§ Sud oggi

Mezzogiorno perduto




C.S.E.



Le gelate che hanno segnato l'inverno e la primavera italiana, pieni di freddo e di recessione, non hanno avuto origine soltanto meteorologiche. Sono venute da lontano. Sono il risultato di dieci anni di spensieratezza. Il vento della ripresa internazionale soffiava impetuoso e lambiva le coste della nostra penisola, ma gli amministratori dell'Azienda Italia badavano ad accumulare e a dissipare, non a mettere ordine nei conti pubblici o a "concertare" qualche brandello di politica dei redditi.
Le cronache finanziarie di casa nostra celebravano il cosiddetto "secondo miracolo economico" degli splendidi anni Ottanta, disegnavano scenari internazionali dominati dai quattro o cinque grandi condottieri del "made in Italy", le liste del collocamento si assottigliavano, tutti pronosticavano un futuro roseo da quarta o quinta potenza mondiale. I giudizi degli osservatori internazionali erano tra il sorpreso e lo stupefatto: i soliti italiani - dicevano -che sono capaci di risorgere proprio nel momento in cui li si dà per spacciati!
In realtà, le cose non stavano proprio così. Una parte cospicua della crescita dell'Azienda Italia avveniva in debito, alimentando una perversa spirale di disavanzi pubblici interni, al riparo di un terziario ricco e protetto, indipendente dalle variabili economiche del mercato.
E' vero che tanti capitani d'impresa, più i piccoli che i grandi, investivano in innovazioni, ammodernavano gli impianti e riorganizzavano le reti di vendita. Il sistema-Paese, però, nel suo complesso, non marciava al loro ritmo. L'inflazione passava da due a una cifra, ma restava nella fascia alta dei Paesi industrializzati. Il fabbisogno pubblico continuava ad aumentare anziché contrarsi e lo Stato si indebitava a costi crescenti con le famiglie italiane per far fronte ai suoi innumerevoli e spesso assistenziali bisogni. Gli automatismi salariali e gli ammortizzatori sociali vivevano la loro stagione più prospera. La qualità del debito italiano peggiorava, ma non aveva neppure la capacità di produrre ferrovie o aeroporti funzionali, ospedali efficienti, servizi moderni.
Il conto degli "splendidi" o "formidabili" anni Ottanta, il conto che l'Azienda Italia sta pagando, stretta dalle vistose difficoltà interne e dalla durissima guerra di posizione tra il rigore germanico e la sindrome americana da recessione, è molto salato. In questi dieci anni l'assetto produttivo dei sistema italiano, ma vogliamo dire soprattutto del sistema meridionale, (che è l'occhio di spia delle grandi debolezze del sistema-Paese), ha subìto metamorfosi significative. Prima di tutto è scomparso, in maniera strisciante, apparentemente indolore, tra un progetto di reindustrializzazione e l'altro, il protagonista dell'economia italiana del dopoguerra, quello che in seguito avrebbe dovuto far decollare l'industria e l'indotto nel Sud: l'impresa pubblica.
La crisi della siderurgia e della cantieristica, ma anche della chimica di base, ha determinato una serie di processi guidati dalle Partecipazioni Statali, in cui il ricorso alle provvidenze pubbliche è stato sistematico, ma ha avuto il solo scopo di alleviare il costo sociale di una non più procrastinabile politica di dismissioni e tagli. L'acciaieria di Bagnoli non esiste più, quella di Taranto dà lavoro a dodicimila persone soltanto. La chimica di Stato, concentrata al Sud, è quella meno innovativa e meno competitiva, assicura al momento un'occupazione di circa ventimila addetti distribuiti su ben quarantaquattro impianti, soprattutto compare poco e abbastanza male nei programmi futuri di investimenti.
La stessa Alenia, il colosso napoletano e meridionale dell'Iri, nato dal matrimonio tra l'Aeritalia e la Selenia, che opera nei settori dell'aerospazio, della difesa e dell'elettronica, vive una lunga stagione di ristrutturazione afflitta da problemi congiunturali (forniture militari) e da una dimensione internazionale troppo modesta nei comparti civili dell'aerospazio. Per il Centro-Sud, la previsione per il prossimo biennio è di una riduzione di mano d'opera di 2.400 addetti.
Il quadro non cambia di molto se la lente di osservazione si sposta sui grandi produttori privati. Dall'Olivetti alla Pirelli, fino alla Ferruzzi, la cura dimagrante nelle regioni meridionali ha seguito processi analoghi a quelli dell'impresa di Stato, né si intravedono all'orizzonte programmi di investimento di lungo periodo. Olivetti e Pirelli sono alle prese con problemi di sopravvivenza e dovranno inevitabilmente ridurre impegno e partecipazione in una serie di attività ritenute non strategiche concentrate per la massima parte nelle regioni meridionali. Il gruppo Ferruzzi, dopo l'uscita da Enimont, dà lavoro al Sud a poco più di 1.500 persone. Quanto valgono, cioè, messe insieme, due medie imprese private meridionali.
Unica positiva eccezione, in un panorama industriale di generale difficoltà e disimpegno dei grandi produttori, è la Fiat. La multinazionale di Corso Marconi non soltanto ha rilevato dall'Iri l'ex Alfasud e l'ha trasformata da fabbrica colabrodo in azienda modello, ma si appresta a spostare a Melfi, in Basilicata, il baricentro delle proprie attività produttive. Già oggi, d'altro canto, tra auto, componentistica e diversificate, la Fiat occupa circa cinquantamila persone e rappresenta in assoluto la prima impresa del Mezzogiorno.
Le novità più rilevanti, però, sono altre: nonostante le notissime difficoltà del sistema-Paese, una serie di diseconomie che nelle regioni meridionali si elevano al cubo, c'è un tessuto di piccole e medie aziende che ha saputo crescere e svilupparsi silenziosamente proprio nel corso dei "formidabili anni Ottanta". Certo, queste imprese non hanno già vinto la loro battaglia europea, ma sono in gara, si ritagliano e presidiano quote di mercato significative. La vera speranza del sistema produttivo meridionale sono aziende medie, di dimensione internazionale, come quelle sviluppatesi negli ultimi anni in varie regioni.
Un segnale di grande combattività imprenditoriale viene, poi, da poli settoriali come quelli del Frusinate, abruzzesi e molisani, e soprattutto pugliesi. Infine, segnali più che incoraggianti vengono dalla promozione dell'imprenditorialità giovanile, con previsioni di nuova forza-lavoro intorno a quindicimila addetti. Le 350 aziende di questo tipo attualmente in funzione occupano seimila persone.
Forse è questa, depurata dagli avventurismi e dai profitti eventualmente illeciti che pure vanno messi nel conto, la via migliore per superare i vuoti lasciati anno dopo anno dalle imprese pubbliche nelle regioni meridionali e per affrontare la crescente domanda di lavoro nel Sud.

Politiche regionali

Vent'anni di occasioni mancate

Quando furono istituite, circa ventidue anni fa, le Regioni suscitarono molte speranze in chi riteneva necessario un rinnovamento del vecchio apparato burocratico dello Stato accentrato e puntava su un ente agile e snello capace di
guidare la politica di programmazione nelle secche di una struttura economica diviso tra un'imprenditoria privata ancora legata a schemi antiquati e un capitalismo di Stato teso più all'assistenzialismo che allo sviluppo. E invece, le Regioni sono venute meno alle attese di rinnovamento sia sotto il profilo politico-legislativo sia sotto quello economico: territoriale.
Un Rapporto sul decennio 1980-1990 mostra con chiarezza i gravi ritardi e le sfasature verificatesi nelle regioni meridionali e soprattutto evidenzia come allo fuga del capitale Pubblico si sia sostituito solo in minima parte il capitale privato.
Una costante del decennio trascorso e che trova riscontra anche in tutto il 1991 è rappresentato per tutte le regioni meridionali, in particolar modo per quelle di più consolidata industrializzazione, come la Campania e la Puglia, dal ripiegamento delle Partecipazioni Statali, ripiegamento che si è riflesso soprattutto sui livelli dell'occupazione. Uniche regioni in controtendenza. l'Abruzzo e il Molise che, insieme ad alcune province pugliesi, danno conto della sostanziale tenuto dei "modello adriatico di sviluppo", basato sulla crescita dell'imprenditoria locale.
Ouesta mancata crescita economica, che si è riflessa nell'accentuazione degli squilibri territoriali, trova puntuale riscontro anche nella crisi politico-istituzionale dell'Ente Regione. In altri termini, le Regioni abilitate sostanzialmente solo a distribuire sul territorio interventi finanziari decisi a livello nazionale hanno finito per svolgere un ruolo accessorio, incentrato sostanzialmente nell'erogazione di spese. In pratica, è venuta rafforzandosi da una parte la tendenza a fare del livello regionale un momento di ratifica e di legittimazione di scelte già fatte e da gestire localmente per la parte di rispettiva competenza territoriale; dall'altra, di fare delle regioni la cassa di risonanza e il collettore di aspettative e di rivendicazioni meramente localistiche.
E' mancata praticamente a livello regionale quella politica di programmazione che avrebbe dovuto garantire il supporto normativo alle strategie di sviluppo economico da perseguire nel Mezzogiorno nella fase di passaggio dall'economia protetta dell'intervento straordinario e guidata in prevalenza dal capitale pubblico a quella promossa dai privati nel quadro della logica del mercato. L'assenza in quasi tutte le regioni meridionali di validi strumenti di programmazione si è riflessa sull'apparato produttivo, che si è mosso - come è stato validamente documentato in più occasioni - secondo la logica dell'episodicità.
Il venir meno dei tradizionali soggetti istituzionali della politica d'intervento nel Mezzogiorno (la Cassa per il Mezzogiorno e il suo prossimo surrogato, l'Agensud) negli anni successivi al 1986, la "fuga" delle imprese pubbliche e il mancato funzionamento delle Regioni hanno condizionato la crescita di un apparato produttivo più moderno sganciato dalla logica dell'assistenzialismo. In tale contesta, alla programmazione, vista non soltanto come obiettivo, ma soprattutto come metodo di gestione politico-amministrativa, è affidato un ruolo significativo. Non basta cioè garantire investimenti all'interno dell'area meridionale; occorre individuare le priorità settoriali e territoriali e recuperare un nuovo modello di attività e di organizzazione da contrapporre alla tradizionale tipologia dell'intervento pubblico nell'economia.


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