Il
"momento" di Maastricht è stato certamente di portata
storica. Il suo punto essenziale è costituito dalla certezza
di un impegno che stabilisce, al massimo entro il 1999, a condizioni
variabili, la realizzazione dell'Unione economica e monetaria nell'ambito
della Comunità dei Dodici. Al posto di quest'ultima dovrebbe
poi sorgere una vera e propria Unione europea. Anche se si è
vista la conferma che il processo dell'unificazione politica, se mai,
resterà sfasato con un certo ritardo rispetto a quello dell'unificazione
monetaria.
E' d'altra parte non soltanto auspicabile, ma essenziale, proprio in
connessione con la precedenza data agli impegni per l'unificazione monetaria,
che i progressi verso un'Europa federale possano svilupparsi tempestivamente:
di fronte al peso potenzialmente schiacciante del marco tedesco e all'attrazione
irresistibile della nuova "Grande Germania" verso l'Oriente
caratterizzato dal vuoto del crollo comunista.
Relativamente secondarie, per quanto sul Continente se ne pensi il contrario,
appaiono in sostanza le questioni legate al mancato accordo sull'Europa
"sociale" e, per certi aspetti, persino quelle legate alle
riserve che la Gran Bretagna mantiene fino all'ultimo sull'intera costruzione
europea.
La questione dei tempi risulta invece la più delicata e rischiosa.
Prevedere la moneta unica prima della sovranità federale in una
Europa unita è, storicamente, l'anomalia più vistosa.
Prevederla con la certezza di un impegno, possibilmente prima, forse
il primo gennaio 1997, ma comunque entro il 1999, è certamente
un risultato di estremo rilievo, almeno rispetto alle posizioni di partenza
alla vigilia del vertice. Però il 1999 e persino il 1997, da
un punto di vista globale dell'Europa, per se stessa e di fronte al
resto del mondo, fissano orizzonti temporali estremamente lontani. Che
cosa possa accadere molto prima, non tanto fra i Dodici, quanto intorno
ad essi (e soprattutto ad Est), addirittura domani, è difficile
prevedere. Ma anche dire che è difficile è un eufemismo.
Se gli orizzonti temporali, quello ultimo ed eventualmente quello ravvicinato,
appaiono stridenti con la dinamica poco meno che rivoluzionaria del
Continente euro-asiatico e del resto del mondo, dal punto di vista dell'Italia
si tratta invece di scadenze molto vicine, in realtà imminenti.
Non c'è ragione alcuna per tentare neppure di assumere atteggiamenti
politici ispirati al tradizionale abito mentale del rinvio. All'opposto
delle più superficiali apparenze, per realizzare la convergenza
dell'economia italiana verso le condizioni di ammissibilità all'Unione
monetaria rimane poco, pochissimo tempo.
Questa è, di sicuro, la consapevolezza che è più
urgente realizzare in Italia a tutti i livelli. Anche a quello delle
imprese, come ha rilevato Carlo Azeglio Ciampi sulla sua "lectio
doctoralis" all'Università di Pavia. A livello politico-istituzionale
è chiaro che le vicende della finanziaria, la ripresa dell'inflazione,
la dinamica del costo del lavoro, la crescita del debito estero - tutte
sullo sfondo di tendenze più divergenti che convergenti, per
quel che concerne la finanza pubblica - esigono assolutamente un cambiamento
fondamentale (per non dire radicale) dei nostri meccanismi politico-istituzionali
e, comunque, la più rapida conclusione dell'attuale fase di confusione
o addirittura di marasma. Può confortarci, naturalmente, la consapevolezza
che l'Italia può farcela. Ma è evidente ormai che appunto
per farcela e per sostenere sforzi non propriamente erculei, questo
Paese - dal Parlamento al governo, dalle imprese ai sindacati, dal primo
all'ultimo cittadino - deve decidersi a cambiare molti metodi pubblici
e privati, soprattutto molte cattive abitudini. In questo senso, le
indilazionabili necessità di affiancare alla politica monetaria
e del cambio una severa politica dei redditi e, ovviamente, una credibile
politica di bilancio, pongono interrogativi che purtroppo, in mancanza
di cambiamenti, non possono che preoccupare profondamente.
Dopo Maastricht
Sei anni di
alta tensione
Adesso i pericoli
sono due: che la pressione di Maastricht si allenti al punto che classe
politica e opinione pubblica dimentichino quel che è stato
sottoscritto; che i delusi (cioè coloro che non hanno visto
accolte dai capi di governo le loro tesi) esprimano il loro disappunto
sminuendo il significato dell'accaduto.
Il primo pericolo risulta da un fattore psicologico e cronologico,
cioè che i testi di Maastricht sull'Unione politica e sull'Unione
economica e monetaria (Uem) entreranno in ibernazione per almeno un
anno, il tempo necessario per le ratifiche parlamentari nazionali.
Nel frattempo, resta in vigore il Trattato attuale della Cee; di quello
nuovo se ne riparlerà nel 1993. Come non temere una specie
di assuefazione anticipato che, banalizzando i nuovi obiettivi, indurrebbe
a guardare con un certo distacco anche gli impegni? Quest'osservazione
si riferisce evidentemente all'Uem e agli sforzi richiesti alla maggior
parte dei Dodici per partecipare alla Fase Finale. Quasi tutti gli
osservatori ritengono che il passaggio a questa fase, con la moneta
unica, non avverrà alla scadenza del 1997 (mantenuta come opzione
possibile), ma alla seconda scadenza. quella del 1999, diventato vincolante.
Attualmente, due Paesi sono giù in regola, la Francia e il
Lussemburgo. La Danimarca sgarra per il debito pubblico, che corrisponde
al 66,7% del Pil invece del 60% prescritto: un'inezia, anche di fronte
al recente referendum popolare che ha bocciato l'adesione all'Europa
di Maastricht. La Germania ha oltrepassato il tetto previsto (+3%)
del disavanzo di bilancio, arrivando, figuriamoci, al 3,6% a causa
dei costo dell'unificazione: sarà in linea ben prima della
scadenza. L'Olanda deve ridurre il debito pubblico globale che oggi
è del 78%; non avrà problemi. Lo sforzo richiesto al
Belgio è più consistente, poiché il debito globale
è doppio dei consentito, ma già il programma di rientro
è in elaborazione; grazie al criterio della "tendenza"
invece della "fotografia", la promozione, quando sarà
il momento, è sicura. Le finanze pubbliche irlandesi stanno
meglio di quelle belghe, i problemi dell'Irlanda essendo altrove,
cioè nella debolezza strutturale dell'industria.
La Spagna sgarra a causa dell'inflazione e ha strutture economicamente
tuttora fragili, ma secondo gli esperti può farcela. Il caso
della Gran Bretagna èparticolare: esso è in regola come
disavanzo e come debito pubblico, deve soltanto ridurre di due punti
l'inflazione, per cui economicamente potrò essere in regola;
ma si è riservata la decisione se entrare o no nella fase finale
dell'Uem.
Restano tre Paesi. La Grecia e il Portogallo, secondo gli analisti,
non potranno essere in grado di aderire nel 1999 e avranno bisogno
di una deroga temporanea. il dodicesimo è l'Italia, ed è
qui che si inserisce il discorso su tensione. In questi ultimi tempi,
allorché si definivano le condizioni per l'entrata nell'Uem
e Guido Carli si batteva affinché gli impegni Fossero vincolanti
e rigorosi, una certa tensione positiva in Italia c'è stata
e i buoni propositi venivano affermati con insolito vigore. Ma sarà
possibile mantenere questa tensione e i buoni propositi per sei anni?
Saranno necessari interventi periodici di Bruxelles e pressioni interne
per evitare che la classe politica, l'amministrazione e anche l'opinione
pubblica dimentichino tutto e ricadano nella facilità, che
sgancerebbe definitivamente l'Italia dal convoglio continentale. Ecco
quindi il primo pericolo.
Il secondo si riferisce agli incontentabili e ai dottrinari che avrebbero
voluto veder nascere a Maastricht anche l'Europa politica e quella
della difeso, nonché un progresso decisivo verso un federalismo
che non è auspicato da tutti, anzi è guardato con un
certo sospetto da una parte crescente dell'opinione e dei politici
(e in certi Paesi anche dagli industriali).
L'Uem era reclamata da tutti, questo sì, e non si dirà
mai abbastanza quale progresso rappresenti verso l'unità e
la prosperità dell'Europa e verso comportamenti economici seri.
Per il resto. non è dei tutto errato rimproverare ancora a
Bruxelles uno certa tendenza al centralismo, alla definizione di leggi
e regolamenti complicati e forse inutilmente uniformi: chi toglierà
mai ai burocrati, fossero pure della Cee, il piacere di armonizzare
e controllare tutto? Nel nuovo Trattato è stato affermato con
una forza e una chiarezza prima inesistenti il principio della "sussidiarietà".
barbara parola che nel linguaggio eurocratico significa che si deve
fare al centro soltanto quello che non può essere fatto meglio
alla periferia, cioè che la Cee deve occuparsi solo di ciò
che gli Stati e le regioni non sono in grado di fare con altrettanto
efficacia. Sano principio, che tuttavia deve essere messo alla prova
nei prossimi anni.
Su molti aspetti, i compromessi di Maastricht sono ben lungi dal rappresentare
l'ideale. Le procedure elaborate per l'abbozzo di politica estera
comune sono talmente piene di precauzioni che secondo alcuni non potranno
neppure funzionare. In materia di difesa comune, non si va per ora
al di là dell'enunciazione di qualche principio e di qualche
speranza. Ma in questi due campi l'Europa non è ancora matura
per andare oltre; i prossimi anni saranno un utile quanto indispensabile
tirocinio, aspettando di far scattare la clausola di revisione prevista
per il 1996. Nel campo sociale, quel che è stato deciso "non
è di certo una rivoluzione": il che è un palese
eufemismo. Certo. l'ottimismo non manca. Ma quel che è evidente,
è che neanche con l'opposizione, o con i dubbi e i sospetti
di Londra, il cammino dell'Europa si è fermato. La storia del
Vecchio Continente, qual è emersa dopo il secondo conflitto
mondiale e il Trattato del Campidoglio, continua a camminare.
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