§ Il Cavaliere la Morte e il Diavolo

Oscuri sentieri della verità




Nicola Di Girolamo



Osservate le debite proporzioni, le distanze, gli accostamenti sono ammissibili quando nel tessuto di due opere ricorrono scelleratezze, personaggi e diavoli che, pur con qualche variante, non sono mutati nel tempo. Ammissibili, altresì, comparazioni, evasioni quando hanno luogo corrispondenze letterarie. Di evasioni è ricca tutta l'opera di Sciascia; in origine c'è stato tutto ciò che abbiamo scoperto in Nero su Nero: un non diverso Journal (specchio del tempo) dei fratelli De Goncourt. Per la scrittura, però, ricordiamo lo "specchio" di Stendhal, indicazione che si trova in una pagina de il Rosso e il Nero. Senza il "regressus per infinitum", di cui parla Borges - che poi è una "progressio" - non v'è letteratura. Sciascia ne è convinto quando accenna alla temperie culturale nella quale ha vissuto, alle potenti suggestioni che ha ricevuto: pellegrino a Parigi - ad esempio -, vede, visita, scopre e per un incontro minimo conclude: "Giusto cent'anni addietro, uno scrittore della mia provincia si è aggirato fra le cose in cui Hugo visse, me ne ha trasmesso così viva memoria che ho la sensazione di rivisitare, di rivedere. Mi sento dentro una dimensione di continuità. Mi sento di fronte a Hugo e di fronte a Navarro, in una sicura, rinfrancante tradizione" (Nero su Nero, p. 208; i corsivi sono nostri). E ancora: Al mio rapporto con certi libri, con certi scrittori, è ormai senza scarti, senza confini": gli "exempla" di Montaigne.
Dalla stampa di Dürer - Il Cavaliere, la morte e il diavolo - il libro di Sciascia prende le mosse; il diavolo viene mistificato, trasposto per una metafora; un diavolo che rinunzia al suo ufficio commettendolo a uomini rappresentativi del potere: "Ma il diavolo era talmente stanco da lasciar tutto agli uomini, che sapevano fare meglio di lui". Il diavolo stanco de Il Cavaliere... non è accettato però da una certa istituzione perché, si legge: "alibi nella vita degli uomini, tanto che si stava in quel momento tentando di fargli riprendere il vigore perduto: teologiche terapie d'urto, rianimazioni filosofiche, pratiche parapsicologiche e metapsichiche". Evidente il riferimento all'alto proclama: "il diavolo esiste" e a tutto quanto è avvenuto a Torino: una vera mobilitazione di esorcisti. C'era stata già prima in Nero su Nero (pp. 137-140) una dotta divagazione sulla presenza del diavolo nell'arte, nella letteratura, nella società con esemplari estrapolazioni volte al presente. il diavolo c'è, c'è sempre stato, anzi i diavoli; ne rivela la presenza un cartiglio-preghiera, invocazione rivolta all'arcangelo Michele che infierisce con spada sguainata sul diavolo atterrato: "[ ... ] defende nos in proelio contra nequitiam et insidias diaboli, nobis esto praesidium; tuque princeps militiae celestis, satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pergavantur in mundo, divina virtute in infernum detrude". Non è un latino più difficile di certi brani da tradurre agli esami di maturità classica.
Per Il Cavaliere... superfluo il solito riassuntino; ad esso ricorrono non pochi critici per informare (o disinformare) chi leggerà; chi ha letto il libro di Sciascia sa e potrà opportunamente verificare- chi non ha letto potrà essere indotto, o provocato, e perciò il ricorso al testo. Oltre ai riassuntini, le "idées reçues" e le ovvietà possono ridurre il nostro scrittore a "forma", a statua pirandelliana, ossia al personaggio di una famosa commedia: Quando si è qualcuno. A quella statua infatti si continua ad appendere cartigli come ex voto: Sciascia intellettuale scomodo, illuminista (e non sappiamo se qualcuno ha scoperto che dietro c'è l'umanista!); Sciascia scrittore impegnato e via discorrendo. La fretta dei recensori (e non sono spesso nomi sconosciuti), le esigenze dell'attualità, della commercialità non hanno permesso di scoprire la svolta della narrativa del nostro scrittore. Fermi nel loro "orizzonte di attesa", hanno etichettato: libro giallo, autobiografico. La svolta si identifica nella "pietas" latina, sottesa in altri libri e che qui viene allo scoperto in maniera inusitata. E' doveroso però dare merito a chi si è avvicinato all'opera di Sciascia con molta attenzione, senza pregiudizi, senza fretta. La critica francese è stata unanime nel riconoscere, sin dalle prime opere, una presenza diversa nella narrativa europea. A compendiarla è stato Claude Ambroise col suo esauriente saggio introduttivo al primo volume di Opere (Bompiani, 1987).
Nell'ambiguo panorama della critica italiana una voce chiara, quella di G. Cottone che, con una serie di saggi apparsi in varie occasioni (ora compresi nelle raccolte Epifànie ed Echi, Palumbo, 1985; 1988), ha saputo vedere l'opera di Sciascia dall'interno e non dall'esterno.
Torniamo al testo. Le corrispondenze: per quelle occorre vedere che cosa c'è nell'assunzione di "sotie" come epigrafe. Le epigrafi, che servono da corollario, sono spesso abiti presi a prestito che vanno stretti; in taluni casi sono indicatrici della situazione dello scrittore e dunque del libro. Ne Il Cavaliere... ve ne sono due: nella seconda leggiamo di "molte vie per giungere alla verità", parola chiave in tutta l'opera di Sciascia: "Un vecchio vescovo danese, ricordo, mi disse una volta che vi sono molte vie per arrivare alla verità, e che il Borgogna è una delle tante" (KAREN BLIXEN, Sette storie gotiche). Il vino Borgogna, ossia l'"entusiasmo" dionisiaco, il comune "in vino veritas", senza convinzione forse, a causa dell'usura subita dall'espressione. Le "molte vie" sono quelle della prima epigrafe: "sotie"; essa è tratta dal teatro francese medievale noto soltanto ai cultori e agli specialisti; non sappiamo perciò quanto sia comprensibile, o motivo di attenzione per il lettore medio, e quale rapporto ha con il romanzo. Coloro che sanno possono avere qualche perplessità - per la situazione drammatica del Vice (protagonista) - se si attengono alla natura delle "soties" esemplarmente definita da Emile Littré nel suo Dictionnaire.
Più appropriato sembra a noi "potente apologo", che troviamo nel risvolto del libro, senza escludere però gli altri aspetti. Il "potente apologo" si qualifica nelle ultime pagine come "moralité"; questa non sminuisce "sotie", non la nega: è coeva ed è teatro anch'essa. Su Sciascia "moraliste" abbiamo scritto in un precedente articolo; lo ritroviamo con un più puntuale intervento in questo romanzo, con la sua sperimentata incisività, con la forza della "verità" che in Nero su Nero trova riscontri inquietanti nella cronaca: "La prefigurazione (o premonizione di un tale iperpotere) l'abbiamo avuta, nella restaurazione democratica, in Sicilia, negli anni Cinquanta. Chi non ricorda la strage di Portella delle Ginestre, la morte del bandito Giuliano, l'avvelenamento in carcere di Pisciotta? Cose tutte, fino ad oggi, avvolte nella menzogna. Ed è da allora che l'Italia è un paese senza verità. Ne è venuta fuori, anzi, una regola: nessuna verità si saprà mai riguardo a fatti delittuosi che abbiano, anche minimamente, attinenza con la gestione del potere". Cronaca (ma anche giudizio storico) destinata a diventare nelle pagine de Il Cavaliere... letteratura, e questa capace di incidere nella coscienza "come sempre hanno inciso i grandi romanzi in cui una personalità si realizza muovendosi in una natura e in una società spietate". Il pensiero è di Italo Calvino.
Torniamo all'apologo: esso diventa meditazione inusitata (quella del Vice); lucida, trasparente, ironica e amara; apologo anche un po' "philosophe": "Una legge, pensava, per quanto iniqua è pur sempre forma della ragione: per conseguirne il fine di estrema, definitiva iniquità, quegli stessi che l'hanno voluta e che l'hanno fatta, sono costretti a prevaricarla, a violentarla. Il fascismo era anche questo: un sottrarsi alle sue stesse leggi. E anche il comunismo di Stalin, di più anzi. E la pena di morte? Ma la pena di morte non ha niente a che fare con la legge: è un consacrarsi al delitto, un consacrare il delitto. Una collettività sempre, a maggioranza, dirà che è necessaria: appunto perché è una consacrazione. il sacro, qualunque cosa avesse a che fare col sacro... L'oscuro fondo dell'essere, dell'esistenza".
Dalla lucidità della ragione all'insidia del sentimento in quelle pagine memorabili nelle quali il Vice è alla ricerca di un tempo perduto che non ritrova, che anzi smitizza riducendolo alla sua vera realtà: "Tutto si allontanava, era ormai lontano. Restava in lui un senso di tenerezza, e quasi era diventata pietà. Curioso come in lui, ora, ogni sentimento che era stato d'amore o di avversione si mutasse in pietà. E ancora curioso che la memoria trasfigurasse in bellezza quelle lontane sofferenze e disperazioni. Tutto mentiva, anche la memoria".
Per questa ed altre pagine di un tempo perduto, per il dolente congedo del Vice, che è metafora per l'altro definitivo, tragico congedo, Sciascia poteva finire nella letteratura che da Villon a Proust ha riempito le biblioteche. Non vi finisce per le alternanze con le quali distoglie il lettore reso "complice", per l'aura di accettazione nella quale si muove il Vice: e quella ricorda situazioni di eroi della tragedia greca; essa è stata il primo amore di Sciascia. Le parole, le riflessioni del Vice, il suo passo verso la fine che l'attende: un "adagio" eccezionale con echi di pagine famose. Là, in quelle pagine il libro trova la più alta legittimazione letteraria: esse possono dare motivo a due letture diverse: la prima, insita nel titolo di questo scritto, per una nuova "storia minima" sempre più affascinante, avvincente; la seconda, contrassegnata dalla "pietà" che viene allo scoperto nel brano citato per due volte, quasi un corsivo: un amore per il personaggio Vice. Qualcuno ha voluto ricordare la pietà manzoniana per far vedere Sciascia sulla via di Damasco; manzoniana è la contenuta solennità di quella pagina, mentre la pietà è la "pietas" latina che stabiliva rapporti di amore, appunto, con la divinità e con gli uomini.
Essa si sublima in personaggi emblematici come Diego La Mattina, nel giudice a latere di Porte Aperte. Sciascia non si abbandona alla facile passione, ma verso la fine del libro il "meccanismo di difesa" cede al "desiderio". Egli non isola il Vice, non ne fa un personaggio a tutto tondo, né uno scoperto alter ego, come altri hanno scritto; lo inserisce negli eventi come testimone di un tempo, del dramma perenne nel quale l'uomo di oggi vive. Non una tessera staccata, ma in armonia con le altre. il Vice nel suo fatale cammino, però, acquista maggior rilievo e il "desiderio" finisce col trionfare là dove egli diventa spia di uno Sciascia meno amaro, meno pungente, meno ironico, disposto a vincere il pudore, la ferrea legge dell'attenuazione. Vi erano già segni dell'umano ne Le Parrocchie... davanti a fanciulli già attori inconsapevoli di tanti drammi.
In un'era in cui tutto viene recepito dall'esterno, durerà questo cammino dall'interno, questa nuova "Aurora"?: "Chi va [ ... ] per queste vie tutte sue, non incontra nessuno: è questo che comportano le "vie tutte nostre". Non viene nessuno a dargli manforte, nello stato in cui si trova; di ogni pericolo, caso, scelleratezza [ ... ], in cui s'imbatte, deve venire a capo da solo. Ha appunto per sé la sua via e, com'è giusto, la sua amarezza, il disgusto che prova, in certi momenti, per questo "per sé": a tutto ciò si accompagna, per esempio, la consapevolezza che persino i suoi amici non possono indovinare dove egli sia, dove vada, e talvolta domanderanno "come? è ancora in cammino? ha ancora una strada?", (F. NIETZSCHE, Aurora, Oscar Mondadori, pp. 5-6, 1981): Sciascia-Nietzsche.
Sciascia continua il suo viaggio in gironi sempre diversi; ad ogni nuovo libro nuove scene di un inferno senza fine di cui egli scopre l'"envers". Sappiamo così perché muore Sandoz e per conseguenza perché sono morti Sindona, Calvi, Pecorelli. Il libro, con la sua attualità, ha dato luogo alla ricerca di chiavi; la contemporaneità ha i suoi protagonisti, le "facce laide, stupide, feroci" del potere, quali sono state definite da Sciascia in un altro libro. I riferimenti, perciò, non sono mancati. Sappiamo quanto inutile - per la letteratura -sia la ricerca di chiavi e quali pregiudizi rechi all'opera. Fra quelle che si sono scoperte, ve ne èuna che viene data non alla curiosità del lettore ma alla letteratura: il ritratto del Presidente delle Industrie Riunite (un Giton rovesciato di La Bruyère) nella cornice del suo habitat "tutto di un rococò fragile, musicale, cantato appunto ... "; nel suo abito, nel sussiego con cui scende dall'Olimpo: "Il Presidente spuntò silenziosamente da dietro una tenda. Era in soffice veste da camera, ma già sbarbato, pronto a vestirsi con quella eleganza severa e sicura che i giornali di moda - ormai di tanta e di nessuna moda - gli riconoscevano. E intorno a lui aleggiava il fastidio di dovere ritardare la solita, puntuale, quasi leggendaria uscita mattutina per recarsi al grattacielo delle industrie Riunite: dal più alto piano del quale, quasi in confidenza col cielo, prendeva le quotidiane e sempre giuste decisioni per cui il paese intero si teneva sul filo del benessere, della ricchezza; avendo però da un lato lo strapiombo della miseria, dall'altro quello della peste".
Di personaggi inquietanti con chiari connotati è ricca l'opera di Sciascia: ne Il Cavaliere... essi sono simbolo di una situazione che non è più una "sotie". Personaggi che vengono da lontano: quelli di Teofrasto, o di La Bruyère ("il mio rapporto con certi libri, con certi scrittori" - già ricordato), o che si incontrano con quelli di Heinrich Böll, rappresentante supremo della narrativa tedesca; ossia incontro di due scrittori nell'area europea; perciò il consenso per l'uno e per l'altro. Il consenso per il nostro scrittore proviene da un'attesa di verità e anche da un processo di identificazione. Esemplare a tal riguardo il rapporto di Sciascia con un detenuto, il rapporto epistolare che egli spiega in una pagina di Nero su Nero: "E appunto questa era stata la base della confidenza sua nei miei riguardi; la rappresentazione che trovava nei miei scritti della "Cruda verità" in cui lui era vissuto e viveva. "Per mia mala sorte, ho accumulato buona parte di conoscenza delle sofferenze umane". Rimpiangeva di non sapere scrivere, ma si confortava del fatto che io le scrivessi". Si può capire così che cosa rappresentavano un tempo i vari vendicatori dei romanzi popolari o i Robin Hood.
Ciò riguarda un aspetto del successo perché se tutto si risolvesse nella complicità del lettore, nell'attesa, Sciascia passerebbe senza lasciare traccia. L'altro aspetto del consenso è la superiore "verità" che crea una diversa emozione, quella che deriva dal modo di trasformare una banale cronaca della "Gazette des Tribunaux" ne Il Rosso e il Nero. Fatti e personaggi di gazzette sono quelli che per suggestione stendhaliana Sciascia continua a cercare. Ricerca della verità significa ricerca di giustizia. Chi ha seguito Sciascia in tutti i suoi itinerari sa come quella sia diventata una dominante, a tal punto da spingere qualche professore a proporla come ricerca: "Il senso della giustizia nell'opera di Sciascia". Da certe cattedre maggiori a quella di una scuola media superiore: non è per caso questa la maggiore? Il nostro scrittore vi entra come una antologia. La forza di Sciascia e la sua pacata limpidezza profonda, a forza di trasparenza, sì da far prevedere che in quella direzione non ci sarà da progredire per altri. C'è qualche cosa che filtra dal magistero della prosa e che pochi avranno notato: la flessibilità della scrittura che, pur mantenendo le sue inimitabili prerogative, vive in simbiosi con i personaggi che hanno "domandato di vivere"; e perciò ciascuno parla con la propria passione, col proprio linguaggio: quello del Presidente, ambiguo, sfuggente, equivoco, della signora Zorni: svagato e attento, frivolo; quello del Vice: più complesso nella rete dei gesti, dei brevi monologhi, delle ipostasi: reazioni ora ironiche ora amare in una sorta di automatismo verbale, a volte, provocato da una stanchezza interiore che alla fine si qualifica come meditazione sul passato, sul presente, sul suo disvivere. Ne fluiscono momenti di emozione, se non di strazio.
Sciascia sfugge all'"appeal" letterario e privilegia lo scavo psicologico atto a dare risalto ai complessi rapporti fra i personaggi, servendosi delle sue doti dialettiche. C'è una apparente frantumazione del narrato - le evasioni predilette - per il succedersi dei temi; alla fine però il raccordo s'impone con un raro senso della continuità cui dà ausilio la "clarté" della scrittura. Il Vice è un eroe negativo, un "vinto". A fronte troviamo il Capo. Sappiamo come Sciascia si sia espresso sempre nei riguardi della polizia; ne Il Cavaliere... procede dall'interno.
Si può osservare che i personaggi discutono troppo; anche ad Euripide fu mossa una non diversa osservazione, non priva di fondamento: quel troppo distraeva gli spettatori; ne Il Cavaliere... non c'è azione, o ve ne è poca, prevalendo il lento, stanco itinerario morale, intellettuale del protagonista; e tuttavia teatro anche là dove subentra la narrazione vera e propria; pensiamo alle pagine di Pirandello, maggiormente a quelle di Shaw, che troviamo all'inizio delle rispettive commedie per l'illustrazione delle scene e dei personaggi. Vediamo: "La signora Zorni. Davvero bella, fino all'insipida perfezione; e di una loquacità che a quella perfezione si accordava: astratta, a testa per aria, divagante nei più celesti e irraggiungibili cieli della stupidità: che sa essere celeste, e anche profonda, come gli intelligenti sanno e, sentendo a come seduzione, temono. Sembrava non cogliere mai quel che le si chiedeva ... ". Si ripresenta Heinrich Böll con le pagine didascaliche per Donne con paesaggio fluviale, opera che più lo avvicina al nostro scrittore.
Teatro, Il Cavaliere... che, come quello classico, si è in parte svolto prima dell'alzata del sipario. C'è un passato prossimo nel presente; la drammaticità è lenta, il solo colpo di scena lo troviamo alla fine. Vi campeggiano il Capo e il Vice; nel melmoso in cui si muovono non possono che abbandonarsi alle ipotesi, ad una attesa oscura che poi è il fondo tragico del libro; si pensa all'attesa ne Il Deserto dei Tartari, dove però il nemico non arriva, a quella di Assedio Preventivo di Heinrich Böll: attesa imponderabile in quest'ultimo, clima politico non diverso, pur se diverso è il tempo, vittime designate e così via.
Si è spiegato il senso dell'avvio de Il Cavaliere... con la presenza della stampa di Dürer e con una divagazione erudita: aggiungiamo che da quella stampa trasse ispirazione D'Annunzio per il sonetto Il Cavaliere e la morte, pubblicato su "Cronaca Bizantina", il 1° novembre 1883. Ricordiamo anche Verlaine per una non diversa ispirazione: "Bon chevalier masqué qui chevauche en silence, / Le malheur a percé mon vieux coeur de sa lance" (Sagesse).
C'è anche un contrastante Trionfo della morte che promuove una serena e pacata meditazione: "Stava intanto guardando (il Vice) Il Cavaliere la morte e il diavolo. Forse Ben Gunn, per come Stevenson lo descriveva, un po' somigliava alla morte di Dürer; sicché gli parve prendesse, la Morte di Dürer, un riflesso di grottesco. L'aveva sempre inquietato l'aspetto stanco della Morte, quasi volesse dire che stancamente, lentamente arrivava quando ormai della vita si era stanchi. Stanca la Morte, stanco il suo cavallo: altro che il cavallo del Trionfò della morte o di Guernica. E la Morte, nonostante i minacciosi orpelli delle serpi e della clessidra, era espressiva più di mendicità che di trionfo. "La morte si sconta vivendo". Mendicante, la si mendica". La morte presso i siciliani è metafora ossessiva (ed è affermazione dello stesso Sciascia); anche lui, come il Vice, pare a noi che se la porti dietro o dentro: lo stoico "quotidie morimur", premonizione, inconscia accettazione o un modo di "apprivoiser la mort", come suggeriva il suo Montaigne.
Il libro nasce da un equivoco: da una morte strumentalizzata, da una supposta presenza di "figli dell'89": 1789 o 1989? Su quelle date s'intrecciano deduzioni e controdeduzioni; in quel punto la scena è "sotie". E' burlesca tutta la prima parte del libro con quel "ti ucciderò" scritto su di un biglietto segnaposti; sono burleschi lo schematismo professionale del Capo, la prudenza verso gli intoccabili, l'arroganza e il sussiego verso i subordinati, il linguaggio pieno di ovvietà del mestiere. E' una burla tragica la fine del Vice, il quale è convinto che sia tale. Il burlesco però non sempre fa ridere, fa pensare: al personaggio che sta dietro le quinte (vi stava anche Pirandello): distante, Sciascia, come un pittore quando avrà finito un quadro e osserva arricciando gli occhi; è un momento di comprensibile felicità anche per lo scrittore. Immaginiamo perciò Sciascia staccato dall'"intelligente passione" che lo ha sorretto e si vede nel rapporto continuo del libro con l'io (senza narcisismo) e dell'io con il libro; che si guarda vivere: una sorta di "voyeurisme" al di là dello sguardo.
Hanno scritto che Il Cavaliere... è autobiografico; ogni buon scrittore lo è, ammette Pirandello nell'introduzione a Sei personaggi..., a condizione che non si sia Narciso o Chateaubriand. il libro è stato etichettato: romanzo poliziesco, romanzo giallo. Presso non pochi scrittori quel colore è diventato di moda. il giallo altrui arriva dopo il bigiognolo, il rosso, il cinereo e via discorrendo per facili riferimenti. J. L. Borges in una pagina di Nuove Inquisizioni afferma che il romanzo giallo sarà il solo genere che sopravviverà alla crisi della narrativa. L'inimitabile A ciascuno il suo precede l'affermazione di Borges; la precedono anche gli altri libri nei quali dobbiamo riconoscere che nella naturale disposizione, meglio vocazione, di Sciascia a raccontare in modo diverso non si possono inventare attributi, non c'è luogo - ripetiamo - a progredire. Perciò i battelli "porteurs de coton" di Rimbaud, pronti a cambiare mercanzia e rotta sulla scia del battello maggiore: il "giallo metafisico" di un certo Bufalino, l'impasto del bancario Rugarli ne La troga (cronaca di Una cronaca con episodi granguignoleschi), e, dulcis in fundo, il giallo stemperato dall'erudizione gratuita di Umberto Eco.
La cosiddetta "suspence", l'emozione - diciamo noi -delle "storie minime" di Sciascia è di natura diversa; più che dai fatti essa è creata dal fascino di una scrittura retta da un basso continuo, da contrappunti che creano varietà, arricchimenti letterari e potenti suggestioni. Ci domandiamo come tutto ciò sia possibile, qual è il meccanismo della creazione. Questo antico e saggio narratore che si affida al sentimento del giusto e del vero; perciò la durata delle sue storie e la continua attesa dei lettori: un segreto che tale non è e che vanamente altri hanno cercato di scoprire.
Concludiamo con un pensiero di Gaëtan Picon, sintesi del suo Champ de solitude (Gallimard, 1968, pp. 199), quella che si legge nel risvolto: "Continuare a scrivere, eventualmente, non sarà che un riscrivere; la sola cosa non detta non potrà mai essere scritta poiché ci resta soltanto morire". Nell'ansia di quella cosa non detta, Sciascia scrive, continuerà a scrivere "même en étreignant la mort", come Meursault (L'étranger) che scopre la "sola cosa non detta": non il trionfo della morte ma della vita che stringe a sé la morte: l'eternità dell'arte.

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000