§ Modelli d'impresa

I giorni dell'azienda di famiglia




Innocenzo Cipolletta



E' finita l'impresa familiare? Una recente, attenta analisi di Romano Prodi sulle strutture del capitalismo mondiale e sui limiti del modello italiano (C'è un posto per l'Italia fra i due capitalismi, edito dal Mulino) più volte ripresa ha condotto molti a questa affrettata conclusione. Senza pretesa di interpretare l'autore di tale analisi, né di essere sulla sua stessa linea, esprimo alcuni dubbi su questa conclusione e sulle conseguenti indicazione di politica industriale che ne potrebbero discendere.
Premetto di non avere alcuna preferenza per un tipo o un altro di assetto proprietario, mentre ritengo che un Paese sviluppato e con capacità di crescita debba o possa avere più modelli che convivano: la public company, l'impresa familiare, l'impresa integrata al sistema bancario, fino all'impresa pubblica. Ognuna risponde ad esigenze diverse ed è proprio da un armonioso e articolato sistema che possono derivare assieme capacità di crescita e di stabilità.
Ma questa è una conclusione ovvia, talché vale la pena cercare di capire se nel contesto attuale si comportino meglio sistemi economici ove prevalgono public companies o sistemi economici ove la proprietà è più concentrata e ove essa ha un controllo più diretto sulla gestione (questa è in ultima analisi la caratteristica di un'impresa familiare).
Ebbene, le public companies prevalgono nel mondo anglosassone (Regno Unito, Canada, Stati Uniti, Australia), mentre l'impresa familiare prevale nell'Europa continentale e nel Giappone. Questa schematica distinzione già mette in dubbio se l'impresa familiare sia uno svantaggio, visto che il mondo anglosassone attraversa un momento di estrema difficoltà competitiva, mentre Paesi come la Germania o il Giappone sembrano più forti dal punto di vista dell'industria manifatturiera. Di tale tendenza si può dare anche una spiegazione legata proprio al modello di proprietà: le public companies debbono remunerare gli azionisti a cadenze brevi e sono assillate dai livelli delle quotazioni che non possono scendere onde evitare acquisizioni di controllo, sicché tendono a privilegiare i risultati di breve termine, trascurando strategie a più largo termine con rendimenti dilazionati nel tempo. Viceversa, l'impresa familiare è meno soggetta agli umori volatili del mercato e ha una visione generazionale, più attenta a conservare e ampliare il patrimonio e, quindi, più propensa a privilegiare le strategie di medio e di lungo termine.
Ovviamente, queste generalizzazioni ammettono molte eccezioni. Grandi imprese ad azionariato diffuso sono multinazionali con programmi di ricerca giganteschi che sviluppano strategie di lungo termine e dominano il mercato con grande stabilità, mentre molte piccole imprese familiari hanno una strategia di inseguimento e di adattamento e risentono eccessivamente delle vicende personali della proprietà.
Se le generalizzazioni sono sempre errate, allora lo è anche quella che decreta la fine dell'impresa familiare. In effetti i Paesi che conoscono oggi una buona posizione competitiva sono quelli che hanno saputo coniugare la visione generazionale, che è caratteristica dell'impresa familiare (o a proprietà concentrata, come si è detto), con le capacità manageriali e la stabilità finanziaria che è tipica di una public company. In questi Paesi la struttura della proprietà resta concentrata e spesso la famiglia è fortemente coinvolta nella gestione e nelle strategie, ma non è lasciata sola. Essa è sostenuta da un sistema bancario che assicura una buona struttura finanziaria assieme a un controllo di gestione e fino a un'assistenza manageriale (è il caso della Germania), oppure da un forte intreccio fra grande e piccola impresa, ove la piccola è spesso subfornitrice della grande, la quale assicura copertura finanziaria, controllo di gestione e assistenza manageriale (è il caso del Giappone).
E' chiaro che queste soluzioni non escludono la presenza di public companies; al contrario, queste sono spesso presenti in settori come quello bancario, assicurativo e di grandi servizi ove il capitale richiesto è elevato e ove la dimensione è particolarmente alta. Tuttavia, la dinamicità del contesto economico è spesso rappresentata da un'impresa familiare fortemente integrata in un sistema che ne potenzi le specificità e ne riduca i rischi e le fragilità insite in una proprietà familiare che deve affrontare difficili cambi generazionali, deve saper convivere con dirigenti di diversa provenienza; deve sapersi internazionalizzare senza i provincialismi del piccolo gruppo.
Come si colloca l'Italia in questo contesto? Certo, noi apparteniamo all'Europa continentale, quella caratterizzata da una forte impresa familiare, ed è su questo punto di forza che dobbiamo scommettere. Ci sono già grandi e medie imprese italiane integrate in un contesto finanziario relativamente strutturato. Ma è anche vero che l'impresa familiare italiana ha poco contatto con il sistema bancario o con la grande impresa. Essa deve accettare di dividere la proprietà per acquisire una maggiore base patrimoniale e un'assistenza più qualificata; ma deve anche saper mantenere una buona unità di conduzione e una visione di lungo termine. L'accesso di un partner finanziario o di una grande impresa è necessario non solo per gli apporti di capitale e di innovazione nella gestione, ma anche per garantire stabilità all'impresa rispetto a vicende personali della proprietà.
Perché nel nostro Paese tale integrazione tarda a manifestarsi?
Le cause possono essere diverse, ma certo non ha giovato all'Italia la cultura delle "separatezze": da quella tra banca e impresa (nei due sensi), a quella tra pubblico e privato che vivono come separati in casa. Un mercato piccolo, com'è quello italiano, con molte separatezze, impedisce forme di integrazione e il sistema produttivo diviene più fragile e più propenso a cedere all'estero attività produttive con annesso il rispettivo mercato interno.
Far crescere l'integrazione delle nostre imprese familiari con le maggiori imprese e con il sistema del credito significa almeno due cose: una politica fiscale che favorisca la mobilità della proprietà non penalizzando acquisizioni, scorpori e fusioni attraverso la tassazione delle plusvalenze reinvestite: ossia esattamente il contrario di quanto avviene oggi, con una legge di rivalutazione obbligatoria dei cespiti aziendali con la quale affrontiamo il 1992 e che rappresenta un prelievo di patrimonio da parte dello Stato, anche in assenza di movimento della proprietàl'introduzione della banca universale accompagnata da una privatizzazione effettiva del sistema bancario, sotto la forma di public companies, onde evitare che l'integrazione tra banca e impresa nel nostro Paese significhi la nazionalizzazione di fatto del sistema produttivo. La soluzione del gruppo polifunzionale per le aziende di credito e la trasformazione in SpA sono certamente due passi in avanti verso questa direzione: ma se la proprietà delle banche rimarrà al 51 per cento allo Stato per legge, allora avremo sprecato anche questa possibilità.

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