§ Melting pot all'italiana

Se ripartono i bastimenti




Maria Rosaria Pascali



In Italia, il fenomeno dell'emigrazione si è da qualche tempo esaurito e non certo per l'abilità del nostro Paese di fronteggiare le esigenze occupazionali. In prospettiva, la fine delle migrazioni non appare poi così strana, se la si collega ad un andamento demografico ormai vicino alla crescita zero. Ma lo ènella situazione attuale di forte squilibrio sul mercato del lavoro: l'ingresso di soggetti nuovi, quali donne e anziani, tra le componenti attive della popolazione contribuisce, infatti, a mantenere inalterato, quanto meno nel breve termine, lo scarto tra domanda e offerta di lavoro.
Quindi, ad un dato di fatto, qual è quello del venir meno dell'ondata migratoria, si accompagna un affidato di fatto, quello di un tasso di disoccupazione ancora elevato, di cui si prevede una progressiva riduzione, non già come conseguenza volontaria di attive politiche occupazionali, bensì come conseguenza naturale del calo demografico e nella misura in cui si esaurirà quella maggiore offerta proveniente dai soggetti nuovi sopra menzionati.
E' giusto chiedersi, allora, come mai ad una situazione pressoché invariata di squilibrio sul mercato del lavoro non segua più quell'esodo che pure ha caratterizzato la storia del nostro Paese dal 1876 al 1985, con punte elevatissime nel periodo a cavallo tra i due secoli.
Intuitivamente, la presenza di un alto tasso di disoccupazione porta ad escludere che la fine delle migrazioni sia conseguenza diretta di un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Con riferimento al Mezzogiorno d'Italia, si tratta di una verità lampante. Ricordiamo che il grande esodo ha interessato in particolar modo queste aree e che anche in seguito, e fino al 1985, protagoniste delle migrazioni sono state ancora le regioni meridionali. Ma come con il grande esodo il Mezzogiorno non ha tratto alcun beneficio in termini di sviluppo economico, così, attualmente, l'esaurimento del fenomeno non trova alcun riscontro in termini di rinnovato benessere per il popolo meridionale. Le sacche di miseria sono sparse ovunque nel Sud e forse è solo più cresciuta una cultura del "fai da te", che è spirito di sopravvivenza, ma è pure sfiducia nelle istituzioni, allontanamento dallo Stato, mercato nero e che soltanto in materia insignificante si traduce in mobilità.
A nostro parere, la fine dell'evento migratorio deve ricollegarsi principalmente ad una mutata situazione sul mercato internazionale. Oggi non vi è più alcun miraggio di paradisi lontani e quei paesi che hanno ospitato i nostri emigranti si trovano, a loro volta, a dover affrontare gravi crisi economiche, tant'è che assistiamo sempre più alle cosiddette "migrazioni di ritorno".
Anche la diversa struttura della componente attiva della popolazione induce a delle riflessioni. Donne e anziani, per loro natura, sono soggetti con scarsa propensione agli spostamenti e non solo fuori dallo Stato. Eccezioni si possono riscontrare per le donne, ma in linea generale la regola resta valida, soprattutto per donne madri e per donne con basso grado di scolarità. Per la componente giovanile le motivazioni sono diverse, ma il risultato non cambia. Con l'innalzarsi dei livelli medi di istruzione, i giovani sono poco o per nulla disposti ad accettare lavori scarsamente qualificanti e ancor meno disposti a lasciare il Paese, a fronte di una domanda internazionale che, ancor più di quella nazionale, oscilla tra i due estremi del lavoro manuale e di quello altamente qualificato: l'Italia, se è in grado di sfornare un numero indefinito di diplomati e di laureati, solo in minima misura assolve l'esigenza di fornire loro un'adeguata specializzazione.
D'altro canto, è vero che il Paese può al suo interno ovviare alla disoccupazione di origine strutturale, tramite una movimentazione di forze da un'area all'altra, ma solo parzialmente. E a meno che ciò non voglia significare abbandono in massa delle aree depresse, questo rimedio deve essere considerato comunque come contingente e già ampiamente sfruttato, visto che si è avuto un vero e proprio processo di meridionalizzazione del Nord, senza che, nel contempo, nulla sia stato tentato per agevolare il decollo economico e, di conseguenza, sociale del nostro Mezzogiorno. Il dualismo è ancora in atto, anzi aggravato dall'esplosione della criminalità e delle connivenze malavitose.
Stante questa situazione, anche l'afflusso in Italia di migliaia di cittadini stranieri in cerca di occupazione deve essere guardato con occhio critico. Non può argomentarsi da ciò una maggiore capacità del Paese di assorbire forza-lavoro. Si deve piuttosto osservare che l'Italia è per questi soggetti un miraggio analogo a quello che furono le Americhe per i nostri emigranti. Origine del malinteso è la collocazione del Paese al quinto posto nella graduatoria delle potenze più industrializzate del mondo. Invero, è statisticamente provato che le aspettative degli immigrati prima di entrare in Italia sono di gran lunga superiori alle loro attuali condizioni di vita.
Molti di essi desiderano tornare nei luoghi di origine. Gli altri vanno ad alimentare il nero e ad occupare quelle pieghe del mercato che gli italiani non intendono coprire. A ciò si aggiunga una politica nazionale per molto tempo sconsiderata, che ha consentito l'ingresso incontrollato di cittadini extracomunitari ignari, senza assicurare loro un livello minimo di sussistenza e di assistenza sociale.

Popolazioni di origine italiana nel mondo: problematiche (I)

Il fenomeno dell'emigrazione transoceanica italiana, se può considerarsi chiuso nella sua dinamica, non lo è per gli effetti e le questioni etniche a cui ha dato origine nei Paesi di destinazione.
Uno studio approfondito sulle popolazioni di origine italiana nel mondo è stato svolto dal "XXI SECOLO", studi e ricerche della Fondazione Agnelli per il 1990, dal quale abbiamo estrapolato i punti più salienti ai fini di una sintetica rappresentazione delle attuali problematiche.
Il grande esodo, concentratosi in particolare nel periodo che va dal 1880 al 1925, mentre solo in modesta misura ha contribuito ad allentare il peso della disoccupazione nel nostro Paese, è stato invece il reale artefice dello sviluppo economico dei Paesi di destinazione. D'altro canto, stante la perdita di egemonia da parte dell'Italia nella diffusione della propria cultura oltre i confini nazionali, la principale opportunità che resta al Paese per conservare tale presenza in campi diversi da quello economico è costituita proprio dal lascito culturale della vicenda migratoria. Si tratta di un lascito di notevole portata, anche perché la presenza di popolazioni di origine italiana nel mondo è un fenomeno di entità molto più consistente rispetto a quella che si può riscontrare fra le altre etnie. Esso ha coinvolto, tra il 1876 e il 1985, circa 12 milioni di italiani, diretti principalmente nelle Americhe e, di recente, anche in Australia.
"Popolazioni di origine italiana" è espressione molto lata e tale da ricomprendere sia gli emigrati veri e propri, nati in Italia e poi trasferitisi altrove, sia i loro discendenti. Con riferimento alle prime generazioni, si usa parlare di "emigranti italiani" o di "italiani nelle Americhe (o in Australia)", per distinguerli dalle generazioni successive di "americani" (o australiani) di origine italiana".
Questa definizione è fondamentale e ad essa occorre guardare per comprendere le varie articolazioni e sfaccettature del fenomeno. Infatti, non si può pretendere che una molteplicità di soggetti distinti tra loro per generazione, ma anche per zone di insediamento e per luoghi di origine, con esperienze ed eredità culturali profondamente diverse, possano essere omologati e studiati nell'ambito di un'unica grande categoria: "gli emigrati"
Coloro che appartengono alle generazioni successive alla prima sono innanzitutto cittadini dei rispettivi Paesi natali, quindi, innanzitutto, americani o australiani. A tale stregua, il sentirsi in qualche modo di origine italiana si riduce, per questi soggetti, ad un fatto esclusivamente personale e volontario.
Il venir meno di un rapporto familiare diretto con chi ha vissuto in prima persona l'esperienza migratoria determina una sempre maggiore identificazione del soggetto con l'ambiente che lo circonda e il conseguente, spesso netto, distacco dal Paese d'origine, come dimostra il crescente "orientamento esogamico", cioè fuori dal gruppo, dei matrimoni contratti dagli americani di origine italiana. Questa conseguenza è più accentuata nella società in cui non viene tutelato il carattere multiculturale della popolazione. Al contrario, nei Paesi - come il Canada e l'Australia - che, invece di assimilare, proteggono la specificità delle etnie, aumentano le possibilità di sopravvivenza della lingua e delle tradizioni italiane.
Gli Stati Uniti rappresentano uno di quei casi in cui più difficile è il mantenimento delle proprie origini. Un buon inserimento economico e sociale, un notevole coinvolgimento nella vita attiva del Paese, l'assenza di politiche multiculturali, l'avvicinarsi di quella che è ormai la quarta generazione di cittadini di origine italiana sono tutti elementi che tendono a recidere i legami etnici. Tuttavia, la presenza notevole, per entità e per tempo di insediamento, di americani di origine italiana ha dato vita a fenomeni di "etnogenesi", cioè "di definizione di una identità italoamericana specifica", che non è l'anticamera di una integrale americanizzazione, né tanto meno un ulteriore elemento di perdita dell'eredità culturale italiana, ma piuttosto "una specifica modalità dell'essere americani". E' questa la "nuova etnicità", che si riscontra in maggiore o minore misura in tutte le etnie esistenti nella società americana.
Per l'Argentina il discorso è un po' diverso. Qui la riscoperta dell'italianità non è stata un fatto spontaneo, ma la stretta conseguenza della grave crisi che ha investito il Paese nell'ultimo decennio. A partire dalla seconda metà degli anni '80, assieme con le richieste di cittadinanza è aumentato anche il numero dei rimpatri. Tra la fine del 1989 e i primi mesi del 1990, i rientri sono addirittura raddoppiati rispetto al periodo precedente. Nella maggioranza dei casi, si tratta di giovani tra i 25 e i 0 anni, di seconda, terza o quarta generazione, muniti di cittadinanza italiana, che dell'Italia poco o nulla sanno. Per questo, per molti di essi l'impatto con il Paese di origine è traumatico: l'Italia si presenta come una terra sconosciuta, a cui sono estranei per lingua, cultura, preparazione lavorativa.
Un fenomeno analogo, sia pure più contenuto, si verifica in Brasile e in Uruguay. In questi casi, peraltro, le numerose richieste di cittadinanza non sono necessariamente preordinate ad un imminente rientro in Italia, ma costituiscono piuttosto una manovra prudenziale in previsione di ulteriori peggioramenti della condizione economica di tali Paesi. Altre volte poi, i rientri sono finalizzati ad un nuovo espatrio verso altre nazioni europee, gli Stati Uniti o l'Australia: l'ingresso in questi Stati, infatti, è più agevole quando chi lo richiede è cittadino italiano.

 

Migrazioni di ritorno

Argentina, Brasile, Uruguay sono i Paesi maggiormente coinvolti nella cosiddetta "migrazione di ritorno", fenomeno diametralmente opposto a quello dell'emigrazione transoceanica. Come già detto, i rientri conseguono ad una situazione di grave crisi socio-economica ed interessano soprattutto soggetti di origine italiana di seconda, terza, quarta generazione.
A rigore, di vera e propria "migrazione di ritorno" non potrebbe parlarsi, visto che gli attuali protagonisti del "deflusso" sono individui diversi da quelli che hanno vissuto in prima persona l'esperienza migratoria. In ogni caso, il fenomeno non è nuovo nella nostra storia: se pure infittitosi solo a partire dalla metà degli anni '80, esso è esistito anche prima e nella forma sua propria, ossia come risvolto di migrazioni fallimentari o come conclusione di esodi transitori o, ancora, come naturale conseguenza della fine di una lunga carriera lavorativa nei Paesi di insediamento.
I motivi che spingono questi soggetti a tornare in Italia sono idonei a spiegare altresì i criteri seguiti nella scelta della regione in cui vivere. Questa scelta, infatti, non dipende dall'esistenza in una determinata zona di vincoli di parentela, ma dalla presenza di serie prospettive occupazionali. Ciò fa comprendere perché il Piemonte sia la sede privilegiata dei rientri e perché il 50% di essi si concentri proprio a Torino.

Movimento e peso dell'italianità nel mondo (II)

Le questioni sorte attorno alla vicenda migratoria e al suo lascito sono molteplici. Importanza particolare rivestono quelle sulle condizioni socio-economiche degli immigrati e sulla loro capacità di mantenere e di tramandare alle successive generazioni la propria etnicità. Negli Stati Uniti, quest'ultima questione è stata per lungo tempo risolta in modo naturale dalle cosiddette "Little Italies", quartieri situati al centro delle grandi città e abitati interamente da italiani.
Nelle "Little Italies" sono riprodotti in piccolo tutti i caratteri della nostra società: ristoranti, pizzerie, caffè sono tipicamente italiani; così pure la lingua, o più spesso il dialetto, è quella del paese d'origine. Proprio queste "isole di cultura italiana", alimentate dai continui flussi di arrivo di nuovi immigrati, hanno consentito per varie generazioni di mantenere alto il livello di italianità negli Stati Uniti.
Oggi non è più la stessa cosa. La maggior parte della popolazione di origine italiana vive in zone residenziali, mentre le "Little Italies", sopraffatte anche dall'enorme sviluppo di altri insediamenti etnici, come le "Chinatowns", assolvono ormai un ruolo di mera attrazione turistica.
Ma c'è un'altra questione, non meno rilevante delle prime due sopra citate. Ed è quella del peso che cultura e tradizioni italiane hanno avuto nei vari Paesi di insediamento. Questo problema si presenta fortemente differenziato per aree e non concerne specificamente la diffusione dell'alta cultura nazionale. Invero, protagonisti delle migrazioni sono stati soprattutto uomini con basso grado di scolarità. La presenza di intellettuali è stata minima e, comunque, non è ad essa che possiamo attribuire il merito dell'affermarsi di una cultura etnica, laddove questo si è verificato.
In realtà, oggetto di trasmissione sono stati soprattutto i "modelli della cultura materiale", come cucina e architettura vernacolari. Questi modelli hanno avuto larga diffusione negli Stati Uniti. In Canada e in Australia, data la natura più recente del fenomeno migratorio, l'emergere di un'identità etnica forte è ancora allo stato potenziale. E' pressoché nulla, invece, in America Latina. Qui, a causa di politiche che prevedono il rapido assorbimento nella società delle presenze etniche, lo sviluppo della cultura italiana è svincolato dalle vicende migratorie, né ad esse fanno riferimento le più importanti opere intellettuali locali.
In Argentina, la collettività italiana ha dato certamente un contributo notevole allo sviluppo del movimento operaio e nelle varie fasi dello sviluppo politico, a partire dal Risorgimento fino all'influenza anarchica dei primi del Novecento. Invece, non si riscontrano, nella produzione letteraria e artistica dei pur numerosi autori di origine italiana, contenuti che ricalchino situazioni tipicamente italiane o italoargentine.
Lo stesso vale per il Brasile, con alcune importanti eccezioni, tra cui è da ricordare il grande successo che ebbe il teatro operaio tra i primi del Novecento e il 1920.
Negli Stati Uniti, invece, la produzione di opere culturali che ripercorrono le tematiche connesse al fenomeno migratorio è ricchissima e abbraccia un po' tutti i campi: narrativa, critica, giornalismo, cinema (con le famose rappresentazioni dell'esperienza italo-americana di Francis Coppola e di Martin Scorzese).

Melting pot e new ethnicity

L'impatto fra culture diverse è sempre stato alla base del dibattito sul rapporto da instaurare tra Paesi di immigrazione e gruppi etnici ivi insediati. La questione è stata particolarmente sentita dai Paesi a forte immigrazione e, quindi, soprattutto dagli Stati Uniti, dove sono state elaborate e messe in pratica le prime teorizzazioni a riguardo, poi accolte da altri Paesi ad alta presenza etnica.
Ricordiamo che negli Stati Uniti è mancato un vero orientamento multiculturale anche nella fase di massima apertura verso le problematiche degli immigrati, la cosiddetta "new ethnicity". Al contrario, è per lungo tempo prevalso l'orientamento opposto, teso ad assorbire le differenze etniche nell'ambito dell'unica grande società americana.
Nell'Ottocento, questa politica prese il nome di "Angloconformity": modello-base dell'unificazione fu quello originario anglosassone. In seguito, si ebbe un irrigidimento di tale posizione: la seconda ondata migratoria, proveniente dall'Europa sud orientale, portò con sé elementi cattolici ed ebraici molto combattivi che furono ritenuti destabilizzanti per il Paese, in quanto tesi a minare il carattere unitario impresso al suo corpo sociale. Sono propri di questa fase gli orientamenti del "nativismo" e del "teutonismo".
Quest'ultimo postulava un'apertura limitata alle sole componenti del Nord Europa. E fu di fatto accolto sul piano legislativo, nel 1924, con l'approvazione del "Quota Act", che prevedeva una restrizione delle immigrazioni proporzionalmente alle presenze di ciascun Paese sul suolo americano nel 1880.
Negli anni '10, raccolse ampi suffragi un'altra teoria, quella del "melting pot" o, letteralmente, "Crogiuolo": gli Stati Uniti, cioè, venivano intesi come un "crogiuolo di razze", destinate a perdere le proprie caratteristiche per andare a formare una nuova identità, "un nuovo uomo americano". Il concetto fu adottato anche in Brasile e in Argentina, ma in nessun caso ebbe applicazioni conformi al suo significato più intimo.
Implicita nel concetto di crogiuolo era una considerazione paritaria delle varie identità etniche e quindi anche di quella anglosassone. In realtà, il termine non fu usato in questo senso e non ci fu alcuna fusione di etnie in una identità veramente nuova. Continuò invece il processo di assimilazione, quindi di omologazione, dei caratteri propri dei diversi gruppi etnici ai modelli tipici della tradizione americana.
Negli anni '30, che segnarono il definitivo declino dell'immigrazione italiana negli Stati Uniti, il problema dei rapporti con le culture etniche continuò ad essere al centro del dibattito.
Con il "new deal", numerosi uomini di cultura abbracciarono la teoria del "pluralismo culturale", in base alla quale ogni immigrato ha diritto di conservare la propria identità etnica, pur nel rispetto dei principi fondamentali della società che lo ha accolto. Questa teoria, che in Canada e in Australia ebbe molto successo e si tradusse in concrete politiche multiculturali, negli Stati Uniti rimase ristretta ai gruppi intellettuali e solo negli anni '70 recuperò terreno, confluendo nel movimento per la "new ethnicity". La ribellione dei neri per il riconoscimento dei propri diritti civili fu presa come esempio dagli altri gruppi etnici, i quali pure cominciarono ad avanzare pretese in senso politico, oltre che culturale: matrice comune alla proteste fu proprio la diversa origine etnica dei soggetti interessati. Il "revival etnico" che ne derivò condusse ad un rinnovato interesse per le lingue e per le tradizioni popolari dei rispettivi Paesi d'origine. Proliferarono, in questo periodo, sia gli studi e le ricerche sull'emigrazione transoceanica sia numerose forme di associazionismo culturale.
La "new ethnicity", lo ripetiamo, non si tradusse (tranne che nel caso degli "ispanici") in una istituzionalizzazione del pluriculturalismo, ma assolse un ruolo egualmente importante, attraverso il riconoscimento del carattere multietnico della società americana: carattere rivelatosi insopprimibile, data la sua estrema flessibilità e, quindi, capacità di sopravvivere a qualsiasi forma di restrizione.

Situazione socio-economica degli immigrati

Negli Stati Uniti, l'ondata migratoria ha riguardato, tra il 1880 e il 1924, ben quattro milioni di italiani, provenienti soprattutto dal Meridione. Nonostante le origini contadine, essi hanno preferito insediarsi nei grandi centri industriali della Costa orientale e in California e svolgere attività urbane. Dal censimento del 1980, è emerso che la maggior parte degli americani di origine italiana gode di un reddito elevato e di una posizione sociale invidiabile: i dirigenti, i professionisti e gli impiegati sono passati dal 22%, nel 1950, al 47%, mentre si è ridotta dal 52 al 28% l'aliquota di operai. Di pari passo, è aumentato il grado di scolarità, che raggiunge e talvolta supera la media nazionale.
In Argentina, secondo Paese dopo gli Stati Uniti a forte immigrazione italiana (circa tre milioni, tra il 1876 e il 1976), il flusso è stato caratterizzato da elementi di provenienza ligure, piemontese e, più generalmente, settentrionale. Solo dagli inizi del Novecento si è avuta un'inversione di tendenza a favore dell'immigrazione di origine meridionale. La principale arca di insediamento è stata la provincia di Buenos Aires, ma con il tempo gli arrivi si sono spostati verso l'interno. Oggi gli italiani sono dislocati, oltre che a Buenos Aires, nelle province di Santa Fe, Cordoba e Mendoza. L'ingente presenza ligure delle prime immigrazioni ha determinato, nella seconda metà dell'Ottocento, la conquista da parte dell'Italia del monopolio del cabotaggio e della navigazione fluviale.
Nel primo decennio del nostro secolo, circa la metà delle industrie meccaniche, metallurgiche, tessili, alimentari e delle costruzioni di Buenos Aires era di proprietà italiana. Dal censimento del 1980, un terzo dei nati in Italia risultava impiegato nell'industria, il 23% nel commercio, il 13% nei servizi, l'11% nell'edilizia e solo il 3,9% nell'agricoltura.
Il Brasile ha accolto, tra il 1875 e il 1988, quasi un milione e mezzo di immigrati italiani. Il 20% degli arrivi è di provenienza veneta, ma non sono mancate le altre presenze regionali. E' stata poi una costante dell'emigrazione italiana in quest'area l'alta percentuale di affluenza femminile e familiare. Fino al 1915, il flusso ha avuto carattere essenzialmente agricolo e solo fra le due guerre è aumentato il numero di operai e di manovali. Gli anni '70, invece, sono stati caratterizzati da un notevole sviluppo di figure tecniche e manageriali. L'ondata migratoria ha iniziato a declinare nel 1902, a causa della difficile condizione di vita dei coloni, determinata dalla sovrapproduzione di caffè. Ha contribuito al declino anche la diffidenza dell'Italia verso i viaggi pagati agli emigranti dal governo brasiliano. Principali zone di insediamento sono state Rio Grande do Sul, Paranà, Santa Catarina e lo Stato di São Paulo, dove oggi vive la maggior parte dei brasiliani di origine italiana.
In Canada, l'immigrazione italiana si è concentrata soprattutto nel secondo dopoguerra, con un numero di arrivi pari a 500.000, contro un totale che, nell'arco di un secolo, non ha raggiunto le 700.000 unità. Oggi la consistenza complessiva degli italo-canadesi supera il milione. Principali paesi di provenienza sono state le regioni meridionali, in primo luogo la Calabria e la Sicilia. Il flusso si è diretto verso le aree urbane di Toronto, Montreal e Vancouver, dove vive tuttora il 95% degli italo-canadesi. Per quanto concerne il mercato del lavoro, le maggiori presenze italiane si riscontrano nel settore manifatturiero, seguito da quello impiegatizio, dei servizi, delle costruzioni e del commercio. Il reddito medio degli italo-canadesi è, comunque, di poco inferiore alla media nazionale.
Anche in Australia, la grande ondata migratoria si è verificata solo nel secondo dopoguerra, grazie ad un accordo di emigrazione assistita intervenuto con l'Italia. Secondo il censimento del 1981, la comunità di origine italiana contava a tale data circa 540.000 unità, delle quali quasi la metà era dotata di doppia cittadinanza.
Le principali regioni di provenienza sono state, nell'ordine, Sicilia, Calabria, Veneto, Abruzzo, Campania, Friuli e Marche. Gli arrivi si sono concentrati in un primo tempo nelle zone rurali (Queensland settentrionale, New South Wales, Vittoria nord-orientale, Mildura SA, Port Pirie SA), con successivi trasferimenti verso le aree urbane. Oggi i gruppi di origine italiana si ritrovano soprattutto nelle grandi città, in particolare a Melbourne e a Sidney e sono impiegati nei settori dell'industria, dell'edilizia e dell'artigianato.
L'immigrazione italiana in Uruguay, finita ormai da alcuni decenni, a causa della grave crisi economica e politica del Paese, ha origini antiche. Già nel periodo risorgimentale, la nazione è stata la meta preferita di migliaia di garibaldini e di rifugiati politici. Secondo il censimento del 1975, su 131.000 stranieri, 21.281 erano italiani e costituivano la seconda comunità etnica dopo quella degli spagnoli. Si sono riversati in Uruguay piemontesi, liguri, siciliani e calabresi, la maggior parte dei quali ha scelto di vivere nelle aree urbane di Montevideo, Salto e Paysandu. Per quanto riguarda il lato socio-economico, le prime immigrazioni sono state caratterizzate da una considerevole presenza di esperti della navigazione. Con il tempo, la collettività di origine italiana si è indirizzata verso le altre attività presenti nel territorio.


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