava i letti, le madie, le armature, le porte, i quadri, le bambole, i ritratti.
Il fumo si addensava, velenoso, soffocava i bambini, si spandeva, oscurava il cielo, lo anneriva.
Ho visto quel re aspettare il fuoco. Solo.
Guardava non so dove, forse il mare, o forse nulla. Ogni volta mi avvicino e ogni volta lui si copre col mantello per non vedermi, perché io non lo veda. Poi una vampa improvvisa lo aggredisce. Lui si consuma tra le fiamme. Resta solo un anello d'oro col sigillo: Priamo. Un nome forse. Non so dire se questa visione sia ricordo o sogno, ma darei qualsiasi cosa per capire perché quell'uomo nasconde a me il suo volto, per sapere se vive ancora o visse in qualche tempo, in qualche luogo, se davvero la sua vita bruciò con la sua casa.
Vorrei ricordare o indovinare se è passato dentro i giorni miei un solo istante, se un solo istante io passai tra i suoi.
Ma il passato è deserto per me, Calcante, è come un varco chiuso, come luna oscurata da una nube, l'immagine di un sogno che mi sfugge, che non riesco a fermare negli occhi, nel pensiero.
Ho visto crollare templi, un'altra volta. Mani frugare tra le macerie, ancora.
Disperati che cercano scampo per il mare, che cercano terre nuove, senza nome.
Li ho visti mendicare con le spose, coi loro figli nelle città straniere, ho visto guerrieri avviliti dall'esilio combattere nei circhi, nelle fiere.
E li ho uditi raccontare lunghe storie di assedi, di destini, antiche glorie, di oracoli, di dei, di incantamenti, di fughe, di ritorni, perché restasse inviolata almeno la memoria, perché la memoria spezzasse le catene della loro schiavitù.
Vorrei un ricordo Calcante perché la voglia di abbandonarmi non prenda il sopravvento, che possa ricongiungermi al mio tempo, ad una storia.
Nulla se non il ricordo ha senso.
- Scorda il ricordo, puoi solo il delirio, puoi spingere solo il pensiero lontano a scrutare le storie che dovranno venire senza poterle nemmeno più raccontare, perché solo a noi arriva la voce, a noi che sappiamo come te, quanto te, a noi che come te siamo indovini del caso, dei abbattuti o fantasmi di uomini vacui travolti dal sogno malato di svelare ignoti destini.
Per questo vivemmo ed a questo ora siamo dannati.
Non potrai mai sapere chi è stato quel re. Appartiene al passato, a quel passato che dei maligni o pietosi ci negano.
Voce dispersa, parola sommersa, sguardo accecato, riflesso ormai spento: questo è il passato per noi.
Oh Cassandra, Cassandra bambina randagia nel tempo che per te fu eclisse e sorgente seccata, ora sogna se vuoi di avere memoria; sogna bianchi lenzuoli che asciugano al sole sopra il terrazzo della tua casa, cavalli di legno e navi alla rada, navi partite al tramonto, la festa, la festa, la folla ubriaca, infiammata, ignara la folla della notte che viene, ignara ubriaca la folla che apre le porte.
La notte. Stordita. Sfibrata. Senza risveglio. Tradita. Passata.
Oh Cassandra Cassandra creatura di vento, tramonto lucente sul mare, sgomento negli occhi, verità rinnegata, schiava e regina di passioni, ossessioni, di perdoni, vendette, di sacrilegi, di voti.
Il passato, Cassandra, non è stato. Mai. Come non è stata mai primavera. Come non è stata mai vita e mai morte, né giorno né notte. Mai.
Nulla è mai stato se tu non ricordi.
Ma tu puoi sognare un ricordo Cassandra. Sognare il passato.
Il passato, Cassandra, è solo dentro di noi: è un tempo inventato, un racconto che cresce su voci di voci, su frammenti di sogno, su equivoci, incroci di fantasie, di finzioni.
Accade sempre così, a tutti così: uno crede di essere stato giovane, poi vecchio, di aver amato, odiato, di aver visto città e uomini nascere e morire; uno crede di aver visto fonti inaridirsi, di aver attraversato i deserti, le tempeste, di essere partito e ritornato; crede di essere stato mercante, musico, poeta, vinto o vincitore. Crede di essere vissuto.
Ma ha solo sognato; sta sognando.
E racconta il suo sogno che si annoda a innumerevoli altri sogni raccontati: sogni di ogni forma, che nascono dal sonno o dall'insonnia, da una meraviglia, una febbre, una paura. Oppure da un risveglio. Stringi forte le mani all'arbusto Cassandra. Nemmeno noi conosciamo il fondo del dirupo.
- E se fosse in fondo a questo vuoto a memoria, Calcante, se per ritrovarla dovessi abbandonarmi, se dovessi discendere, precipitare fino a giungere a un grembo di luce in cui la vita si rinnova, fino a un punto dove il velame dell'oblio scompare, e a sciami ritornano i ricordi?
Se dovessi, Calcante, rinunciare a questo tempo muto, alla nebula scura che ci avvolge, perché si appaghi il desiderio di un passato, perché un senso di me si possa rivelare, sia pure come miraggio, inganno?
Sai, io non so se ho mai avuto un figlio, un padre, se ho mai avuto una tristezza, un'allegria, se fui mai rassomiglianza di qualcuno, se mai qualcuno mi rassomigliò.
A volte nell'incavo degli occhi si accende una visione di mani che si tendono a sfiorarmi, mani bianche esangui, tenere come foglie nuove. A volte si accendono colori che mi sembra di aver già visto: di nuvola, di mare o di mattino, colori che non distinguo, che all'improvviso il buio mi sottrae. E mi sembra di udire voci di richiamo, come sibilo lontano, come fruscìo di vento sopra i davanzali.
Vorrei avere un ricordo un solo istante in cambio dell'arte di vaticinare, di quest'ansia furiosa che mi assale e mi trascina oltre l'orizzonte di mille e mille sfere di cristallo di zingari e di maghi.
Forse dagli zingari noi abbiamo imparato a cercare la sapienza dell'effimero, il gioco che muta il volto dei giorni, che li ruba alla storia. Forse da loro imparammo l'azzardo, il sospetto per ogni evidenza, l'allusione, dagli zingari contagiammo la smania di sprofondare nel futuro per conoscere l'eternità. O la morte.
Vorrei un passato, Calcante, vorrei una storia, un tempo che comincia e che finisce, vorrei ritrovarmi e rimorire.
Mi chiedo spesso se il nome che mi resta come unica scaglia di memoria non sia un'invenzione degli dei, un modo di consolarmi.
Perché mi chiami Cassandra tu, Calcante?
Ma forse hai ragione tu: non siamo. Non siamo mai esistiti. O siamo stati riflessi di una luce, fantasie di poeti folli, immagini di un sogno, maschere di un teatro.
Siamo stati la copia di un'assenza, il simbolo di vite che il tempo non ha mai generato. E' così Calcante?
Non rispondermi.
Ora vedo macerie di città, una donna che fugge per le strade, i lupi alle sue spalle; lei delira, vomita la sua nausea dentro i pozzi, fugge dai lamenti, dal tumulto, sale scale di templi, si inginocchia davanti alla statua di un dio decapitato.
Vedo serpi strisciare sugli altari, vengono verso di me.
lo chiudo gli occhi. Li sento sulle gambe, sopra il ventre, sul petto, sulle labbra.
Poi quel re, ancora quel re che si copre col mantello, per non vedermi, perché io non lo veda.
Che cosa accadde di tutto questo, cosa di tutto questo è solo malattia della mia mente?
Sai svelarmelo tu, Calcante, o sei anche tu solo un nome senza storia, figura di un tempo che non ha memoria, lettera di un alfabeto indecifrabile?
- Quante parole son passate, inutili, insensate, quante parole ancora passeranno, sempre così inutili, insensate. Non hanno mai mutato nulla le nostre parole, Cassandra. Tutto è accaduto come doveva accadere. Il tempo ignora le parole, ignora il loro inganno, la loro seduzione, le nostre divinazioni, i nostri enigmi.
Siamo vissuti in una trasparenza del tempo, in un vespro che non fu presente né futuro, un tempo tra due tempi, immobile. Ma a nessuno, Cassandra, ma a nessuno dopo di noi gli dei hanno concesso il privilegio di coprire col pensiero la distanza che c'è tra un giorno e un altro giorno ancora da venire.
Abbiamo avuto parole fino a strabiliare, per dire di quello che non era ancora stato, che non era stato mai pensato, e di esse non resta più neppure un relitto che ci salvi da questo nostro smemorarci, dall'assenza.
Ma forse è giusto così, Cassandra. E' giusto che ci resti soltanto un nome sradicato, un nome che non conosce nascita né morte, né la gloria che ebbe, se mai ne ebbe, o il vituperio di cui fu coperto, se fu vituperato.
Forse nacque da un brusìo il nostro nome, da un mormorìo, un singhiozzo lamentoso, dall'errore di un'eco, da un risuono.
Siamo una fantasia, tu dici, una finzione. Sì, anche questo forse, o questo solo. Ma la rassomiglianza tra la tua voce e l'angoscia che io sento nella voce di colui che si tiene allo stesso arbusto tuo mi dice che lo stesso sangue marchiò le vostre vite nel tempo quando voi viveste.
Si chiama Eleno, dice. Sul volto porta il segno dei traditori.
Sogna, se vuoi, Cassandra, sogna che il vento scompigli i tuoi capelli nella sera, che dentro gli occhi si accenda un desiderio, che sussurri t'illudano.
Sogna porte sicure e lune immense, le attese di albe nuove e stagioni nuove, vestiti di seta, sogna storie girandole cantilene, una mano che ti accarezza la fronte di febbre.
Cassandra, anche i re muoiono. Anche le figlie di re.
Si perdono lentamente, o all'improvviso; non importa. In silenzio, o urlando; non importa. Sembra che sfidino ogni morte. Poi si piegano, invece, come giunchi. Cambiano, si trasformano o rimangono intatti come se qualcuno si burlasse della loro carne, dei pensiero.
E scompaiono nello stesso modo in cui scompare uno schiavo, un mendicante. Nessun'arte di mago può salvarli, nessun sortilegio può dargli un altro giorno.
Sembravano immortali: più alti di muraglie di montagne, più superbi del deserto, misteriosi come figure dipinte sugli arazzi.
Sembravano dei. Sembravano. Ma avevano soltanto sognato di essere re, di essere figlie di re.
Cassandra, adesso sarà notte in qualche luogo: notte di naviganti tristi, di guerrieri che pregano che un dio li salvi anche domani.
Scendi in quella notte, rivelagli se ancora approderanno, se vedranno la fine di un'altra battaglia.
Adoreranno il tuo nome o lo malediranno. E tu vivrai per sempre, maledetta, adorata, senza essere vissuta mai davvero. Vai.
- Quant'è bello 'o tiatro! Non c'ero stata mai. Sembra un altro mondo, sembra tutto finto: quelle poltrone, quelle pitture, i tappeti. Pure voi sembrate finti, signo', sembrate impagliati.
Sarà che le vostre facce non le vedo con questa luce bianca che mi sfarfalla dint'a ll'uocchie.
Certo che così è più facile parlare. Quando però uno arriva e si siede di fronte a te col batticuore e tu devi dirgli che dice la sua mano, allora è diverso. Perché la sua mano suda e gli tremano le labbra e tu devi indovinare che cosa lui s'aspetta che tu dici.
Qui si vede il mestiere, signori, a questo punto: quando devi indovinare che si aspetta una creatura. So' tutti uguali: dottori professori femmene guagliune. So' tutti uguali. Hanno tutti 'na paura, un pensiero travagliato d'ammaretudene, di malinconia.
Quant'è bello 'o tiatro!
Mi hanno chiamata all'improvviso, mi hanno detto: tu sarai la voce verità del nostro dramma.
Io voce verità, signo', che dite? Sibilla, 'a parulara che legge la mano abbascio 'o puorto, voce verità? io che dico parole senza senso, leggere come 'o viento, pe' curiosità, pe' medicamento?
Devi dire che pensi che sia un indovino. Questo m'hanno chiesto. Non ve lo saccio dicere.
Ho sentito i due attori prima. Dicevano che è tutto fantasia, un suonno: 'o ricuordo, il passato, la vita. Un sogno.
Ma quando mai signo'! Questo è il teatro! Fuori però c'è 'o vero, amaro e doce: l'ammore, la miseria, l'allegria. E pure il sogno, come no; se resta tempo, per frastornare il vero, per scordarsi un poco del bisogno.
L'aruspeco, l'astrologo, la zingara, che sono? chi è l'indovino, che fa? Non vi so dire.
Io sono vecchia, e i tempi sono cambiati.
Una volta venivano per sapere se nasceva maschio o femmina, se tornava 'o ninno dalla prigionia.
Mo' fa un anno che venne una signora. Mi disse Sibi', tengo 'na criatura malata assai.
Mia madre diceva sempre: se c'è malattia non dire mai né no né sì. E' peccato grave.
Io le domandai: ditemi, che tiene? Tiene 'a peste Sibi', rispose lei. Comm' 'a peste, diss'io, come, che è? Tiene 'a peste del duemila. Dicono i dottori che non c'è rimedio.
Fate voto, signora, fate voto. Che altro potevo dire?
Com'è bello il teatro! Questo parlare soli soli, 'sta lusione, questa infelicità di scena, 'sta recita 'e parulari che si scordano d' 'a vita.
E che ci fa qua Sibilla 'a zingara, 'a magara, la voce verità? Io c'aggiu avuto solo voce 'e fantasia, parole come zagarelle, sonagliere, che v'aggio a dicere?
L'indovino, signori, è una voce di teatro, tale e quale a ll'attori di stasera. Dice fiore e sta pensando pietra; dice luce e invece pensa scuro; festa per lutto, fortuna per miseria. E parla per campare.
Questo è l'indovino: un gabbamunno.
Salute e denari signori.
Buonasera.

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