§ Strategie anticrisi / Parlano gli americani

Le scommesse di Bush




Paul Volcker
Presidente Federal Reserve Usa dal 1979 al 1987



Sebbene le pressioni politiche siano piuttosto forti, è assai difficile al momento rimettere in moto la macchina dell'economia americana. Nonostante ci si trovi in piena stagione elettorale, la partenza è lenta. Sarà un recupero pigro, che durerà almeno dodici mesi.
Non è assolutamente certo che il calo del tassi d'interesse produrrà una ripresa economica. Durante la Depressione, nel caso ce ne dimenticassimo, i tassi d'interesse scesero a livello zero. Ma si dovette aspettare lo scoppio della seconda guerra mondiale prima di poter dire che non erano rimaste tracce della Depressione.
Altre preoccupazioni, come il controllo delle forniture di denaro a breve termine, l'incremento della produttività e l'aumento del tasso di risparmio in un secondo tempo, sono segnali più importanti per stabilire se l'economia americana si riavrà dal suo crollo e se riuscirà a risanarsi davvero completamente.
Tutto ciò perché non ci troviamo nella fase decrescente di un normale ciclo economico, ma in una situazione particolarmente insolita caratterizzata da un eccesso di debiti accumulatisi negli Stati Uniti negli ultimi dieci anni. Ora stiamo pagando il prezzo del nostri sprechi. E' piuttosto inusuale, inoltre, che i nostri partners commerciali europei e giapponesi si trovino anch'essi in una fase analoga. Il deficit tedesco oscilla al momento fra il 5 e il 6 per cento del Prodotto nazionale lordo, lasciando ben poco spazio per ulteriori spinte fiscali.
Dal punto di vista politico-economico vorrei porre in luce un paio di fattori che saranno più evidenti in una seconda fase. Le condizioni negative di tali fattori, mi duole ammetterlo, non ci concedono di essere ottimisti a breve termine, ma le prospettive future saranno decisamente più brillanti se riusciremo a intervenire con misure valide.
Da una ventina d'anni a questa parte, la crescita della produttività degli Stati Uniti si è piuttosto indebolita (circa dell'un per cento all'anno). Relativamente alla media storica, gli investimenti degli ultimi dieci anni non hanno raggiunto livelli molto alti. Il Giappone, un Paese che in termini di Pnl e di popolazione equivale a metà degli Usa, sta investendo su base annua esattamente quanto noi. Questo, naturalmente, è strettamente legato ai tassi di risparmio cronicamente bassi, tipici degli Stati Uniti. A questo proposito parla da sé l'ultima rilevazione del deficit del bilancio federale (400 miliardi di dollari!).
La questione politica principale relativa al modo in cui avviare la crescita è la seguente: in un mondo dove esistono enormi opportunità di investimento (nell'Europa dell'Est, nell'ex Unione Sovietica e in America Latina) avremo risparmi adeguati a tali investimenti che ci diano la possibilità di impossessarci del nuovi mercati che si stanno prospettando?
Per afferrare le opportunità che potrebbero ricondurci a una crescita sostenuta, sarà necessaria una stabilità dei prezzi, vale a dire una diminuzione dell'inflazione. A quel punto, per proseguire, dovremo essere in grado di scrollarci di dosso l'atavica abitudine di fare spese che vanno oltre le nostre possibilità e di far salire il nostro tasso di risparmio.
Non si insiste mai a sufficienza sulla necessità che l'Uruguay Round del Gatt (Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio internazionale) diventi un momento di fondamentale importanza, in quanto garantirebbe il libero commercio e i liberi mercati in tutto il mondo.
Se le dispute sul Gatt non verranno risolte al più presto, soprattutto fra Europa e America, per noi si profilano guai seri.
Poiché siamo in recessione, i tassi d'interesse sono bassi. Riusciremo a mantenerli tali in epoca di ripresa? Grazie al calo dei prezzi del petrolio, al contenimento salariale e alla competizione mondiale, abbiamo buone possibilità di mantenere bassa l'inflazione. Le prospettive potrebbero essere ancora migliori per i tassi d'interesse bassi a lungo termine se sapremo accompagnare ad un'inflazione contenuta un aumento del risparmio, principalmente riducendo il deficit di bilancio federale.
Forse non è lontano il momento politico in cui gli Stati Uniti, come la loro controparte europea, introdurranno una Imposta sul valore aggiunto. Se questa tassa verrà pensata nel modo opportuno, saremo in grado di raccogliere i mezzi sufficienti a ridurre sostanzialmente il deficit, senza dover intervenire sulle imposte del reddito.
Una volta rispettate queste condizioni si potrebbe, penso, guardare ai prossimi dieci anni con più ottimismo. Ciò che mi preoccupa sono le reazioni politiche immediate a questo torpore economico, poiché temo che andranno in senso opposto a quanto bisognerebbe fare per rimettere in pista l'America entro la metà degli anni Novanta.

Il programma del presidente Bush, per come è stato delineato in occasione del suo discorso sull'Unione, sembra evitare, fortunatamente, politiche particolarmente espansionistiche e aggressive in ambito fiscale, che finirebbero con l'aggravare il nostro indebitamento peraltro già drammatico. Le misure prese da Bush vertono soprattutto, com'è giusto, sull'incentivazione agli investimenti, il che è piuttosto incoraggiante.
Nei diversi Paesi entrati recentemente a far parte del mondo libero si sono manifestate vaste opportunità di mercato che potrebbero generare una crescita economica sia per loro sia per gli Usa. Se riusciremo a non fare l'errore, in questa epoca di urgenze, di non prendere scorciatoie, che si rivelano sì degli espedienti politici ma delle mosse economiche negative, potremo effettivamente raggiungere l'obiettivo desiderato.


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