Come fiore notturno




SEBASTIANO CÀUSO



Nato a Racale, Sebastiano Càuso risiede a Taranto.
Docente di Italiano e Latino nei licei. Ha pubblicato Giorni amari (1956), Nostra stagione (1958), Il sole sulle pietre (1965). Ha ottenuto numerose affermazioni in concorsi di narrativa e di poesia.


APERTA NOTTE

Aperta notte su vallate d'aria,
annegano nel sonno rose bianche
e stelle cadon trepide nel nulla.
Lontano, spiagge s'aprono alla luna
e tu le inondi del tuo desiderio
d'approdo, ma non sa che eterne fughe
la tua bocca aspra di salsedine.


APPARIZIONE

Apparsa al fremito d'aria d'una foglia
tanto discosta quanto filtra un raggio
suo la luna-piuma-di-colomba,
maturano frutti al tuo calore
nel notturno giardino.


SE SCORRESSERO FIUMI

Se scorressero fiumi
gonfi d'acqua
colmi di frescura
sulle tue ardenti piane,
se fiorissero rose
le tue ruvide pietre,
se costasse il tuo pane
meno lacrime e i figli
meno solitudine,
forse non t'amerei
così, mia terra.
Io son legato a te
come la verde
àgave
con radici di sole.


IL PAESE MORTO

A picco sull'azzurro mare
non ha voci di vita
il paese (un mucchio d'ossa bianche
le sue case
attraverso cui fischia, unico suono,
a volte il largo vento di libeccio).
Nave folgorata dal tempo
impietoso che si porta i figli,
giovani forze per alimentare
catene di montaggio, e vi lascia
solo i vecchi a nutrire la morte;
il campanile, albero maestro
pietrificato, piú non segna il tempo
o la rotta: bianco s'alza
come croce in cimitero.
Scarne rupi dalle nere occhiaie
sono intorno, battute dai salmastri
venti marini; dall'interno soffia il fuoco
delle rocce tufacee. Solo moto quello
azzurro dell'immenso mare o quello
dell'aria calda nelle strade vuote.
C'era una volta, giù per la scarpata,
un fiorire di mute attese, uno spiare
lontano di ritorni bianchi sull'azzurro mare.
Ora c'è l'umano vanto del progresso
ed un morto paese aperto al vento.


SANTA MARIA DI LEUCA

Qui nell'aspro suo termine la verde
Italia s'àncora con dita disperate
di roccia nello Jonio. Il Santuario
sventaglia la facciata verso il cielo
tra i bagliori di calce della piazza
alta sul mare. Ancora la campana
sommersa la leggenda sua ridice
rintoccando le notti di bufera:
qui ci si segna ancora con la croce
se nomina qualcuno il Saraceno.
Inghiottita dall'azzurro la colonna
terminale dell'acquedotto, bianca
come tutto il paese, immota svetta.
Il sole caldo avvolge il Dispensario
tra lance d'alte palme. Pure bianche
son le suore che passano leggere
come farfalle tra le colme aiuole.
Santa Maria di Leuca, le barche
fanno tappa alle grotte dei miracoli
tra una marca e l'altra. La scalea
dallo spiazzo si tuffa verso il molo
come un fascio di luce, sopra il coro
rombante dei moderni motoscafi.


PRODIGIO IN PIAZZA DI SIENA

Il tramonto si stempera in rossori
morbidi come di velluto sulle pietre
tenere di secoli: tra poco
nel salotto antico della piazza
la sera accenderà i suoi lumi.
Tu siederai, all'ombra trasparente
dell'acqua, sulla vasca d'alabastro
della fontana, come ogni sera. E ancora,
come ogni sera, ridarai una voce
alle cose che non l'hanno, una vita
ad evi immobili: e la torre
chiariranno i tuoi occhi
come riflettori,
e colombe, vive del tuo respiro, spargeranno
nell'aria battimenti
d'ali tenere
e nel cielo,
remoto sulla piazza, accenderanno
i tuoi sogni stelle di corallo.


MADRE DI EMIGRANTE

Per il figlio lontano
altro non avevi
da dare che i tuoi giorni cuciti
col filo del rosario, le tue notti
bianche di luna, d'insonnia
bianche
come le schiuse imposte
a spiare un ritorno che non c'era
tra i muri asciutti di tramontana.
Da dare non avevi
ormai più che quell'attesa
sulla sedia di paglia
dietro il gelido sole sui vetri.


EPILOGO

Un altro sole sporco! E ricomincia
l'esodo dai paesi dissanguati,
dalle piazze deserte
da cui ancora
salpano chiese nell'azzurrità
levando dai sonori campanili
vele di vento, dove son restati
solo i vecchi a rubare
il sole ai bimbi
e i minuti alla morte.
Tra le bianche pareti delle case
dura ancora negli occhi delle madri
la pena degli addii ai forti figli.
E le città si nutrono di braccia...

Fra poco, nelle fabbriche,
sprizzerà il lampo
della fiamma ossidrica
-bianco sole senza vita -
su lastre di metallo!
Intorno, asfittici giardini
in cui si svenano anacronistici
fiori ai fumi di cemento.

Sui nastri azzurri delle strade
catene d'auto, di camion
serrano campi inutilmente
aperti al sole.
L'infruttuoso mare lambe
tralicci di gru, aprendo i verdi
polmoni a fluorescenti chiazze di petrolio
E la vita scorre
fra argini svettanti di palazzi,
in un concerto assordante di clakson,
nell'assenza di uccelli, di stelle,
nel rapporto arido d'affari
in cui l'uomo-vincitore-dello-spazio
ha smarrito il fratello!...
Forse lo ritroverà domani
fra astronavi graffite sulle rocce
ancora di caverne,
nell'intesa di gesti senza voce
neo-primordiali.


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