§ Il meridionalismo di Pasquale Saraceno

Vendetta del Sud?




C. M.



C'è un certo vantaggio a scrivere di Pasquale Saraceno a distanza di qualche mese dalla sua scomparsa, avendo avuto l'opportunità di leggere il folto dibattito che si è sviluppato. C'è modo fra l'altro di sottrarsi in qualche misura al fascino dell'uomo e del personaggio per tentare (tutti insieme quelli che abbiamo creduto nelle cose che Lui ci ha insegnato) un esame di coscienza di fronte a un Mezzogiorno che appare oggi lontano, forse come non mai, dalle utopie di sviluppo degli anni Cinquanta e Sessanta.
E' stato ricordato, fra l'altro, che fu per primo Saraceno a dar vita a quel nuovo meridionalismo (tante volte descritto e ricostruito in quel suo stile chiaro e limpido che era davvero lo specchio di un'anima) che si distinse dal vecchio meridionalismo per aver sottratto la questione meridionale dalle sponde delle inchieste politico-sociologiche, dei viaggi intellettuali, della sterminata (e bellissima) letteratura, per portarlo nel concreto dei progetti economici, inserendolo nel ricco filone teorico dell'economia dello sviluppo. Agli inizi del secondo dopoguerra il Sud finisce di essere oggetto di indagini sociali e letterarie e diviene, per non piccolo merito di Saraceno e del ristretto nucleo di uomini raccolti intorno alla Svimez, questione economica nazionale di cui lo Stato, con l'intervento straordinario e con la Cassa per il Mezzogiorno, si fa carico per la prima volta nel suo complesso a novant'anni dall'Unità.
Accantonata la società civile con i suoi problemi e le sue contraddizioni, viene ipotizzato e avviato uno sviluppo prima di arricchimento territoriale e poi decisamente industriale, nella convinzione (sono parole di Rodolfo Morandi) che l'industria fosse l'elemento decisivo e modificativo che poteva servire a sanare il divario di reddito fra il Nord e il Sud del Paese. A cinquant'anni da quel momento si può forse osservare - come è stato detto - che la società civile meridionale, con i suoi irrisolti e anzi incancreniti problemi, si è in qualche misura vendicata di quella astrazione che, pur giusta, non teneva conto, ad esempio, di quanto già fosse stata forzata l'industrializzazione del Nord del Paese, avvenuta in pochi decenni sotto la protezione della tariffa doganale, priva di un'ideologia di sostegno, come acutamente ha notato Gershenkton.
L'altra vendetta è quella del mercato. Si è ingiustamente parlato tante volte di un meridionalismo piagnone ed elemosiniere. Il nuovo meridionalismo fu esattamente il contrario: fin troppo attento ai valori dell'impresa e della micro più che della macroeconomia. Saraceno portò nel sistema degli incentivi, che miravano a creare le convenienze (sono sue parole) ove queste erano assenti, la sua doppia e ricca esperienza di docente di tecnica industriale e di dirigente di gruppi economici pubblici che aveva pratica di investimenti. Tuttavia, lo schema macroeconomico che era alla base delle critiche di Vera Lutz e che negli anni Sessanta sembrò una forzatura (anelasticità dell'offerta agricola, bassa domanda di prodotti industriali, aumento del grado di dipendenza, necessità di una forte emigrazione) si è rivelato nel tempo quasi profetico. Esso è, in sostanza, il quadro del Mezzogiorno di oggi.
Tutto ciò, beninteso, nulla toglie alla bontà dell'intuizione del progetto saraceniano che resta intatta.
La recente, preoccupata ripresa degli studi economici sul Mezzogiorno, alla vigilia della piena integrazione europea, non può che confermarlo in pieno. Il Mezzogiorno si sviluppa solo con l'industria e con il terziario che ad essa serve e che da essa viene generato. Gli strumenti incentivanti a suo tempo attivati non erano errati: essi non hanno funzionato appieno sia perché le risorse impegnate sono state irrisorie rispetto alla ricchezza prodotta dal Paese (inferiori all'1%, altro tema caro a Saraceno), sia perché intorno ad essi è mancata la "coerenza" delle decisioni e delle scelte di politica economica che il Paese è andato facendo in circa mezzo secolo. Perché, in sostanza, a una fisiologica dipendenza iniziale dell'economia meridionale nella fase di decollo, si sono sostituite politiche di attivazione della domanda per consumi che hanno reso endemica quella condizione.
La Repubblica ha perso una storica occasione per creare, a tempo debito, un senatore a vita altamente degno del laticlavio. Un uomo - come ha detto Cafiero - che ha servito lo Stato e non il potere. Quanto alla Fondazione di cui si è parlato in questi ultimi mesi, mi pare francamente che essa esista già: la Svimez, la creatura di Saraceno, alle cui disadorne stanze di via Porta Pinciana molti di noi si sentono legati da non effimeri ricordi, è già di fatto la Fondazione Pasquale Saraceno per l'industrializzazione e lo sviluppo del Mezzogiorno.

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