In Italia, il
fenomeno dell'emigrazione si è da qualche tempo esaurito e
non certo per l'abilità del nostro Paese di fronteggiare le
esigenze occupazionali. In prospettiva, la fine delle migrazioni non
appare poi così strana, se la si collega ad un andamento demografico
ormai vicino alla crescita zero. Ma lo ènella situazione attuale
di forte squilibrio sul mercato del lavoro: l'ingresso di soggetti
nuovi, quali donne e anziani, tra le componenti attive della popolazione
contribuisce, infatti, a mantenere inalterato, quanto meno nel breve
termine, lo scarto tra domanda e offerta di lavoro.
Quindi, ad un dato di fatto, qual è quello del venir meno dell'ondata
migratoria, si accompagna un affidato di fatto, quello di un tasso
di disoccupazione ancora elevato, di cui si prevede una progressiva
riduzione, non già come conseguenza volontaria di attive politiche
occupazionali, bensì come conseguenza naturale del calo demografico
e nella misura in cui si esaurirà quella maggiore offerta proveniente
dai soggetti nuovi sopra menzionati.
E' giusto chiedersi, allora, come mai ad una situazione pressoché
invariata di squilibrio sul mercato del lavoro non segua più
quell'esodo che pure ha caratterizzato la storia del nostro Paese
dal 1876 al 1985, con punte elevatissime nel periodo a cavallo tra
i due secoli.
Intuitivamente, la presenza di un alto tasso di disoccupazione porta
ad escludere che la fine delle migrazioni sia conseguenza diretta
di un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. Con
riferimento al Mezzogiorno d'Italia, si tratta di una verità
lampante. Ricordiamo che il grande esodo ha interessato in particolar
modo queste aree e che anche in seguito, e fino al 1985, protagoniste
delle migrazioni sono state ancora le regioni meridionali. Ma come
con il grande esodo il Mezzogiorno non ha tratto alcun beneficio in
termini di sviluppo economico, così, attualmente, l'esaurimento
del fenomeno non trova alcun riscontro in termini di rinnovato benessere
per il popolo meridionale. Le sacche di miseria sono sparse ovunque
nel Sud e forse è solo più cresciuta una cultura del
"fai da te", che è spirito di sopravvivenza, ma è
pure sfiducia nelle istituzioni, allontanamento dallo Stato, mercato
nero e che soltanto in materia insignificante si traduce in mobilità.
A nostro parere, la fine dell'evento migratorio deve ricollegarsi
principalmente ad una mutata situazione sul mercato internazionale.
Oggi non vi è più alcun miraggio di paradisi lontani
e quei paesi che hanno ospitato i nostri emigranti si trovano, a loro
volta, a dover affrontare gravi crisi economiche, tant'è che
assistiamo sempre più alle cosiddette "migrazioni di ritorno".
Anche la diversa struttura della componente attiva della popolazione
induce a delle riflessioni. Donne e anziani, per loro natura, sono
soggetti con scarsa propensione agli spostamenti e non solo fuori
dallo Stato. Eccezioni si possono riscontrare per le donne, ma in
linea generale la regola resta valida, soprattutto per donne madri
e per donne con basso grado di scolarità. Per la componente
giovanile le motivazioni sono diverse, ma il risultato non cambia.
Con l'innalzarsi dei livelli medi di istruzione, i giovani sono poco
o per nulla disposti ad accettare lavori scarsamente qualificanti
e ancor meno disposti a lasciare il Paese, a fronte di una domanda
internazionale che, ancor più di quella nazionale, oscilla
tra i due estremi del lavoro manuale e di quello altamente qualificato:
l'Italia, se è in grado di sfornare un numero indefinito di
diplomati e di laureati, solo in minima misura assolve l'esigenza
di fornire loro un'adeguata specializzazione.
D'altro canto, è vero che il Paese può al suo interno
ovviare alla disoccupazione di origine strutturale, tramite una movimentazione
di forze da un'area all'altra, ma solo parzialmente. E a meno che
ciò non voglia significare abbandono in massa delle aree depresse,
questo rimedio deve essere considerato comunque come contingente e
già ampiamente sfruttato, visto che si è avuto un vero
e proprio processo di meridionalizzazione del Nord, senza che, nel
contempo, nulla sia stato tentato per agevolare il decollo economico
e, di conseguenza, sociale del nostro Mezzogiorno. Il dualismo è
ancora in atto, anzi aggravato dall'esplosione della criminalità
e delle connivenze malavitose.
Stante questa situazione, anche l'afflusso in Italia di migliaia di
cittadini stranieri in cerca di occupazione deve essere guardato con
occhio critico. Non può argomentarsi da ciò una maggiore
capacità del Paese di assorbire forza-lavoro. Si deve piuttosto
osservare che l'Italia è per questi soggetti un miraggio analogo
a quello che furono le Americhe per i nostri emigranti. Origine del
malinteso è la collocazione del Paese al quinto posto nella
graduatoria delle potenze più industrializzate del mondo. Invero,
è statisticamente provato che le aspettative degli immigrati
prima di entrare in Italia sono di gran lunga superiori alle loro
attuali condizioni di vita.
Molti di essi desiderano tornare nei luoghi di origine. Gli altri
vanno ad alimentare il nero e ad occupare quelle pieghe del mercato
che gli italiani non intendono coprire. A ciò si aggiunga una
politica nazionale per molto tempo sconsiderata, che ha consentito
l'ingresso incontrollato di cittadini extracomunitari ignari, senza
assicurare loro un livello minimo di sussistenza e di assistenza sociale.
Popolazioni
di origine italiana nel mondo: problematiche (I)
Il fenomeno dell'emigrazione
transoceanica italiana, se può considerarsi chiuso nella sua
dinamica, non lo è per gli effetti e le questioni etniche a
cui ha dato origine nei Paesi di destinazione.
Uno studio approfondito sulle popolazioni di origine italiana nel
mondo è stato svolto dal "XXI SECOLO", studi e ricerche
della Fondazione Agnelli per il 1990, dal quale abbiamo estrapolato
i punti più salienti ai fini di una sintetica rappresentazione
delle attuali problematiche.
Il grande esodo, concentratosi in particolare nel periodo che va dal
1880 al 1925, mentre solo in modesta misura ha contribuito ad allentare
il peso della disoccupazione nel nostro Paese, è stato invece
il reale artefice dello sviluppo economico dei Paesi di destinazione.
D'altro canto, stante la perdita di egemonia da parte dell'Italia
nella diffusione della propria cultura oltre i confini nazionali,
la principale opportunità che resta al Paese per conservare
tale presenza in campi diversi da quello economico è costituita
proprio dal lascito culturale della vicenda migratoria. Si tratta
di un lascito di notevole portata, anche perché la presenza
di popolazioni di origine italiana nel mondo è un fenomeno
di entità molto più consistente rispetto a quella che
si può riscontrare fra le altre etnie. Esso ha coinvolto, tra
il 1876 e il 1985, circa 12 milioni di italiani, diretti principalmente
nelle Americhe e, di recente, anche in Australia.
"Popolazioni di origine italiana" è espressione molto
lata e tale da ricomprendere sia gli emigrati veri e propri, nati
in Italia e poi trasferitisi altrove, sia i loro discendenti. Con
riferimento alle prime generazioni, si usa parlare di "emigranti
italiani" o di "italiani nelle Americhe (o in Australia)",
per distinguerli dalle generazioni successive di "americani"
(o australiani) di origine italiana".
Questa definizione è fondamentale e ad essa occorre guardare
per comprendere le varie articolazioni e sfaccettature del fenomeno.
Infatti, non si può pretendere che una molteplicità
di soggetti distinti tra loro per generazione, ma anche per zone di
insediamento e per luoghi di origine, con esperienze ed eredità
culturali profondamente diverse, possano essere omologati e studiati
nell'ambito di un'unica grande categoria: "gli emigrati"
Coloro che appartengono alle generazioni successive alla prima sono
innanzitutto cittadini dei rispettivi Paesi natali, quindi, innanzitutto,
americani o australiani. A tale stregua, il sentirsi in qualche modo
di origine italiana si riduce, per questi soggetti, ad un fatto esclusivamente
personale e volontario.
Il venir meno di un rapporto familiare diretto con chi ha vissuto
in prima persona l'esperienza migratoria determina una sempre maggiore
identificazione del soggetto con l'ambiente che lo circonda e il conseguente,
spesso netto, distacco dal Paese d'origine, come dimostra il crescente
"orientamento esogamico", cioè fuori dal gruppo,
dei matrimoni contratti dagli americani di origine italiana. Questa
conseguenza è più accentuata nella società in
cui non viene tutelato il carattere multiculturale della popolazione.
Al contrario, nei Paesi - come il Canada e l'Australia - che, invece
di assimilare, proteggono la specificità delle etnie, aumentano
le possibilità di sopravvivenza della lingua e delle tradizioni
italiane.
Gli Stati Uniti rappresentano uno di quei casi in cui più difficile
è il mantenimento delle proprie origini. Un buon inserimento
economico e sociale, un notevole coinvolgimento nella vita attiva
del Paese, l'assenza di politiche multiculturali, l'avvicinarsi di
quella che è ormai la quarta generazione di cittadini di origine
italiana sono tutti elementi che tendono a recidere i legami etnici.
Tuttavia, la presenza notevole, per entità e per tempo di insediamento,
di americani di origine italiana ha dato vita a fenomeni di "etnogenesi",
cioè "di definizione di una identità italoamericana
specifica", che non è l'anticamera di una integrale americanizzazione,
né tanto meno un ulteriore elemento di perdita dell'eredità
culturale italiana, ma piuttosto "una specifica modalità
dell'essere americani". E' questa la "nuova etnicità",
che si riscontra in maggiore o minore misura in tutte le etnie esistenti
nella società americana.
Per l'Argentina il discorso è un po' diverso. Qui la riscoperta
dell'italianità non è stata un fatto spontaneo, ma la
stretta conseguenza della grave crisi che ha investito il Paese nell'ultimo
decennio. A partire dalla seconda metà degli anni '80, assieme
con le richieste di cittadinanza è aumentato anche il numero
dei rimpatri. Tra la fine del 1989 e i primi mesi del 1990, i rientri
sono addirittura raddoppiati rispetto al periodo precedente. Nella
maggioranza dei casi, si tratta di giovani tra i 25 e i 0 anni, di
seconda, terza o quarta generazione, muniti di cittadinanza italiana,
che dell'Italia poco o nulla sanno. Per questo, per molti di essi
l'impatto con il Paese di origine è traumatico: l'Italia si
presenta come una terra sconosciuta, a cui sono estranei per lingua,
cultura, preparazione lavorativa.
Un fenomeno analogo, sia pure più contenuto, si verifica in
Brasile e in Uruguay. In questi casi, peraltro, le numerose richieste
di cittadinanza non sono necessariamente preordinate ad un imminente
rientro in Italia, ma costituiscono piuttosto una manovra prudenziale
in previsione di ulteriori peggioramenti della condizione economica
di tali Paesi. Altre volte poi, i rientri sono finalizzati ad un nuovo
espatrio verso altre nazioni europee, gli Stati Uniti o l'Australia:
l'ingresso in questi Stati, infatti, è più agevole quando
chi lo richiede è cittadino italiano.
Migrazioni
di ritorno
Argentina, Brasile,
Uruguay sono i Paesi maggiormente coinvolti nella cosiddetta "migrazione
di ritorno", fenomeno diametralmente opposto a quello dell'emigrazione
transoceanica. Come già detto, i rientri conseguono ad una
situazione di grave crisi socio-economica ed interessano soprattutto
soggetti di origine italiana di seconda, terza, quarta generazione.
A rigore, di vera e propria "migrazione di ritorno" non
potrebbe parlarsi, visto che gli attuali protagonisti del "deflusso"
sono individui diversi da quelli che hanno vissuto in prima persona
l'esperienza migratoria. In ogni caso, il fenomeno non è nuovo
nella nostra storia: se pure infittitosi solo a partire dalla metà
degli anni '80, esso è esistito anche prima e nella forma sua
propria, ossia come risvolto di migrazioni fallimentari o come conclusione
di esodi transitori o, ancora, come naturale conseguenza della fine
di una lunga carriera lavorativa nei Paesi di insediamento.
I motivi che spingono questi soggetti a tornare in Italia sono idonei
a spiegare altresì i criteri seguiti nella scelta della regione
in cui vivere. Questa scelta, infatti, non dipende dall'esistenza
in una determinata zona di vincoli di parentela, ma dalla presenza
di serie prospettive occupazionali. Ciò fa comprendere perché
il Piemonte sia la sede privilegiata dei rientri e perché il
50% di essi si concentri proprio a Torino.
Movimento e
peso dell'italianità nel mondo (II)
Le questioni sorte
attorno alla vicenda migratoria e al suo lascito sono molteplici.
Importanza particolare rivestono quelle sulle condizioni socio-economiche
degli immigrati e sulla loro capacità di mantenere e di tramandare
alle successive generazioni la propria etnicità. Negli Stati
Uniti, quest'ultima questione è stata per lungo tempo risolta
in modo naturale dalle cosiddette "Little Italies", quartieri
situati al centro delle grandi città e abitati interamente
da italiani.
Nelle "Little Italies" sono riprodotti in piccolo tutti
i caratteri della nostra società: ristoranti, pizzerie, caffè
sono tipicamente italiani; così pure la lingua, o più
spesso il dialetto, è quella del paese d'origine. Proprio queste
"isole di cultura italiana", alimentate dai continui flussi
di arrivo di nuovi immigrati, hanno consentito per varie generazioni
di mantenere alto il livello di italianità negli Stati Uniti.
Oggi non è più la stessa cosa. La maggior parte della
popolazione di origine italiana vive in zone residenziali, mentre
le "Little Italies", sopraffatte anche dall'enorme sviluppo
di altri insediamenti etnici, come le "Chinatowns", assolvono
ormai un ruolo di mera attrazione turistica.
Ma c'è un'altra questione, non meno rilevante delle prime due
sopra citate. Ed è quella del peso che cultura e tradizioni
italiane hanno avuto nei vari Paesi di insediamento. Questo problema
si presenta fortemente differenziato per aree e non concerne specificamente
la diffusione dell'alta cultura nazionale. Invero, protagonisti delle
migrazioni sono stati soprattutto uomini con basso grado di scolarità.
La presenza di intellettuali è stata minima e, comunque, non
è ad essa che possiamo attribuire il merito dell'affermarsi
di una cultura etnica, laddove questo si è verificato.
In realtà, oggetto di trasmissione sono stati soprattutto i
"modelli della cultura materiale", come cucina e architettura
vernacolari. Questi modelli hanno avuto larga diffusione negli Stati
Uniti. In Canada e in Australia, data la natura più recente
del fenomeno migratorio, l'emergere di un'identità etnica forte
è ancora allo stato potenziale. E' pressoché nulla,
invece, in America Latina. Qui, a causa di politiche che prevedono
il rapido assorbimento nella società delle presenze etniche,
lo sviluppo della cultura italiana è svincolato dalle vicende
migratorie, né ad esse fanno riferimento le più importanti
opere intellettuali locali.
In Argentina, la collettività italiana ha dato certamente un
contributo notevole allo sviluppo del movimento operaio e nelle varie
fasi dello sviluppo politico, a partire dal Risorgimento fino all'influenza
anarchica dei primi del Novecento. Invece, non si riscontrano, nella
produzione letteraria e artistica dei pur numerosi autori di origine
italiana, contenuti che ricalchino situazioni tipicamente italiane
o italoargentine.
Lo stesso vale per il Brasile, con alcune importanti eccezioni, tra
cui è da ricordare il grande successo che ebbe il teatro operaio
tra i primi del Novecento e il 1920.
Negli Stati Uniti, invece, la produzione di opere culturali che ripercorrono
le tematiche connesse al fenomeno migratorio è ricchissima
e abbraccia un po' tutti i campi: narrativa, critica, giornalismo,
cinema (con le famose rappresentazioni dell'esperienza italo-americana
di Francis Coppola e di Martin Scorzese).
Melting pot
e new ethnicity
L'impatto fra
culture diverse è sempre stato alla base del dibattito sul
rapporto da instaurare tra Paesi di immigrazione e gruppi etnici ivi
insediati. La questione è stata particolarmente sentita dai
Paesi a forte immigrazione e, quindi, soprattutto dagli Stati Uniti,
dove sono state elaborate e messe in pratica le prime teorizzazioni
a riguardo, poi accolte da altri Paesi ad alta presenza etnica.
Ricordiamo che negli Stati Uniti è mancato un vero orientamento
multiculturale anche nella fase di massima apertura verso le problematiche
degli immigrati, la cosiddetta "new ethnicity". Al contrario,
è per lungo tempo prevalso l'orientamento opposto, teso ad
assorbire le differenze etniche nell'ambito dell'unica grande società
americana.
Nell'Ottocento, questa politica prese il nome di "Angloconformity":
modello-base dell'unificazione fu quello originario anglosassone.
In seguito, si ebbe un irrigidimento di tale posizione: la seconda
ondata migratoria, proveniente dall'Europa sud orientale, portò
con sé elementi cattolici ed ebraici molto combattivi che furono
ritenuti destabilizzanti per il Paese, in quanto tesi a minare il
carattere unitario impresso al suo corpo sociale. Sono propri di questa
fase gli orientamenti del "nativismo" e del "teutonismo".
Quest'ultimo postulava un'apertura limitata alle sole componenti del
Nord Europa. E fu di fatto accolto sul piano legislativo, nel 1924,
con l'approvazione del "Quota Act", che prevedeva una restrizione
delle immigrazioni proporzionalmente alle presenze di ciascun Paese
sul suolo americano nel 1880.
Negli anni '10, raccolse ampi suffragi un'altra teoria, quella del
"melting pot" o, letteralmente, "Crogiuolo": gli
Stati Uniti, cioè, venivano intesi come un "crogiuolo
di razze", destinate a perdere le proprie caratteristiche per
andare a formare una nuova identità, "un nuovo uomo americano".
Il concetto fu adottato anche in Brasile e in Argentina, ma in nessun
caso ebbe applicazioni conformi al suo significato più intimo.
Implicita nel concetto di crogiuolo era una considerazione paritaria
delle varie identità etniche e quindi anche di quella anglosassone.
In realtà, il termine non fu usato in questo senso e non ci
fu alcuna fusione di etnie in una identità veramente nuova.
Continuò invece il processo di assimilazione, quindi di omologazione,
dei caratteri propri dei diversi gruppi etnici ai modelli tipici della
tradizione americana.
Negli anni '30, che segnarono il definitivo declino dell'immigrazione
italiana negli Stati Uniti, il problema dei rapporti con le culture
etniche continuò ad essere al centro del dibattito.
Con il "new deal", numerosi uomini di cultura abbracciarono
la teoria del "pluralismo culturale", in base alla quale
ogni immigrato ha diritto di conservare la propria identità
etnica, pur nel rispetto dei principi fondamentali della società
che lo ha accolto. Questa teoria, che in Canada e in Australia ebbe
molto successo e si tradusse in concrete politiche multiculturali,
negli Stati Uniti rimase ristretta ai gruppi intellettuali e solo
negli anni '70 recuperò terreno, confluendo nel movimento per
la "new ethnicity". La ribellione dei neri per il riconoscimento
dei propri diritti civili fu presa come esempio dagli altri gruppi
etnici, i quali pure cominciarono ad avanzare pretese in senso politico,
oltre che culturale: matrice comune alla proteste fu proprio la diversa
origine etnica dei soggetti interessati. Il "revival etnico"
che ne derivò condusse ad un rinnovato interesse per le lingue
e per le tradizioni popolari dei rispettivi Paesi d'origine. Proliferarono,
in questo periodo, sia gli studi e le ricerche sull'emigrazione transoceanica
sia numerose forme di associazionismo culturale.
La "new ethnicity", lo ripetiamo, non si tradusse (tranne
che nel caso degli "ispanici") in una istituzionalizzazione
del pluriculturalismo, ma assolse un ruolo egualmente importante,
attraverso il riconoscimento del carattere multietnico della società
americana: carattere rivelatosi insopprimibile, data la sua estrema
flessibilità e, quindi, capacità di sopravvivere a qualsiasi
forma di restrizione.
Situazione
socio-economica degli immigrati
Negli Stati Uniti,
l'ondata migratoria ha riguardato, tra il 1880 e il 1924, ben quattro
milioni di italiani, provenienti soprattutto dal Meridione. Nonostante
le origini contadine, essi hanno preferito insediarsi nei grandi centri
industriali della Costa orientale e in California e svolgere attività
urbane. Dal censimento del 1980, è emerso che la maggior parte
degli americani di origine italiana gode di un reddito elevato e di
una posizione sociale invidiabile: i dirigenti, i professionisti e
gli impiegati sono passati dal 22%, nel 1950, al 47%, mentre si è
ridotta dal 52 al 28% l'aliquota di operai. Di pari passo, è
aumentato il grado di scolarità, che raggiunge e talvolta supera
la media nazionale.
In Argentina, secondo Paese dopo gli Stati Uniti a forte immigrazione
italiana (circa tre milioni, tra il 1876 e il 1976), il flusso è
stato caratterizzato da elementi di provenienza ligure, piemontese
e, più generalmente, settentrionale. Solo dagli inizi del Novecento
si è avuta un'inversione di tendenza a favore dell'immigrazione
di origine meridionale. La principale arca di insediamento è
stata la provincia di Buenos Aires, ma con il tempo gli arrivi si
sono spostati verso l'interno. Oggi gli italiani sono dislocati, oltre
che a Buenos Aires, nelle province di Santa Fe, Cordoba e Mendoza.
L'ingente presenza ligure delle prime immigrazioni ha determinato,
nella seconda metà dell'Ottocento, la conquista da parte dell'Italia
del monopolio del cabotaggio e della navigazione fluviale.
Nel primo decennio del nostro secolo, circa la metà delle industrie
meccaniche, metallurgiche, tessili, alimentari e delle costruzioni
di Buenos Aires era di proprietà italiana. Dal censimento del
1980, un terzo dei nati in Italia risultava impiegato nell'industria,
il 23% nel commercio, il 13% nei servizi, l'11% nell'edilizia e solo
il 3,9% nell'agricoltura.
Il Brasile ha accolto, tra il 1875 e il 1988, quasi un milione e mezzo
di immigrati italiani. Il 20% degli arrivi è di provenienza
veneta, ma non sono mancate le altre presenze regionali. E' stata
poi una costante dell'emigrazione italiana in quest'area l'alta percentuale
di affluenza femminile e familiare. Fino al 1915, il flusso ha avuto
carattere essenzialmente agricolo e solo fra le due guerre è
aumentato il numero di operai e di manovali. Gli anni '70, invece,
sono stati caratterizzati da un notevole sviluppo di figure tecniche
e manageriali. L'ondata migratoria ha iniziato a declinare nel 1902,
a causa della difficile condizione di vita dei coloni, determinata
dalla sovrapproduzione di caffè. Ha contribuito al declino
anche la diffidenza dell'Italia verso i viaggi pagati agli emigranti
dal governo brasiliano. Principali zone di insediamento sono state
Rio Grande do Sul, Paranà, Santa Catarina e lo Stato di São
Paulo, dove oggi vive la maggior parte dei brasiliani di origine italiana.
In Canada, l'immigrazione italiana si è concentrata soprattutto
nel secondo dopoguerra, con un numero di arrivi pari a 500.000, contro
un totale che, nell'arco di un secolo, non ha raggiunto le 700.000
unità. Oggi la consistenza complessiva degli italo-canadesi
supera il milione. Principali paesi di provenienza sono state le regioni
meridionali, in primo luogo la Calabria e la Sicilia. Il flusso si
è diretto verso le aree urbane di Toronto, Montreal e Vancouver,
dove vive tuttora il 95% degli italo-canadesi. Per quanto concerne
il mercato del lavoro, le maggiori presenze italiane si riscontrano
nel settore manifatturiero, seguito da quello impiegatizio, dei servizi,
delle costruzioni e del commercio. Il reddito medio degli italo-canadesi
è, comunque, di poco inferiore alla media nazionale.
Anche in Australia, la grande ondata migratoria si è verificata
solo nel secondo dopoguerra, grazie ad un accordo di emigrazione assistita
intervenuto con l'Italia. Secondo il censimento del 1981, la comunità
di origine italiana contava a tale data circa 540.000 unità,
delle quali quasi la metà era dotata di doppia cittadinanza.
Le principali regioni di provenienza sono state, nell'ordine, Sicilia,
Calabria, Veneto, Abruzzo, Campania, Friuli e Marche. Gli arrivi si
sono concentrati in un primo tempo nelle zone rurali (Queensland settentrionale,
New South Wales, Vittoria nord-orientale, Mildura SA, Port Pirie SA),
con successivi trasferimenti verso le aree urbane. Oggi i gruppi di
origine italiana si ritrovano soprattutto nelle grandi città,
in particolare a Melbourne e a Sidney e sono impiegati nei settori
dell'industria, dell'edilizia e dell'artigianato.
L'immigrazione italiana in Uruguay, finita ormai da alcuni decenni,
a causa della grave crisi economica e politica del Paese, ha origini
antiche. Già nel periodo risorgimentale, la nazione è
stata la meta preferita di migliaia di garibaldini e di rifugiati
politici. Secondo il censimento del 1975, su 131.000 stranieri, 21.281
erano italiani e costituivano la seconda comunità etnica dopo
quella degli spagnoli. Si sono riversati in Uruguay piemontesi, liguri,
siciliani e calabresi, la maggior parte dei quali ha scelto di vivere
nelle aree urbane di Montevideo, Salto e Paysandu. Per quanto riguarda
il lato socio-economico, le prime immigrazioni sono state caratterizzate
da una considerevole presenza di esperti della navigazione. Con il
tempo, la collettività di origine italiana si è indirizzata
verso le altre attività presenti nel territorio.