Quando
Alessandro Tomaso Arcudi di Galatina pubblicò, nel 1697, la sua
prima opera, aveva già superato la quarantina, ed era quindi
piuttosto avanti negli anni. S'intitolava: Miniera dell'argutezza scoperta
dal sig. Silvio Arcudi ed illustrata dal P. Alessandro Tomaso Arcudi,
suo pronipote, de' Predicatori ed era inserita nella Galleria di Minerva,
Tomo II, presso Girolamo Albrizzi, in Venezia, MDCXCVII, alle pp. 297-306.
Del suo bisavolo l'autore utilizzava "alcuni abozzi di questa vasta
materia, quasi affatto logorati e consunti non so dagli anni o dalla
trascuragine degli credi" (p. 297). E davvero c'è da credergli;
perché, tra l'altro, verso la fine dell'opera, vengono citati,
dei Tesauro, il Cannocchiale Aristotelico, che apparve nel 1654, ricordato
qui come strumento già ampiamente divulgato; e anche le "Lettere
missive", cioè Dell'arte e delle lettere missive, che videro
la luce vent'anni dopo; né il bisavolo poteva esserne a conoscenza.
Dunque, l'aggettivo illustrata del titolo non val quanto "annotata",
perché in effetti "miniera" e "illustrazione"
fan tutt'uno. La "vasta materia" è quella delle argutezze,
cioè dei mille modi di manipolare (spostando, anagrammando, aggiungendo,
togliendo ecc.) i nomi propri e le parole comuni, ricavandone impervii
e sorprendenti significati.
Nello stesso tomo della Galleria, subito dopo (a p. 306), l'Albrizzi
editore, in una nota dal titolo Anatomia degl'Ipocriti di Candido Malasorte
Ussaro, dà notizia di come "il vero autore di quest'opra
che si trova sotto il mio torchio, sia il P. Alessandro Tomaso Arcudi
dell'Ordine de' Predicatori", lo stesso, cioè, della Miniera;
e se ne deduce che l'Anatomia degl'Ipocriti era attesa con molta curiosità
("L'opra è di novella invenzione, piena d'erudizione sacra
e profana, copiosa di dottrine e di scritture..."), e che si era
in dubbio su chi ne fosse l'autore sotto la denominazione di "Candido
Malasorte Ussaro". In tal modo si spiega l'esatto e intero titolo
dell'opera, la seconda del nostro Arcudi: Anatomia degl'Ipocriti di
P. Alessandro Tomaso Arcudii da Galatina, pubblicata con lo pseudonimo
di Candido Malasorte Ussaro; la quale uscì appunto per i tipi
dello stesso Girolamo Albrizzi a Venezia, nel 1699, due anni dopo. Fin
da queste battute iniziali (editorialmente parlando, ché l'Arcudi
aveva già, come si è detto, più di quarant'anni)
colpisce la frequente tendenza dello scrittore a lamentarsi e a polemizzare,
suscitando il sospetto che soffrisse un po' di mania di persecuzione.
Nella Miniera delle argutezze: "lo, occupato continuamente da molti
ed affollati agitamenti..." (p. 297); "... Ed io, essendo
stato con incredibile e troppo orrido tradimento corrisposto da persona
che da me ricevuto aveva sommi favori e finezza di confidenze..."
(p. 302). E nella Nota sull'Anatomia, subito dopo, lo stampatore avverte
che nell'introduzione egli (cioè l'autore) ha voluto "far
le sue dovute proteste" (p. 306), ed è desideroso di dare
in luce suoi scritti: "Ma tien bisogno che gli desse pace l'invidia,
quiete la fortuna e tempo la morte" (ivi).
Ancor più evidente, in questo senso, ciò che si legge
a tutte lettere, fra l'altro, nell'introduzione dell'opera (pp. 9-10):
Se l'invidia avesse
fatto qualche pausa all'ire sue inviperite, averei dato da' primi
anni il compimento a diverse opre e snidate altre idee; ma necessitato
a scomponer libelli, non ho potuto componer libri a mio piacere. Intento
come Alessandro a scioglier nodi gordiani, non ho possuto legar volumi.
Deh, se finalmente corrispondesse il Cielo intenerito alla mia brama!
Deh, se sparissero annientati tutti gli nuvoloni sulfurei e tetri,
per comparire la serenità dei miei giorni!
Così scrive
l'Arcudi. E dunque la sua vocazione allo scrivere era di vecchia data,
con molti frutti racchiusi nel cassetto (sono puntualmente elencati
alla fine della Nota sull'Anatomia; anche il preannuncio del S. Atanasio
- ne parleremo più in là - col titolo più significativo
di Tutti contro uno); che i lavori manuali, ai quali da frate obbediente
aveva dovuto attendere, gli avevano impedito di completare quanto
aveva in corso di redazione; e che infine sulla sua vita continuavano
ad incombere "nuvoloni sulfurei e tetri", togliendole il
cielo sereno. Se anche si dovesse leggere in questa presa di posizione
un nucleo di scuse per il fatto che fino a 42 anni (era nato nel 1655)
non aveva ancora pubblicato nulla, tuttavia par innegabile la conferma
di un'autentica vocazione letteraria e un bisogno (e un proposito)
di protagonismo. Fatto sta che l'Anatomia degl'Ipocriti, nella sua
mole massiccia, nella sua struttura di ritmo esemplare ripetuto parallelamente
da principio alla fine, con i suoi indefettibili e inalienabili contenuti
di fede e di morale, con i suoi implacabili e aggressivi moti polemici,
e infine con la sua lingua e tecnica espressiva finalizzata al supremo
desiderio della più larga e convinta conquista sociale del
pubblico destinatario, è senz'ombra di dubbio più un
primo sicuro punto d'arrivo, una inossidabile sinergia, che un punto
di partenza. Si tratta, infatti, di un massiccio, interminabile trattato
di più di 800 pagine fittissime, tanto da mozzare la capacità
visiva. La struttura generale vuol essere congrua all'immagine del
titolo (Anatomia); talché l'ipocrisia viene distesa sul lettino
anatomico e sezionata in ogni sua parte. E allora i capitoli sono
chiamati "Membri" e assegnati via via alla faccia, al capo,
ai capelli ecc., e anche all'ombelico, alla pelle, ai visceri per
un totale di 18 "Membri". A sua volta ciascuno di questi
si suddivide in uno o più "Tagli" e alcuni ne hanno
ben 6 di "Tagli" insomma di sottocapitoli, con diversa intitolazione
ma rispondenti all'unico soggetto. Chiude infine l'opera un capitolo
finale, Frammenti di ritagli, una sorta, diciamo così, di frattaglie,
condite da un'infinità di citazioni e rinvii sacri e profani.
Risulta chiaro che insomma nell'opera si rispecchia già tutt'intera
una vita, in modo compatto e coerente spesa per il proprio ideale
di santità e condotta fra amarezze e delusioni, insofferenze
mordaci e inghiottite rassegnazioni, reazioni a malapena frenate ed
esplosioni d'indignazione. Pagina dopo pagina:
Da che ebbi l'uso
della ragione - così nell'Introduzione - son stato un affamato
parasito di libri; né ho stimato ricreazione alcuna saporosa
senza il condimento di qualche nuova lettura.
Ho molto abominato quelle persone, e massime ecclesiastiche e regolari,
che dovendo secondo il debito dell'ufficio sepelirsi nella ritiratezza
dell'operazioni e de' studi, consumano scioperatamente il tempo nelle
sessioni delle botteghe e delle porte, ne' circoli de' cortili, ne'
passeggi delle piazze, nelle visite di feminelle, lacerando l'altrui
fama, e la propria anima contaminando [ ... ] Sono però alcuni
così maligni, che oprano tutto al contrario: non cercano trovar
il buono in mezo al cattivo, ma il cattivo da mezo al buono van mendicando.
Dentro un giardino pieno di fiori van cercando l'ortiche, dentro un
piano verdegiante van spiando una spica di loglio. A me basta in un
campo di fieno trovare una spica di grano al mio appetito; e quando
niente ritrovarò, non manca altro ingegno che lo ritrovi (p.
9).
Veramente, una
sola spiga di grano al suo appetito non bastava affatto, tanti sono
i modi, i mezzi, gli espedienti tecnici, con i quali è intento
a colpire l'ipocrisia, suo bersaglio fisso. E non soltanto fra la
gente e il mondo circostante indistintamente, quanto, e ancor più,
proprio fra i chierici, i regolari, i confratelli ("io gli strapperò
la maschera e te la pongo in mano..."); né rifiuta una
sola delle armi a sua disposizione: quelle che impugnò Cristo
contro i Farisei nell'Evangelo; le Sacre Scritture tutte intere; le
opere dei Padri e dei Dottori della Chiesa; quelle della grande tradizione
filosofica cattolica (e in particolare - com'egli stesso precisa -
S. Agostino e S. Tommaso), e altre meno note e usate, ma forse anche
più concrete nello specifico; e ancora, infine, "gli adornamenti
delle etniche [pagane] erudizioni", poiché l'ipocrisia
non ha conosciuto confini di tempo. "E' tutta aliena la munizione
- si consentirà con l'autore -, ma propria l'industria e l'arte;
onde la fabrica è mia, non d'altri; alla mia mendicità
è stata offerta la suppellettile, ma l'artificio ed il lavoro
è opra delle proprie mani ed invenzione del proprio ingegno".
Ed era veramente una fabbrica mastodontica e virulenta.
Ora, la virulenza polemica generalmente ingenera simpatia in quelle
fasce sociali che non se ne sentono toccate, anzi gratificate; ma
quando è rivolta, come arma affilata e tagliente, contro coloro
che fanno parte dello stesso mondo cui appartiene il polemista e ne
detengono magari il potere, ingenera fastidi, insofferenze, ostilità
che possono, all'autore, rendere difficile la vita. E a lungo andare
il nostro Padre Arcudi, domenicano, ne pagherà, come vedremo,
il fio. Comunque, la prima edizione dell'opera recava - s'è
detto - il nome dell'autore a chiare lettere in esplicazione di un
anagramma complesso: quello di "Candido Malasorte Ussaro",
usato in avanscoperta. Ed è vero che quest'uso era diffuso
assai, e anche l'Arcudi vi ricorrerà ancora in altra forma;
ma nel caso specifico c'erano delle buone ragioni che il Galatinese
-probabilmente non dicendo tutta la verità, essendo ormai caduto
lo schermo - motivava in questo modo: l'ipocrisia opera sempre dietro
una maschera, ed io la combatterò mascherandomi anch'io; contro
gl'ipocriti sarò tutto "Candido", esponendomi di
conseguenza ad ogni "Malasorte", onde mi occorre la pazienza
di un "Ussaro", quella di Giobbe cioè, che fuit de
terra Hus (Giob., I, 1: "Vir erat in terra Hus, nomine Job, et
erat vir ille simplex, et rectus ac timens Deum").
Questo era Padre Alessandro Tomaso Arcudi, domenicano, dopo qualche
anno dai quaranta suonati. Da giovinetto era diventato chierico a
Galatina anche per espressa sollecitudine dell'Arcivescovo di Otranto,
il molto reverendo Monsignore Gabriele Adrazzo; ma, morto l'Arcivescovo,
e mortogli anche il padre, a 17 anni entrò nell'Ordine dei
Domenicani (1672), che gestivano appunto una casa colà. E certo
dovette far concepire subito ottime speranze di sé, dal momento
che fu mandato a studiare prima a Perugia e poi a Roma, conseguendo
i titoli di Lettore di filosofia, di teologia e di Predicatore generale
dell'Ordine. E maturarono subito i frutti. A Lecce nel 1680 esercitava
già il Lettorato di filosofia nel convento dell'Annunziata;
ma che salisse in fama, lo si deve ancor più, certamente, alla
sua predicazione impetuosa ed estuante (lo testimonieranno le pagine
delle sue Prediche quaresimali; Lecce, Mazzei, 1712), ad Andria, per
esempio, (1693) e a Spoleto (1697, Predicatore annuale). Tuttavia
fin quasi allo scorcio del secolo nulla di lui era comparso a stampa,
come s'è visto, anche se molte carte conservava già
nel cassetto. Si ha notizia di una sua Istoria della Terra di S. Pietro
in Galatina, probabilmente la sua prima prova in senso assoluto, dacché
è riferibile ai tempi della sua adolescenza (quando aveva,
pare, solo 17 anni); come si ha notizia di tre suoi "opuscoli"
(probabilmente dialoghi), che egli stesso direttamente ricorda: Della
fedeltà smarrita (in S. Atanasio, p. 2); Della felicità
de'Letterati (ivi, p. 3); La pietra lidia della virtù (ivi,
p. 4). Recentemente poi Michele Paone ha pubblicato, nell'"Archivio
Storico Pugliese", XXXVIII, gen.-dic. 1984, pp. 219-243, una
sua Relazione sui conventi domenicani salentini, che però egli
dimostra essere stata composta più tardi, fra il 1706 e il
1707. Anche in Orbis rectus (pubblicato postumo, nel 1719) è
ricordata La pietra lidia della virtù, con le seguenti parole:
"...et nos in Lapide lidio (aliud opus laboriosum autoris )..."
(p. 79).
Certo, l'esplosione editoriale di Padre Alessandro Tomaso Arcudi avvenne
nei primi due decenni del sec. XVIII; ed in essa è ben identificabile
un lancio, per così dire, galatinese, costituito da due opericciuole
simpatiche e attraenti. La prima è la seguente, nel suo titolo
intero: Galatina letterata. Opretta nella quale si rappresentano quarantaquattro
personaggi che hanno illustrato colle lettere la loro patria di S.
Pietro in Galatina; Del P. Fr. Alessandro Tomaso Arcudi de' Predicatori,
autore de "L'Anatomia degl'lpocriti" sotto nome anagrammatico
di Candido Malasorte Ussaro; in Genova, MDCCIX, nella Stamperia di
Giovan B attista Celle ( il Paone ci avverte che Genova è un
falso, e che bisogna leggere "Lecce"). Dunque, un legame
affettivo, principalmente, per l'amato luogo natio, e un sentimento
almeno in certa misura campanilistico. Sono 44 brevi biografie di
"illustri" galatinesi, fra i quali gli Arcudi naturalmente,
e poi i Vernaleone, i Mongiò, gli Zimara, nonché Francesco
Cavoti, Marcello Pepio, Ottavio Scalfo, Stefano Pendinelli, il famoso
arcivescovo d'Otranto al tempo dei Turchi, e altri. Non c'è
dubbio che queste opere erudite, che s'inquadrano appunto nella coeva
sensibilità "storica", siano oggi preziose per la
ricostruzione di minori aree culturali, anche se non sommamente eccellenti
per acribia critica. E naturalmente, non è che in questa sua
il fervido Alessandro Tomaso riesca a disvestirsi della sua connaturata
vis polemica. Fra l'altro, nell'introduzione mette subito le mani
avanti, per contestare sia coloro che ritenevano inopportuno comparissero,
fra i biografati, anche personaggi meritevoli soltanto per le loro
sante virtù, sia le polemiche sull'assenza di personaggi cari
ai famigliari viventi, i quali se li raffiguravano (dice sarcasticamente
l'Arcudi), "colossi al microscopio". E coglie anche l'occasione
per dare dell'ignorante a quel tale, che si era permesso di rimproverare
all'Arcudi di aver usato, nel titolo della sua opera maggiore, la
parola "Anatomia" invece della, secondo lui, più
corretta "Notomia" (e sì che l'Arcudi aveva ragioni
da vendere sul piano della dottrina storico-etimologica!). L'opera
suscitò, com'era prevedibile (certe cose non cambiano mai),
un autentico vespaio tra i letterati, specialmente tra gli "accademici"
galatinesi e salentini; e per l'Arcudi fu un vero invito a nozze.
Colpo su colpo rispose a tutti, e pubblicò le sue repliche
nell'altra opericciuola che così fu intitolata: Le due Galatine
difese; Il libro e la patria; In diversi opuscoli raccolti e dati
in luce dal signor Francesco Saverio Volante; in Genova (forse anche
qui una topica), MDCCXV, nella Stamperia di Giovan Battista Celle.
Questa volta lo pseudonimo di Francesco Saverio Volante non doveva
(e non poteva) nascondere proprio nulla; solo poteva servire all'autore,
in quanto gli avrebbe permesso di scrivere in terza persona, e contro
i malcapitati, ogni sorta d'improperi, per altro sempre ragionati.
E siccome su questa operetta c'è, mi pare, una qualche confusione
in chi se ne è interessato in precedenza, ritengo utile offrirne
qui un preciso ragguaglio. Essa si apre con due brevi note, una ai
"Discreti ed eruditi lettori", l'altra ai signori "Accademici
Risoluti di Galatina". Segue la parte più consistente
(pp. 17-116), nella quale, dopo una "Protesta dell'autore",
si legge la Ferola apologetica vibrata contro le calunnie ed imposture
ordite da alcuni Gallogreci al libro di "Galatina letterata"
e al suo autore. Ancora una Epistola responsiva al sig. Filareto Tirone
(pp. 117-140) su problemi di carattere linguistico (rapporti tra grafia
e pronunzia), che farebbe la grande gioia d'ogni linguista che volesse
studiare le estreme frange periferiche della questione della lingua
a cavallo dei secc. XVII e XVIII; e poi uno scritto su Pietro Galatino,
in vivace polemica (ci mancherebbe altro!) con Domenico De Angelis
per la sua biografia del Galatino entro le sue Vite; un altro contro
l'epigrammista Giovan Pietro Musarò; e infine la favola in
latino del Momus Philosophaster (Momo spedito da Giova in terra, ecc.),
che sembra il dotto epilogo simbolico di tanto spiccinìo. Non
si tratta certo di un capolavoro, né del capolavoro dell'Arcudi;
ma l'opera è davvero divertente, di lettura amenissima, e infine
autentico documento di attentissima attività letteraria periferica
e di straordinaria vivacità d'ingegno.
Si può pensare che gli anni intercorrenti tra la fine del sec.
XVII e il primo lustro del seguente siano stati tra i più felici
nella vita dell'Arcudi; o per lo meno tra i più fervidi e produttivi,
considerato che Il gli nuvoloni sulfurei e tetri" egli se li
andava cercando con quel suo carattere polemico e insofferente; e
scompariva così la serenità del suo cielo. Dopo un periodo
di priorato a Nardò allo scoccare del secolo, passò
a fare il Superiore nel convento di Galatina, dove la sua presenza
è anche attestata successivamente intorno al 1706 e ancora
intorno al 1709-1710. E siccome si ha notizia di una sua seconda dimora
ad Andria (1705) per predicarvi la Quaresima, se ne deduce che la
frequentazione galatinese - eccettuata qualche interruzione anche
piuttosto lunga - si protrasse nel tempo e fu, come il carattere stesso
dell'Arcudi, dinamica e anche un po' tumultuosa. Quando scrisse la
Relazione già ricordata (quella, per intenderci, pubblicata
dal Paone, del 1706-1707), egli era Superiore a Galatina, nel cui
convento si fa vanto d'aver istituito una "commoda libraria",
arricchitasi subito da quei "pochi libri gettati in una camera
piovosa" che c'erano prima. Si fa merito d'aver anche rinnovato
l'antica sacrestia, che "poco differiva da una grotta",
e ne aveva fatta "la più bella della provincia",
"per invenzione sua e con un bancone e stipi magnifici";
e d'aver curato nuovi altari, una croce d'argento, una bella pianeta
e altro ancora d'alto costo e di pregiatissimo valore. Immodesta magnificenza
delle proprie capacità. E aveva allora intrecciato quei rapporti
con i letterati galatinesi frequentatori di accademie, che poi condurranno
alla pubblicazione della Galatina letterata e alle polemiche annesse,
che furono verbali prima che scritte (lo si dichiara espressamente
nell'introduzione; e immaginiamoci la febbre, a Galatina!). Infine,
nel 1713 l'Arcudi funziona da Superiore nel convento dell'Annunziata,
a Lecce.
E' anche il tempo in cui egli può finalmente pubblicare le
sue Prediche Quaresimali, le quali, corredate del nome dell'autore
in chiare lettere, uscirono a Lecce nel 1712, nella Stamperia del
Mazzei. Qui il carattere polemico dell'Arcudi è destinato a
frenarsi e a placarsi; ma non certo il fervore della sua missione
di domenicano e del suo linguaggio. Se non altro, se la piglia con
l'editore ("Al cortese lettore"), che è venuto meno
all'obbligo delle correzioni e delle sostituzioni di due pagine da
lui assunto, onde era stato chiamato in tribunale ("Io ero stufo
tre anni continui di farmi sentire per questa causa ne' tribunali..."),
se non ci sia nella denuncia - ma pare alquanto improbabile - un gioco
simbolico o allegorico. Nelle prediche l'attacco aggressivo cede al
fervore delle convinzioni religiose, tutte tese a commuovere gli ascoltatori
verso propositi di moralità e di santità. Certo - e
siamo ai primi del Settecento - lo stile dell'Arcudi oratore bada
più alle cose che alle parole; e perciò non indulge
eccessivamente alle strutture barocche, tuttavia presenti, né
troppo alle perverse e immaginose modanature verbali tanto più
care, magari, a certi suoi compagni di missione. Gli basta farsi capire,
anche a colpi allitterativi, senza star li a badare più che
tanto alla purezza e alla proprietà linguistica. Il fine principale
della predicazione "dev'essere non il diletto, ma il profitto",
e precisamente quello "della volontà operante"; la
parola di Dio "non ha bisogno di fuci", perché insegna
"il bel vivere, non il ben parlare"; le cause celesti vanno
presentate con la "bassezza di stile" che permette a tutti
di toccare i misteri divini, e non "con la frase affettata del
Boccaccio, ma collo stile pungente de' Profeti" (pp. 5-6). E
bisogna ammettere che nelle prediche si tenta di metter bene in atto
questo "programma" ideologico, stilistico e linguistico.
D'altronde - e qui si apre un capitolo molto interessante - era da
molto che l'Arcudi meditava su questi problemi. Nell'Anatomia (1699),
considerato che non si può scrivere "a genio di tutti",
perché diversi sono gli umori, diverse le inclinazioni, diversi
i cervelli, egli si propone di scrivere solo "a genio suo "
, perché egli scrive "per insegnare la santità
dei vivere, non la beltà del parlare". E tante sono del
resto - egli lamenta - le regole della lingua, che proprio non si
sa quale osservare; e su una sillaba si questiona infinitamente; per
esempio sul suo stesso nome: Alessandro o Alesandro? Tomaso o Tommaso?
L'essenziale, dice, ècapirsi e tendere insieme alla ricerca
della verità, nella bontà del concettare e del vivere.
Il problema lo stimola nel profondo:
Ho perduto più
sonno e più cene, applicato sopra de' libri, per imparare cose
e non parole, dottrine e non vocaboli. Questi me gli dona l'uso e
la natura, quegli bisogna acquistarseli co' sudori e colla fatica.
Mi basta, per ispiegare gli miei concetti, una locuzione non barbara,
non inculta, e tale che le parole conduchino dolcemente alla cognizione
delle dottrine. Quindi mi avvaglio con indifferenza di alcune voci
e dialetti, e talvolta lascio correre la penna a scrivere or d'una
or d'altra maniera. Che importa lo scrivere laude o lode, Evangelio
o Evangelo, opera o opra, mistero o misterio ? Forse non m'intendi
il concetto, se non lo pronunzio con quelle voci che si confanno al
tuo umore? Quando uso una tale grammatica ed ortografia, sappi che
non lo faccio per ignoranza e perché non so quel che tu sai,
ma lo faccio per elezione! (Ferula apologetica delle Due Galatine
difese, p. 6 1).
Si poteva dir
meglio? E considerata la contrapposizione cose-parole, e l'equiparazione
lingua-dialetto, al fine della comunicazione, sarebbe permesso parlare
di pre-illuminismo linguistico? Lo so, lo so bene; molti arricceranno
il naso d'istinto, leggendo queste parole, e io stesso l'avrei di
certo arricciato d'impulso, se le vedessi scritte da chiunque altro.
C'è da riflettere. L'Arcudi è un frate domenicano, èanche
un predicatore; le nonne tridentine sono ancora lì a motivare
e giustificare e interpretare le prese di posizione di lui circa gli
scopi, i mezzi, gli effetti della predicazione. E aggiungerò
che l'Arcudi stesso si rifà a S. Agostino, espressamente citato
(p. 76):"... in verbis verum amare, non verba ...". Pure
il tema delle cose e non parole è talmente connaturato alla
poetica dell'Arcudi, da diventare ossessivo: "Non le cose per
i vocaboli, ma gli vocabuli per le cose diede agli uomini la Natura"
(p. 62); "non mi fermai a scrutinar le parole, ma a penetrar
i concetti ed imparar dottrine" (p. 64); il popolo "deve
imparare dottrine e non vocabuli, deve coltivare i costumi, non le
parole" (Epistola, p. 119); oggi chi professa eloquenza "par
che non pretende insegnar cose, ma parole" (p. 124); e via di
questo passo.
In realtà, la spinta è tale da travalicare i confini
segnati dalla ottica dell'edificazione religiosa mediante la predica.
Pensate a una qualsiasi pagina del conterraneo Giovanni Azzolini,
le cui Orazioni sacre sono poi del '63, e neanche tanto lontane dunque.
Ma l'Arcudi irride l'Accademico che biasimava un oratore "perché
aveva proferito prattica e non pratica; devozione e non divozione;
facenda e non faccenda; e che in tutta la sua diceria non mai proferito
quella gonfia e squillante parola, composta di più parole,
conciosiacosaché" (Le Due Galatine, p. 60; ricordate la
reazione dell'Alfieri?). E rimpiange il tempo perso in simili quisquilie
da parte di folte assise di Savi ("A tal gente voi donate il
nome di Savio!"), convinto che l'origine di sì misteriosi
e ridicoli problemi spesso sia del tutto casuale (refusi tipografici,
errori, e simili); il che di quei problemi contesta persino l'esistenza
e la legittimità, vuoti d'ogni necessità logica. E gli
viene naturale di scherzarci sù in modo divertente, fino a
proporre al lettore una "curiosa e ridicola lettera", scritta
"ad un amico affettatuccio", tutta giuocata sull'ambiguità
e sull'ambivalenza fonetico-semantica:
Avisai (o avvisai)
V. S. in quante (o in chente) facende (o faccende) trovasi (o truovasi)
la Città (o Cittade, o Cittate) per l'opra comica della Femmina
sepelita viva (o per l'opera commica della Femmina seppellita viva),
la qual si deve (o che si dee) rappresentare nel pubblico Palazzo
del Prencipe (o rapresentare nel publico Palagio del Principe, o Prence).
Poco fa, non è molto (o testé non è guari), che
fu spedita dal sagro Antiste (o spedita dal sacro Antistite, idest
dal Vescovo), la benigna licenza (o benegna licenzia), accioché
ivi sonasse la cedra (o acciocché ivi suonasse la cetera, o
citara, o cetra) Tomaso Angelo mio nipote (o Tommaso Angiolo mio nipote),
conciofossecosaché egli è clerico (o perché lui
è chierico, o cherico) ed istrutto nella fede Catolica (o instruito
nella fe' Cattolica) ... (p. 64-65);
e via così
giocolando piuttosto a lungo. E allora? Allora par del tutto evidente
che la presa di posizione linguistica dell'Arcudi non obbedisce alla
spinta della strumentazione della lingua (lessico, morfologia, sintassi)
ai fini del De propaganda fide, bensì costituisce carattere
chiaramente individuale di valore e significato storico, che s'appalesa
nuovo e singolare. Insomma l'Arcudi si batte a favore di una lingua
da lui chiamata ora "popolare", ora "naturale favella",
ora appaiata al dialetto, ma comunque sempre viva e spontanea e sorgiva,
e priva d'ogni affettazione:
A me piace di
seguir quell'idioma e quel dialetto che mi piacque fin da principio,
nel quale mi avvezzai fin dalla tenera età, ed è al
mio orecchio più consonante; né voglio soggettarmi di
nuovo, massime in questa età cadente, sotto la ferola pedantesca
di qualche Olibrio (p. 63).
Questo non significa
che l'Arcudi approvi "una locuzione barbara e rozza, inculta
ed incivile [
].
Mi nausea - egli specifica - non meno la barbarie che l'affettazione"
(Epistola, p. 130). Qui insomma non si tratta tanto di contestare
Crusca e Firenze, o di un inserimento cosciente nel quadro generale
d'un antilinguismo di comodo o di maniera; a me pare invece che esploda
la consapevolezza dell'inutilità buffa e anzi del danno grave
che reca ogni pedanteria strettamente formalistica (nel caso specifico,
grafico-fonetica; "l'età più matura consumasi in
queste ciance", p. 124); nel senso che l'insistita pedanteria
si risolve in assoluta perdita di tempo, in dissipazione vana ed insulsa
ai fini di quanto veramente importa: l'oggettiva verità della
cosa, la chiara e comprensibile formulazione del concetto, dell'idea,
d'ogni aspetto della dottrina. Così il periferico a me pare
che anticipi princìpi culturali e linguistici che, negli specifici
campi (della edificazione religiosa, della cultura laica), diverranno
presto generali vessilli di rinnovamento. E li anticipa nel 1715,
a Galatina.
A questo punto della vita di Alessandro Tomaso Arcudi si verifica
una violenta e dolorosa lacerazione, che è rimasta un po' misteriosa.
Nel 1715 egli stampa il suo S. Atanasio Magno ed Ammirabile; Idea
d'un sacro Eroe perseguitato da tutto il mondo ecc.; a Lecce, presso
il Chiriatti. L'opera, già preannunciata, come sappiamo fin
dal 1697 col titolo di Tutti contro uno, è di carattere acremente
autobiografico; il vero S. Atanasio perseguitato da tutto il mondo
è lui, l'autore, che in quel Grande interamente s'identifica.
E ben lo si ricava da una "Nota" introduttiva "Al benigno
lettore", nella quale l'Arcudi denuncia e lamenta d'essere stato
censurato ostilmente e ingiustamente da un poco di buono; il quale,
richiesto delle ragioni del suo gretto giudizio non sapeva rispondere
altro che Il questo essere il suo parere", rivelando "un
spirito così capriccioso che negarebbe eziandio al sole il
calore, il moto e la luce". L'Arcudi si ribella all'ipse dixit
(usa proprio, si noti bene, questa frase), anche se prende in esame,
e confuta poi, l'accusa più grave: quella dello scandalo conseguente
alle affermazioni contenute nella introduzione sulle dissensioni e
sull'ipocrita vita dei religiosi in genere. In realtà, nell'introduzione,
che è dedicata "Alla bell'anima del P. F. Domenico Rianà",
egli piange la morte di un sì caro (e certamente potente) amico,
anche perché gli ha tolto ogni pace e tranquillità:
"Oh quanti mastini rabbiosi cominciorno a latrare con fauci immonde,
e m'investirono con denti affilati, quando la Parca inesorabile sciolse
dal corpo la tua bell'anima!" (p. 1): e aggiunge: "Mi ho
specchiato singolarmente nella vita del Grande, del Massimo, dell'Immortale,
che tanto significa il nome di Atanasio: idea di tutti i perseguitati
del mondo..." ( p. 2). A proposito di toni graffianti, e d'autobiografismo.
Nella seconda parte del volume è posta l'Antiperistasi, cioè
l'apologia dell'opera atanasiana; e in essa, dopo considerazioni di
carattere generale, si ripetono, una dopo l'altra, le censure rivolte
al libro, e vengono, una dopo l'altra, confutate con violenza polemica
e talvolta diffamatoria. E' ben da notare, per stabilire i tempi della
faccenda, che il secondo frontespizio, quello dell'Antiperistasi,
reca la data del 1714, di contro al primo frontespizio, quello del
S. Atanasio, che reca invece la data del 1715 (ma la numerazione delle
pagine, lungo tutto il volume, è progressiva e non si interrompe
mai, con impaginatura sempre normale). Sicché i tempi sembrano
essere i seguenti: 1) manoscritto (composizione) dei S. Atanasio;
2) controllo del censore; 3) stesura dell'Antiperistasi e risposta
furiosamente polemica dell'Arcudi (il quale correda il S. Atanasio
delle note introduttive che bollano il censore); 4) stampa e pubblicazione
delle sue opere, con la composizione tipografica prima dell' Antiperistasi
e poi del S. Atanasio, in un volume che, nella sua definitiva rilegatura,
reca, con successione logica, prima le note introduttive, poi il S.
Atanasio, e infine l'Antiperistasi. Diciamo, tutto sommato, che per
un frate, e sia pure dell'Ordine dei Domenicani (Domini canes) la
violenta replica poteva essere la classica goccia che fa traboccare
il vaso della sopportazione. E il contestatore fu confinato nella
piccolissima, lontana (nel basso Salento) e molto isolata casa di
Andrano.
Una conferma la si cava dalla successiva opera a stampa dell'Arcudi,
da quell'Orbis rectus, che uscì postumo, per le cure del fratello
P. Antonio Arcudi, presso Oronzo Chiriatti, a Lecce, nel 1719. Ivi,
fra le molte lamentazioni per la propria sorte, si leggono (a p. 252)
le seguenti parole:
Quibus ergo Jeremiae
threnis deplorem quinquaginta amplius annorum exercitationes uno momento
amisisse? Quae parentalia ad tam tristia piacula expianda sufficerent?
[ ... ] Mihi dolorem tantae iniuriae non ferenti, sed tanquam ursae
raptis catulis (Ose. 13.8) occurrenti, hoc opus fons et origo totius
infortunii fuit ...
Il senso par abbastanza
chiaro. Lo scontro, ad un certo momento, dovette diventare personale
(col censore? col Superiore?); e il focoso Padre Arcudi dovette reagire
trapassando i limiti imposti non solo dal suo stato fratesco, ma dal
rapporto gerarchico e forse anche dalla buona educazione (" ...
tamquam ursae raptis catulis occurenti... "; alla buonora!).
L'origine di tutto resta però hoc opus: il S. Atanasio, sacro
eroe perseguitato da tutto il mondo nel mezzo dell'ariana perfidia.
Lui stesso, l'Arcudi, nel mezzo, ahimè, della perfidia domenicana.
E concludiamo ormai illustrando appunto l'Orbis rectus, che è
una sorta di epilogo, una specie di finale esame di coscienza della
vita dell'autore. Potrebbe essere considerato come un trattatello
sulla Divina Provvidenza, su basi e ispirazione agostiniane. Negli
otto libri dei quali consta l'opera, i primi sette tendono infatti
a dimostrare (ma si va sempre per via di exempla e di auctoritates)
come la Provvidenza governa comunque il mondo; e ogni forza più
o meno mitica le è soggetta: la Natura, la Sorte, il Caso,
la Fortuna, il Fato, il Voluntarium (che non è propriamente
la "volontà", altrimenti addio libertà; ma
piuttosto la capacità di opzione). Infine, invece, in una peroratio,
l'Arcudi si libera a parlare di sé in modo aperto e commosso:
"obliquum orbem a Providentia Divina rectum (onde il titolo di
Orbis rectus, appunto) demisse consideravi et pro viribus ad solamen
solicite descripsi" (p. 238). Ecco: egli ormai scrive per conforto
e per sollievo ("ad solamen haec caepi scribere non aliis, sed
mihi", p. 11; "ad solamen descripsi", p. 238), guardando
in retrospettiva l'intera sua vita. Direi che queste pagine della
peroratio sono fra le più belle e commosse del nostro Padre
Arcudi. Il quale completò l'opera il giorno "sexto Nonas
Julii, in die Visitationis B. Mariae Virginis, 1717" (il 2 luglio),
com'egli scrisse di suo pugno alla fine di essa. Morii l'anno successivo,
ad Andrano. Ed è un vero peccato che di un personaggio così
estroso e significativo, per tanta parte anche geniale e prematuro,
non appaia cenno alcuno nel pur generoso e mastodontico Dizionario
Biografico degli Italiani (dell'Enciclopedia Italiana). I tristi silenzi
della periferia.