§ Economia & occupazione

Un disastro annunciato




Maria Rosaria Pascali



1 - Un'epoca di aspettative al ribasso.
A detta di Paul Krugman, noto economista di Chicago, la classe media americana sembra ormai in preda ad un virus: l'avvento di un'epoca di aspettative al ribasso, in cui l'unica vera preoccupazione è quella di ridurre il debito pubblico e l'inflazione. In cui nessuno si sogna più di chiedere un aumento delle possibilità di lavoro, una redistribuzione meno iniqua della ricchezza, un aumento del reddito reale, il cui livello è fermo dal 1978.
Anche in Italia sta accadendo la stessa cosa. inflazione e debito pubblico sono le maggiori preoccupazioni del nostro Paese, che deve fare i conti, nell'immediato, con la politica monetaria tedesca, nel futuro, neppure tanto remoto, con l'impegno solenne preso a Maastricht di contenere il deficit annuo al 3% del Pil e di riportare il debito pubblico ad un livello non superiore al 60%.
E così, anche in Italia la gente si rassegna e attende il momento in cui queste aspettative al ribasso si saranno avverate per poter avanzare qualche altra pretesa. Secondo Krugman, "se ci fosse giustizia... il popolo insorgerebbe e caccerebbe i colpevoli. Ma naturalmente non c'è giustizia... E' non solo possibile, ma addirittura probabile, che disavanzi di bilancio più o meno del livello attuale continuino per il resto del secolo ......
Parole queste che valgono solo per l'economia americana?
Probabilmente no. Ma in Italia, si replica, non si può più temporeggiare, non foss'altro perché esistono precisi impegni con l'Europa.
Certo, qualche dubbio potrebbe sorgere, se si considera che i nostri governi hanno disatteso puntualmente ogni impegno di bilancio da molti anni a questa parte. Che l'Europa faccia veramente paura? Meglio diffidare e guardare le cifre.
La Finanziaria per il '91 conteneva previsioni cupe: in assenza di interventi, il fabbisogno tendenziale avrebbe superato le entrate di 180.000 miliardi. L'obiettivo del governo era quello di ridurre tale fabbisogno a 132.000 miliardi. Ma a marzo esso tendeva già a 190.000. A maggio, imprese e autonomi disertavano l'appuntamento con il fisco, dichiarando redditi del tutto irrisori. Sarà stata pure colpa della recessione, come si è detto, ma intanto il fatidico "tendenziale" raggiungeva i 199.000 miliardi. Non restava altro che recuperare parte di quel fabbisogno dagli anni a venire, ossia dal '92, attraverso l'aumento dell'acconto Irpef e Ilor, e dal '93, attraverso l'anticipazione dell'Invim decennale. Da queste tre manovre si è riusciti a ridurre il deficit di 57.000 miliardi, (due terzi dei quali vanno alla c.d. "componente temporanea"). Ma il tetto dei 132.000 viene comunque ampiamente sfondato. E il 191 si chiude con un deficit di 152.000 miliardi.
Anche il '92 sembra intriso di voglia di risanamento. Diciamo sembra sia per la scarsa affidabilità che, di fronte ai risultati concreti, hanno dimostrato di avere le previsioni o, meglio, gli intenti ufficiali e sia perché, nei primi quattro mesi dell'anno, i nostri politici sono stati molto più attenti a riconquistare la propria egemonia, rimpiazzando di promesse gli elettori, che a mettere veramente in ordine i conti pubblici. In ogni caso, le manovre previste nella finanziaria del '92 non si discostano dalla linea seguita nel '91. Per lo più si tratta di manovre contingenti (condono, dismissioni, rivalutazioni dei beni delle imprese), che non lasceranno alcuna traccia nel futuro. Sui loro risultati in termini di riduzione del debito pubblico aleggiano numerosi dubbi. Ma si spera molto nel '93. Secondo gli economisti, infatti, la finanziaria del '93 sarà quella della verità, quanto meno perché non sarà più possibile rinviare negli anni a seguire il fatidico risanamento, con il rischio di essere esclusi in via definitiva dall'unione monetaria. Cerchiamo a questo punto di delineare i possibili scenari. Il primo si basa sull'ipotesi più realistica, e cioé che la manovra del '92 non vada pienamente a buon fine e che, quindi, non siano raggiunti tutti gli obiettivi da essa previsti. In questa prospettiva, il fabbisogno del '93 si aggirerebbe intorno ai 200.000 miliardi di lire, analogo a quello che era stato calcolato lo scorso maggio, prima delle manovre escogitate nella seconda metà del '91.
L'altro scenario, a prima vista più roseo, è redatto dall'Ispe, l'Istituto di studi per la ricerca economica. L'ipotesi di partenza, opposta a quella da noi avanzata, è che la manovra del '92 raggiunga tutti i suoi obiettivi, anche quelli più problematici, come il condono, la dismissione dei beni pubblici e, soprattutto, il blocco dei salari all'inflazione programmata.
In realtà, è sul raggiungimento di quest'ultimo obiettivo che si basa il risultato finale di questa esercitazione econometrica. Il blocco dei salari, infatti, consentirebbe di mantenere basso il livello di inflazione, come pure l'andamento dei tassi e della spesa per interessi sul debito pubblico.
Ma anche prendendo per buone e realizzabili queste premesse, sarebbero risolti tutti i nostri problemi con l'Europa? Riteniamo di no. Sarà bene, infatti, ricordare le preziose regole d'ingresso all'unione europea definite nel vertice del dicembre '91.
Alcune le abbiamo già citate: un deficit statale non superiore al 3% del Pil e un debito pubblico inferiore al 60%. Le altre sono: un'inflazione che non superi di 1,5 punti percentuali la media dei Paesi più stabili e tassi di interesse a lungo termine che non superino più di due punti la media registrata in quegli stessi Paesi.
Ma allora basta guardare le stesse cifre elaborate dall'Ispe per accorgerci che, pur verificandosi le ipotesi di partenza, il nostro Paese sarebbe sempre troppo lontano dagli obiettivi di convergenza indicati a Maastricht. Senza ulteriori manovre, ci troveremmo comunque con un deficit pubblico che oltrepassa i 162.000 miliardi di lire, contro il limite comunitario di 48,7.
In rapporto al Pil, tale deficit si assesterebbe sul 10%, molto al di sopra di quel 3% richiesto per entrare a far parte dell'unione europea. Risultato: un debito pubblico pari a un milione 755 mila miliardi di lire, pari cioè al 107,5% del Pil. Gli interessi medi sui Bot salirebbero all'11,4%, anch'essi fuori dal margine di tolleranza del 10,1%. L'unico risultato positivo sarebbe in definitiva quello relativo all'inflazione, che scenderebbe al 4,4%, al di sotto quindi della soglia del 4,6% risultante dagli impegni di Maastricht.
Considerando che per ottenere questi scarsi risultati si è ipotizzata la piena realizzazione della manovra del '92, è chiaro che questo scenario non si differenzia sostanzialmente dal primo, ma finisce per confermare la situazione veramente catastrofica in cui versa il nostro Paese. D'altro canto, la realtà contraddice tutte le più rosee previsioni sul contenimento del deficit che, per rientrare nei limiti, dovrebbe subire tagli pari a 755 mila miliardi, i due terzi del deficit stesso. Un obiettivo comunque irrealizzabile in breve tempo. Ne è cosciente anche l'Europa. Tanto che nell'accordo di Maastricht si èspecificato che la Comunità potrebbe consentire all'Italia di aderire all'unione monetaria se solo riuscirà a dimostrare di aver imboccato la strada della convergenza.
Per far questo, secondo l'Ispe, il primo passo da compiere è quello che i tecnici chiamano dell'invarianza del debito pubblico rispetto al Pil. Ciò significa bloccare l'aumento di questo rapporto, impedendo che la crescita del debito superi il livello dell'inflazione. Il secondo passo sarebbe quello di abbassare progressivamente questo rapporto.
L'Ispe ipotizza che, per il '93 e per il '94, sia messa in atto una manovra che tenda a trasformare il deficit primario, al netto cioè della spesa per interessi, in un attivo che compensi almeno in parte quella spesa. Senza ovviamente strangolare l'economia, per le inevitabili ripercussioni che altrimenti si avrebbero sia sulle entrate fiscali, e quindi sull'obiettivo di contenimento del deficit primario, sia sui tassi, che in tal modo aumenterebbero assieme alla spesa per interessi. Questa manovra dovrebbe consentire di recuperare, nel '93 circa 27.000 miliardi, nel '94, 47.700.
Così facendo, nel '93 il debito pubblico salirebbe a 1 milione 704 mila miliardi di lire, ossia al 105,4% del Pil. Il fabbisogno del Tesoro si attesterebbe su 121.400 miliardi, pari al 7,5% del Pil. Nel '94, il debito crescerebbe a 1 milione 812mila miliardi, ma nei confronti del Pil resterebbe fermo a 105,4%. Sarebbe quindi solo un aumento di valore nominale. Mentre il deficit scenderebbe a 104.200 miliardi, quindi al 6,1% del Pil, avvicinandosi sempre più al massimale comunitario.
E senza accorgercene siamo entrati in un altro scenario, quello dell'"eurocostrizione", in cui è data priorità assoluta al risanamento dei conti pubblici. Il governo, se ci riuscirà, potrà ritenersi più che soddisfatto. Qualche problema lo avranno ancora una volta i cittadini, sui quali si abbatterà una nuova e dura raffica di stangate.
Ma tant'è. Se ci fosse giustizia, forse...
Sì, forse potremmo delineare un altro scenario. Quello in cui un popolo insorge e caccia via i colpevoli. Ma naturalmente, come dice Krugman, non c'è giustizia. E a pagare sarà invece la gente comune, vittima sacrificale di un sistema ridotto a un colabrodo.

2 - Pericolo di deindustrializzazione.
Tra baruffe politiche e crisi istituzionali, come va l'industria nel nostro Paese?
Anche su questo argomento la confusione è di casa. Gli imprenditori gridano alla catastrofe e propongono un "governo degli industriali". Ma dal Palazzo giungono voci rassicuranti. Catastrofe non è. Il sistema produttivo regge. Gli imprenditori facciano il proprio mestiere, facciano andare meglio le proprie aziende. La politica è tutt'altra cosa. Se poi crisi c'è, è così a livello internazionale. L'Italia non è certo un caso a parte.


Il dissidio potrebbe sembrare insanabile, se a volte i ruoli non si intersecassero o, addirittura, non si scambiassero. Così, politici assumono posizioni dirigenziali nell'industria. Industriali vengono eletti in Parlamento, diventando veri e propri politici. Il tutto farebbe pensare alla possibilità di una maggiore comprensione, da parte dei politici neo-imprenditori, dei problemi dell'industria e, da parte degli industriali, divenuti politici, dei guai megagalattici in cui versano i nostri governanti. In privato ci si potrebbe scambiare qualche scusa. Ci si potrebbe mettere d'accordo per un contemperamento di interessi. Ma c'è un'altra possibilità. Che così facendo, si perdano di vista le questioni vere, il Paese, la sua economia, la sua gente, i lavoratori.
La crisi comunque c'è. E si vede. I più pessimisti parlano di pericolo di deindustrializzazione. L'apparato produttivo non è più in grado di mantenere e, ancor meno, di conquistare quote di mercato. I successi costruiti sulla flessibilità, sull'innovazione, sulla scelta dei cosiddetti "mercati nicchia" appaiono difficilmente ripetibili. Il made in Italy è incapace di sfornare prodotti nuovi. Tutto il nuovo, dai telefoni cellulari agli apparecchi sanitari, viene dall'estero.
La minore competitività non può più neppure essere bilanciata col ricorso a svalutazioni periodiche, a causa dell'ingresso italiano nella fascia stretta dello SME e dell'avvio del processo di unificazione monetaria europea. L'inflazione sia pure in ribasso supera di 3 o 4 punti quella dei nostri principali partners comunitari. I settori ad alta tecnologia perdono sempre più posizioni. Qui il divario rispetto ai concorrenti esteri è notevole, a causa della debolezza nella ricerca e nell'innovazione. Una ricerca a cui il nostro Paese destina solo l'1,3% del Pil e che è concentrata per metà solo in cinque fra le imprese nazionali di maggiori dimensioni. Le piccole e medie imprese restano invece ai margini del processo innovativo.
Lo scorso anno Agnelli ammoniva: "di questo passo il problema non sarà più il costo, ma il posto di lavoro". E oggi le fabbriche licenziano o chiudono i battenti, come la Fiat di Chivasso. Cassa integrazione e prepensionamento non bastano più a compensare la perdita (definitiva) del posto di lavoro. Anche il terziario, importantissimo settore-spugna per lavoratori eccedenti, mostra segni di rallentamento. Servono nuovi ammortizzatori sociali.
Quello che stiamo descrivendo non è uno scenario orwelliano. E' un sistema che sta scricchiolando e che rischia di sgretolarsi tra i toni pacati dei dibattiti di palazzo. Attribuire sempre e comunque i mali del nostro Paese ad effetti congiunturali, quindi transitori, significa ancora una volta sviare l'attenzione dal nodo centrale di una crisi che è tutta italiana.


Il fantasma della recessione fa paura. Ma in Italia c'è dell'altro. C'è il concorso dei fattori strutturali che indeboliscono l'apparato produttivo e che richiedono una seria politica di rinnovamento generale. E' chiaro ormai che le imprese si trovano di fronte ad una carenza globale di capitali. Eppure l'Italia non è un Paese povero. La gente risparmia più di quanto non accade in nazioni che vanno meglio di noi. Ma sono risorse che, a causa della politica degli alti tassi di interesse, vengono incanalate verso la copertura di un debito pubblico di proporzioni gigantesche. Un circolo vizioso che impedisce a quella ricchezza di raggiungere gli impieghi produttivi e che, nel contempo, fa aumentare a dismisura il costo del denaro, con ulteriore penalizzazione del sistema produttivo.
E' vero. Non è ancora un disastro. Ma se disastro ci sarà, mai sarà stato così annunciato. La preoccupazione maggiore serpeggia a Nord. E' qui che si verificano fenomeni inediti. Nell'industria metalmeccanica si respira il clima della fine degli anni '70.


A Desio, in provincia di Milano, chiude l'Autobianchi, la fabbrica che aveva fatto sorgere la città. La Fiat riduce i ritmi produttivi e produce crisi su tutto l'indotto. Nella provincia di Torino si toccano cifre record di cassa integrazione. L'Olivetti di Ivrea, dopo aver già eliminato ben 5 mila dipendenti, è costretta ad espellerne altri.
La Liguria e in particolare Genova devono fronteggiare gli esuberi connessi alla cantieristica e alle produzioni militari. Il Veneto e il Friuli cessano di essere il simbolo della piena occupazione. A Vicenza barcolla anche il settore degli orafi, considerato inattaccabile fino a poco tempo fa.
Tutto ciò, secondo Giuseppe De Rita, farà aumentare il rancore che già serpeggia al Nord e che trova espressione politica nelle Leghe.
In questo contesto, la colpa del Sud è quella di essere l'area più assistita del Paese, in cui si genera sostanzialmente tutto il debito pubblico italiano. E nonostante ciò, essa continua ad essere anche l'area più arretrata. In realtà, il degrado economico del Mezzogiorno non è altro che l'effetto più lampante e perverso del circolo vizioso innescato nella nostra società. Un circolo che privilegia l'afflusso di risorse al settore pubblico, alle attività e ai servizi assistiti, ai cosiddetti "ceti protetti". Un circolo che ha alimentato la sperequazione, favorito la corruzione e operato una temibile saldatura tra economia assistita ed economia criminale.
Ma la colpa del Sud è anche quella di essere diventato terra fertile di conquista per le fabbriche del Nord. Eppure non si scende al Sud perché si ha voglia di sottrarre quell'area dall'arretratezza e dagli artigli mafiosi, come dovrebbe essere in presenza di una seria politica industriale. Si scende al Sud perché c'è arretratezza, quindi le condizioni migliori per sfruttare i lavoratori, imponendo loro ritmi produttivi disumani. Esempio emblematico è quello di Desio, dove la Fiat produce Panda e dove lo stabilimento è destinato a chiudere perché i futuri modelli saranno prodotti a Melfi, in Basilicata. Qui, in nome della mobilità, si violano i più elementari diritti dell'uomo, imponendo il lavoro notturno anche alle donne.
A pensarci bene, è proprio colpa del Sud?

3 - Gap tecnologico: i mali della ricerca.
Negli anni '80, gli imprenditori italiani prendevano d'assalto i mercati internazionali ed erano riconosciuti con l'appellativo di "nuovi conquistatori". Dopo il primo e il secondo shock petrolifero, infatti, era stato portato a termine un grande processo di ristrutturazione, con massicci investimenti in automazione, innovazioni di processo e recuperi di produttività secondi solo a quelli giapponesi.
Oggi di quei conquistatori resta ben poco. L'era del "made in Italy" sembra ormai tramontata. Diminuiscono le invenzioni. Anche la loro qualità risulta inferiore a quella dei giapponesi e degli americani. E' quanto ci dicono le cifre. Dal 1990, l'Italia occupa l'ultimo posto tra i Paesi più avanzati che hanno proceduto a difendere le proprie innovazioni: 2.200 richieste di brevetto, rispetto alle 3.744 della Gran Bretagna, alle 4.900 della Francia e alle 12.605 della Germania. Anche la Svizzera ci ha superato, segno evidente della nostra inversione di rotta. Anche per quanto concerne la qualità delle nostre invenzioni, prendendo come indicatore della validità innovativa il numero medio di citazioni ricevute da ciascun brevetto, i risultati non sono brillanti: tale numero è molto inferiore a quello che si riscontra per i brevetti dei Paesi nostri concorrenti.
Altri segnali negativi giungono dal lato dell'export. Da un'analisi condotta dal Cer, risulta che il rapporto tra specializzazione tecnologica e specializzazione delle nostre esportazioni è molto basso. Esiste cioè solo una debole correlazione tra i settori a forte esportazione e i settori a maggiore forza tecnologica.
L'attività innovativa è concentrata soprattutto nei settori declinanti, ossia in quei comparti dove il numero di invenzioni brevettate tende a diminuire progressivamente nel tempo. I punti di forza tecnologica coincidono, infatti, con i settori tradizionali, quali il tessile, l'abbigliamento e le calzature. La sola eccezione è rappresentata dal comparto delle macchine per l'industria, l'unico vero baluardo dell'high-tech italiano.

Questa specializzazione tecnologica, limitata solo ai settori declinanti e a pochi prodotti, non fa che aumentare la nostra debolezza rispetto alla concorrenza estera, sia essa proveniente da Paesi tecnologicamente all'avanguardia, come il Giappone, o da Paesi in via di sviluppo. Più precisamente, secondo il Cer "l'Italia rischia di presentarsi sui mercati internazionali con gli stessi prodotti offerti dai Paesi in via di sviluppo che operano con costi molto più bassi. Inoltre potrebbe perdere le poche posizioni di vantaggio che detiene nei comparti ad alta tecnologia".

Infatti, "avere i propri punti di forza in settori cosiddetti tradizionali non è un male in sé. E' vero tuttavia che la possibilità di aggiornare sempre queste produzioni si riduce con il passare del tempo". Il problema, quindi, è di evitare che la domanda decrescente di tecnologie e innovazioni che i settori tradizionali rivolgono ai comparti high-tech, anziché essere compensata dalla domanda proveniente da altri settori oggi con scarsa forza innovativa, come quello dell'elettronica o quello delle telecomunicazioni, resti invece l'unica in campo, a conferma della progressiva marginalizzazione tecnologica del sistema industriale italiano.
Ancora una volta, sono le cifre a rivelare che la tendenza attuale è proprio nel senso di un complessivo deterioramento della nostra forza tecnologica: tra il '70 e il '74 erano solo cinque i rami industriali caratterizzati da uno scarso livello tecnologico; tra 1184 e 1187 il loro numero era aumentato a nove.
Nel 1988, il governo italiano ha destinato solo l'1,1% del Pil in attività di ricerca, contro il 2,8% di Germania e Giappone, il 2,7% degli Stati Uniti, il 2,3% di Francia e Gran Bretagna.
Il disinteresse del governo italiano verso questo problema è notevole. Mentre Paesi come gli Stati Uniti e il Giappone si stanno preparando ad affrontare la concorrenza globale investendo in nuovi centri di ricerca all'interno e all'estero, in Italia si dimezzano i fondi pubblici per la ricerca applicata e si continua a fare a meno della politica industriale. Non esistono criteri nell'assegnazione di fondi alle imprese. Non esiste selezione. Non esiste, appunto, una politica industriale che individui gli obiettivi da perseguire e i progetti da finanziare.
A ciò si aggiunge la svogliatezza e la scarsa propensione al rinnovamento tecnologico dei nostri imprenditori. Tra il '79 e 1187 la spesa delle imprese in attività di ricerca è cresciuta dallo 0,51% allo 0,84%, meno di quanto è cresciuta la spesa che lo Stato ha destinato a questo settore. La spesa pubblica, cioè, è divenuta sostitutiva e non aggiuntiva della spesa sostenuta dai privati nella ricerca.
Secondo gli imprenditori la colpa resta pur sempre dello Stato che non ha offerto incentivi adeguati a rendere meno costosa questa attività: primo fra tutti, la detassazione degli utili destinati alla ricerca.

 

La validità di questa critica non può, comunque, cancellare le colpe di una classe imprenditoriale da sempre restìa a modificare in senso innovativo la propria mentalità e a considerare la ricerca per quello che veramente è: come, cioè, un fattore strategico di sviluppo dell'impresa.

4 - I problemi della piccola impresa.
La recessione, fin nei suoi primi sintomi, ha riportato a galla vecchi problemi mai risolti. Tra questi, la preoccupante situazione in cui versano le piccole e le medie imprese italiane, oggi impegnate in una dura lotta per la sopravvivenza. Il rischio di essere escluse dal mercato è infatti destinato ad aggravarsi a causa delle nuove regole del gioco imposte dai gruppi oligopolistici internazionali e della competizione sempre più agguerrita proveniente dai Paesi dell'Est europeo.

 

Dicevamo che si tratta di un problema vecchio e mai risolto. In effetti, lo sviluppo di questo tipo di struttura industriale ha sempre incontrato numerosi limiti, anche nel periodo di sua massima espansione, caratterizzato dallo slogan "piccolo è bello". In quel periodo, una fitta rete di micro-aziende, altamente dinamiche, proliferò e compensò la crisi in cui si erano imbattute le imprese di grandi dimensioni, più rigide e quindi più lente ad adeguarsi alle mutate esigenze del mercato. Quella struttura più competitiva, opera dello spirito di inventiva di tecnici esperti, formò un modello tutto italiano, appunto, il "made in Italy", basato sulle innovazioni di processo e sulla fantasia di stilisti e di disegnatori. Un modello che, a sua volta, per non essere sorpassato dalla concorrenza estera, avrebbe dovuto "sorpassarsi da sé", intraprendendo quel processo di rinnovamento strutturale e produttivo oggi in atto nella maggior parte dei Paesi industrializzati.
Nel nuovo sistema di mercati aperti, infatti, il design e le innovazioni di processo, cioè le innovazioni contenute nelle macchine, cessano di costituire elementi di originalità e, quindi, di differenziazione, su cui basare la forza competitiva della propria impresa: i disegnatori prestano la propria opera anche all'estero e le innovazioni di processo, per il loro basso costo di acquisizione, sono ormai a disposizione di tutti i concorrenti.
Diverso è invece il discorso per le innovazioni di prodotto, che non hanno un vero e proprio mercato di vendita. Per esse esiste più spesso lo scambio, che quasi sempre si realizza tra imprese che impegnano notevoli risorse finanziarie e intellettuali nelle attività di ricerca. Da questo lavoro hanno tratto origine i c.d. "clubs dell'innovazione", di cui è tipico esempio il farmaceutico.


L'attuale lotta concorrenziale si svolge quindi su un diverso e più alto livello, caratterizzato dalla revisione dei modelli organizzativi e dal quale vengono automaticamente escluse le strategie obsolete delle nostre aziende. Ci troviamo, cioè, in una nuova fase, giudicata irreversibile, in cui per restare sul mercato occorre mettere in campo strategie basate sull'innovazione di prodotto, sulla qualità totale, sul consolidamento strutturale attraverso fusioni e joint venture, su un sistema di finanziamenti che guardi più allo sviluppo delle iniziative aziendali che all'esistenza di garanzie reali.
E' con queste armi che i Paesi più industrializzati dovranno affrontare i nuovi competitors dell'Est europeo, la cui concorrenza si basa su produzioni a basso costo in settori tecnologicamente maturi, come la chimica e la siderurgia. In questa fase, ripetiamo, le piccole e medie imprese italiane, salvo poche eccezioni, non sono entrate o sono entrate in modo passivo, in qualità di aziende acquisite. Pochissime hanno puntato sull'innovazione di prodotto. E ciò ha allungato le distanze che ci dividono dalle più dinamiche imprese giapponesi, statunitensi e tedesche, soprattutto nei settori in cui sono impiegate le nuove tecnologie elettroniche.

5 - Emergenza occupazione.
Stando alle previsioni, il numero di posti in meno tra la fine di quest'anno e l'inizio del prossimo saranno circa 300 mila. La tendenza al calo degli occupati non accenna quindi ad esaurirsi e rischia di distruggere il patrimonio occupazionale a cui l'economia italiana ha dato vita negli anni di maggiore sviluppo. Questo pericolo non ha ancora assunto, almeno ufficialmente, i caratteri dell'emergenza. Dai dati aggregati, anzi, risulta che l'occupazione è in crescita. Tra il luglio del '90 e il luglio del '91, secondo l'Istat, il numero di occupati è aumentato di 165 mila unità, per un totale di 21,8 milioni. Nello stesso periodo, il tasso di disoccupazione è sceso dall'11,3% al 10,6%. L'ottimismo invece svanisce allorché si guardi agli andamenti per grandi settori. Dati decisamente negativi giungono dalla grande industria. Nel novembre 1991, l'indice dell'occupazione nelle imprese industriali con più di 500 dipendenti, calcolato con base 1988=100, è stato pari al 94,6, con un calo dello 0,2% rispetto al mese precedente e del 3,1% rispetto al novembre del '90.
Situazione particolarmente negativa nella siderurgia, che ha subito contrazioni occupazionali di entità pari al 13,3%. Seguono il tessile e l'abbigliamento, con tagli dell'8,4%. In difficoltà anche i settori del legno, della carta e della gomma, i cui livelli occupazionali sono stati ridotti del 6%.
Tra novembre 190 e novembre 191, i maggiori cali occupazionali si sono verificati nell'industria dei beni di investimento (-3,7%). Contrazioni di minore entità si sono registrate nell'industria dei beni di consumo (-2,1%), seguita da quella dei beni intermedi (-2,5%).
La flessione ha investito soprattutto la categoria degli operai e degli apprendisti (-4%), mentre è stata più contenuta per quella degli impiegati e intermedi (-1,2%). Per l'industria nel suo insieme, nel periodo gennaio-novembre 191, l'occupazione alle dipendenze ha subito un'erosione del 2,6% rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente.
Anche nella piccola impresa la situazione sta inesorabilmente precipitando. Nei primi sette mesi del '91, i tagli personale sono stati del 2,5%. Una percentuale che rischia di aumentare. La nuova fase in cui è entrato l'intero apparato industriale, infatti, richiede che si intraprendano strategie basate sull'innovazione di prodotto, per poter recuperare margini di profitto. Le piccole imprese non ne hanno le capacità e per sopravvivere cercheranno di ridurre al minimo i costi di produzione. In particolare, contraendo l'occupazione.
Le richieste di riduzione del personale sono numerosissime e provengono soprattutto dalla grande industria. Tra il '91 e il '92, i prepensionamenti certi saranno più di 36 mila, ma è un numero destinato a lievitare, considerato l'aumento incalzante delle richieste. Né si può sperare di ricorrere sempre a questo rimedio, per contrarre i livelli occupazionali. Il prepensionamento, infatti, ha un alto costo, che si può quantificare in circa 100 milioni a lavoratore per cinque anni.
L'altro rimedio è, da molti anni a questa parte, la Cassa integrazione. Con una novità. In base alla legge del 27 luglio 1991 n. 223, i lavoratori potranno usufruire per un massimo di 12 mesi della Cig ordinaria e per 24 mesi (prorogabili due volte) della Cig straordinaria. Dopo quel periodo non avranno più alcuna garanzia di salario. Saranno iscritti in apposite liste e dovranno cercarsi un altro lavoro.
C'è chi spera nel terziario, quale settore in grado di riassorbire l'ondata dei nuovi disoccupati. C'è chi guarda al pubblico impiego e all'elasticità del blocco delle assunzioni statali. Ma è chiaro che si tratta di rimedi del tutto inadeguati rispetto all'entità che rischia di assumere il fenomeno.
Secondo gli imprenditori, solo una riduzione del costo del lavoro potrebbe consentire alle imprese di mantenere invariati i livelli di occupazione esistenti.
I sindacati sono disarmati, ma ritengono che il problema debba essere affrontato su altre basi. E' la politica degli incentivi che va cambiata. Bisognerebbe smetterla con i finanziamenti a pioggia e tornare ad una politica industriale molto più selettiva.


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