§ Da Spaventa a Crispi e oltre

Lo Stato da inventare




M. C. Milo, A. Foresi, G. Salerno
Collab. G. Macchia, G. Cordier, F. Anastasi, S. Volpato



Non c'erano più i Borbone, ma non c'era più neanche Garibaldi. E Napoli, nel 1860, era nelle mani della camorra.
Di nome e di fatto, dal momento che l'ultimo prefetto di polizia borbonico, Liborio Romano, poi passato con grande agilità dalla parte dell'eroe dei due mondi, non trovando di meglio, decise di affidare le funzioni di polizia all'unica organizzazione rimasta in piedi in città, la camorra, appunto, o "Bella società riformata". E così, in quell'occasione finirono per coincidere ufficialmente le due facce con le quali i camorristi si mostrano ai cittadini: si annunciano come portatori di ordine e di protezione, e poi perseguono lucro e arricchimento.
Fu questa la città che Silvio Spaventa trovò al suo ritorno, dopo essere stato dieci anni in galera per non aver amato la stirpe e la politica sovrana dei Borbone e dopo aver perseguito fino al successo l'unità d'Italia.
A Napoli si era formato alla scuola romantica ed hegeliana. Ora era diventato, nel governo della Luogotenenza, prima ministro di polizia, poi ministro dell'Interno: finito insomma - come in un impeccabile meccanismo pirandelliano - a capo di quegli stessi che per missione doveva combattere. E ne fece arrestare un centinaio; fino a che gli invasero casa: allora Spaventa, in barba al suo nome, fece licenziare 42 impiegati del ministero in odore di camorra, 58 della prefettura e 250 poliziotti.
Qualcosa stava cambiando (anche se la camorra fu tutt'altro che distrutta, come ammise lo stesso Spaventa), quando fu eletto deputato e lasciò Napoli. Non senza provare un senso di liberazione: "Mi fa mille anni che mi venga per tale occasione fuori di Napoli - aveva scritto al fratello Bertrando - il lezzo ed il fradiciume che è qui mi ammorba i sensi. Non ti puoi fare un'idea di quello che avviene e di quello che si fa: è un chiedere, un acchiappare da tutte le parti quanto più si può, un armeggio ed un intrigare, e un rubacchiare da per tutto". Questo scenario così sinistramente simile all'attualità napoletana odierna è soltanto una delle soglie attraverso le quali ci si può introdurre nell'opera e nella figura di Silvio Spaventa. Filosofo, rivoluzionario del 1848, prigioniero politico e poi leader della destra storica, fondatore e uomo di governo dell'unità d'Italia meno celebre degli altri suoi pari: ma personaggio della nostra storia che appare di attualità sorprendente rispetto ad alcuni fra i temi civici e d'opinione più stringenti.
Due soprattutto: il senso ultimo dell'Italia unita, percorsa oggi da selezionamenti leghisti; e la centralità di un ruolo di una sana amministrazione, questione di fronte alla quale il cittadino oggi sembra sconfitto e amaramente rassegnato.
Per quel che riguarda l'unità d'Italia, la vicenda di Spaventa è tanto esemplare da sembrare escogitata da uno sceneggiatore sin troppo ingenuo: abruzzese e liberale, quando il Mezzogiorno controllato dalla sinistra non fu più per lui praticabile politicamente trovò la sua patria elettiva -e il suo stesso collegio elettorale - proprio a Bergamo, la città che oggi esprime uno dei livelli più alti di consenso alle leghe.
I documenti e i libri che Spaventa ha lasciato al capoluogo bergamasco testimoniano il consenso che i "lumbard" di allora seppero attribuire a questo solido e autorevole uomo del Sud, una fiducia che non corrisponde evidentemente oggi a un'eredità culturale e politica. "Esempio unico di spirito profondamente meridionale per educazione, gusti e tendenze, che pur aveva bruciato nella passione unitaria ogni traccia e ogni residuo di regionalismo - ha scritto di lui Giovanni Spadolini - Spaventa ebbe come pochi il senso dello Stato e, rappresentante eminente della destra storica, ne fu uno dei teorici più sapienti e intelligenti". Ma soprattutto, ricorda Spadolini, per Spaventa la civiltà fu "Unità della cultura e del benessere".
E in questo concetto sta una diagnosi schiacciante per l'irrisolta questione meridionale, per la metastasi della malavita organizzata: la forzosa alimentazione del benessere attraverso il flusso scriteriato di risorse finanziarie statali nelle regioni del Sud, non sostenuta da un analogo progetto di crescita civile è all'origine, spiegherebbe oggi Spaventa, della dolorosa contraddizione delle due Italie.
E qui si innesta un altro elemento centrale del suo pensiero politico: l'idea della centralità dello Stato che è cosa ben diversa dal governo e che, disse una volta, "è una grande potenza umana". Un conto, perciò, sono le strategie di potere, un altro la "giustizia dell'amministrazione", l'impero irrinunciabile della legge. Facendo tesoro di Hegel, Spaventa aveva scritto già nel 1848 che lo Stato non è "un'istituzione arbitraria e dipendente dalla volontà di alcuno individuo, sia il Principe, sia qualunque altro; ma è qualche cosa più alta ed assoluta, all'arbitrio soprastante ed insidente nella volontà dei cittadini".
Un'idea che - nel discorso agli elettori di Bergamo -si fa inquietante se letta alla luce del letale inquinamento dell'amministrazione pubblica, dei cancerosi rapporti di oggi fra holding del crimine ed economia statale.
Spaventa, liberale estremo, scriveva: "Col nostro organismo sociale, col modo in cui è costruita la fortuna privata e pubblica in Italia, e col modo come sono composte le pubbliche amministrazioni, grandi società anonime, costituite con il credito dello Stato, che possano disporre di milioni nei loro bilanci ed abbiano frequenti e vistosi affari con lo Stato medesimo, e contatti continui ed infiniti col pubblico sopra tutti i punti del territorio, sono creazioni mostruose, contro la cui potenza ed influssi non credo si trovi sufficiente resistenza in nessuna parte".
Era il 1880, e quelle parole così lontane negli anni appaiono clamorosamente vicine. Ma alla luce di tutto questo, può essere, dal punto di vista dell'applicabilità, ancora attuale il pensiero di Silvio Spaventa?
Se lo è chiesto, di recente, Giuseppe Guarino, storico di gran calibro; per concludere che le due fasi storiche sono troppo diverse perché il pensiero di Spaventa possa essere trasferito ai nostri giorni: "Se volessimo fare un raffronto temporale, dovremmo dire che noi traversiamo una fase paragonabile a quella degli inizi degli anni '50 nel 1800, anni nei quali si annunciavano grandi trasformazioni nei sistemi produttivi, nei regimi istituzionali, nel costume". Trasformazioni che negli anni '80 vivevano la fase certa dell'assestamento.
E allora - è poco, è sufficiente? - resta una sola cosa, secondo Guarino, "di vivo ed attuale": "l'insegnamento che è insito nella saldezza morale, che animò gli uomini che con il pensiero, i sacrifici, l'azione, fecero l'Italia. Quanto più le trasformazioni sono rapide ed in parte non prevedibili, è la saldezza morale degli uomini di pensiero ad offrire l'ancoraggio, perché vi approdi il grande corso della storia".
"Noi abbiamo assicurato l'autonomia al comune e alla provincia; dato ai magistrati elettivi l'amministrazione degli interessi locali; limitati i prefetti alle funzioni di governo; istituita la giustizia nell'amministrazione, contro gli arbitri del potere esecutivo; posti vincoli alle spese degli enti amministrativi affinchè non avvengano dilapidazioni. E' nostra l'abolizione della pena di morte; nostra la riforma penitenziaria, da tanti anni invocata - che molte nazioni civili ancora attendono - col fermo proposito che il carcere sia il luogo di correzione, mentre è stato finora scuola di vizi e di delitti. Devesi a noi la nuova legislazione sulle opere di beneficienza, e quella sulla igiene, i provvedimenti sugli inabili al lavoro, collo scopo di iniziare la soluzione del problema sociale che tanto affatica il secolo nostro, e che non può rimanere lungamente irresoluto".
Con questo discorso, tenuto a Palermo il 20 novembre 1892, Francesco Crispi tracciava il bilancio delle riforme realizzate durante i suoi primi due ministeri (agosto 1887 - febbraio 1891). Riforme durevoli, accolte con favore dalla classe dirigente e dall'opinione pubblica, perché intese a dare efficienza allo Stato ed incisività all'azione del governo. A circa venticinque anni dal consolidamento dell'unificazione legislativa nel 1865 si interveniva con un piano vasto e articolato per introdurre le modifiche agli ordinamenti richiesti già prima della caduta della destra e sistematicamente rinviate durante la lunga leadership di Depretis. Il decisionismo dello statista siciliano e la sua convinzione che fosse necessario per l'Italia un governo forte, capace di imporre la sua guida al Parlamento, si incontrarono con le richieste del Paese di un ammodernamento dell'assetto statale e con la presenza alla Camera di una maggioranza abbastanza compatta.
Uno dei provvedimenti più attesi riguardava l'amministrazione locale. La legge comunale e provinciale entrata in vigore nel 1865 ricalcava sostanzialmente la normativa piemontese, estesa alle varie regioni entrate a far parte del regno sabaudo tra il 1859 e il 1860. Considerata provvisoria, perché non rielaborata dal Parlamento italiano secondo le nuove esigenze, essa era stata oggetto di una serie di proposte di modifiche anche radicali, mai venute in discussione per la lentezza dei lavori della Camera, che anche allora rendeva faticoso l'iter delle leggi. Principalmente si desiderava una maggiore autonomia per province e comuni.
Si ricordi che, dopo il primo ingrandimento dei dominii sabaudi con la Lombardia e con l'Italia centrale, nella primavera del 1860 era sembrato necessario garantire gli interessi delle popolazioni entrate a far parte del nuovo organismo. Da Luigi Carlo Farini, allora ministro dell'Interno con Cavour, era stata insediata una commissione per studiare il modo di sottrarre le amministrazioni locali ad un centralismo burocratico che avrebbe mortificato le caratteristiche delle varie regioni, dovute alla diversità della storia degli antichi Stati della penisola. All'inizio del processo di unificazione il ministro ritenne "opera savia e prudente", non forzare le tappe per conseguire quella uniformità negli ordinamenti interni che potevano essere soltanto frutto del tempo.
La commissione individuò come elemento qualificante del nuovo ordinamento amministrativo l'istituzione delle regioni. Queste avrebbero dovuto avere una piena autonomia, con una competenza su materie espressamente indicate, ed un corpo deliberante, composto di membri eletti dai consigli provinciali nel loro seno.
Era una innovazione audace che, se attuata, avrebbe assopito i risentimenti per la forzata unificazione. Ma una così larga autonomia locale cominciò a sembrare pericolosa nella seconda metà del 1860, quando la spedizione dei Mille aggregò al Regno anche il Mezzogiorno e la Sicilia, dove la società civile era molto diversa da quella del Nord e del Centro. Venne meno la simpatia iniziale per le regioni della classe dirigente unitaria.
Il turbamento dell'ordine pubblico negli antichi dominii borbonici fece temere che dietro le autonomie si annidassero le nostalgie per le cadute monarchiche. Nell'ottobre del 1861 venne dato all'Italia un ordinamento accentrato. Non furono istituite le regioni, neanche con prerogative ridotte. Province e comuni continuarono ad avere consigli elettivi, ma il corpo elettorale fu assai ristretto e fu abbastanza pesante per il controllo delle autorità governative.
L'ordinamento regionale, proposto ancora nel 1870, dopo che la liberazione i Roma aveva fatto cadere le ultime speranze dei sovrani deposti, non sembrava più attuabile. Rimaneva viva, però, l'impressione di un'eccessiva limitazione della rappresentatività e dell'autonomia delle amministrazioni locali. Con la legge 30 dicembre 1890 Crispi estese il voto amministrativo a tutti i cittadini maschi maggiorenni, che sapessero leggere e scrivere e pagassero almeno cinque lire di imposta all'anno. Così, gli elettori amministrativi passarono da due milioni a circa tre milioni e 345 mila. Inoltre i sindaci, fino allora scelti dal governo, furono eletti dai consigli comunali nei capoluoghi di provincia e nelle città con oltre 10 mila abitanti. Anche i presidenti dei consigli provinciali furono resi elettivi.
Non era molto, se si pensa che dopo due anni si sarebbe costituito in Italia il primo partito di massa, il partito socialista, che avrebbe posto nel programma minimo la conquista dei comuni. Ma era parecchio in quell'Italia borghese in cui i tragici fatti del 1898 avrebbero mostrato il peso delle forze reazionarie.
Per il momento la classe dirigente non era in grado di stabilire una democrazia più avanzata di quella offerta dal complesso delle riforme crispine, alcune delle quali sarebbero durate a lungo, oltre l'età di Giolitti e la Grande Guerra.

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