§ Assistenzialismo e investimenti

Cime tempestose




A. B.



Da tempo si afferma il principio della minore appetibilità dell'investimento industriale in Italia, soprattutto nelle aree del Nord. Ma è stata l'Olivetti a riportare al centro dell'attenzione Un problema che non può essere messo da parte al tavolo delle trattative per la riforma del salario. De Benedetti ha ricordato che non si tratta più soltanto di tenere sotto controllo il costo del lavoro e la sua dinamica, ma di decidere sul suo livello: questione complessa e quasi intrattabile nello scenario italiano, che non conosce casi di flessibilità salariale verso il basso.
E' stato scritto che occorre riconoscere che l'appetibilità localizzativa dell'Italia per nuovi impianti industriali è in crisi non da oggi e non solo a causa dell'alto costo del lavoro. Finora si è minimizzato il problema e non vi è stata una reale presa di coscienza circa le numerose possibilità alternative che l'industria ha quando deve scegliere dove ubicare i nuovi stabilimenti. In altre parole, non si è forse capito sino in fondo quanto il capitale sia mobile e quanto ampie siano le opzioni che offre il mercato a livello mondiale.
Oggi, un'impresa italiana può non solo localizzare all'estero le sue nuove produzioni, ma può addirittura decidere di comperare parte di quanto vende. Sono almeno dieci anni che il contenuto di import del nostro export aumenta, con la conseguenza che importiamo valore aggiunto (lavoro fatto all'estero) nei semimanufatti e nei prodotti intermedi. Si stenta inoltre a capire quanto sia abbondante l'offerta di aree industriali, di lavoro, di infrastrutture e di servizi che proviene dall'interno della Comunità europea, dall'Europa centro-orientale e, soprattutto, dal Sud Est asiatico, dove le condizioni di localizzazione sono particolarmente favorevoli. Ne sanno qualcosa i nostri Brambilla del tessile e dell'abbigliamento, del cuoio e delle pelli, eccetera.
Anche le grandezze del mercato del lavoro cominciano a segnalare se non una "deindustrializzazione" dell'Italia, quanto meno una forte crescita del grado di intensità di capitale nel settore industriale. Fra l'80 e l'89 l'occupazione operaia si è ridotta di circa un milione e mezzo di unità e l'incidenza degli addetti all'industria (edilizia compresa) sul totale è scesa attualmente ad un valore prossimo al 30 per cento. Ora, è vero che vi è stato un processo di crescente integrazione con i servizi, per cui molta parte dell'occupazione industriale, di fatto, è classificata come terziaria, pur avendo natura e funzioni finalizzate alla produzione di benima non si può trascurare il fatto che una serie di regioni italiane rischia di non passare mai più, in queste condizioni, per una fase di diffusa industrializzazione. Lo impediscono da un lato l'unificazione contrattuale del mercato del lavoro, cosa che fa versare grosse lacrime ai nostalgici delle gabbie salariali; e dall'altro le carenze nella strutturazione delle aree industriali e dei servizi di supporto. Che cosa significa tutto questo? A che cosa tendono le lamentazioni? Al fatto che un operaio del Sud costa quanto uno del Nord, il che è ritenuto imperdonabile, e al fatto che un cinese di Taiwan, un coreano di Seoul, o un indiano di Bombay, messi insieme, costano meno di un solo operaio del Sud o del Nord della penisola italiana. Ciò determina l'import del nostro stesso export. Un abito è confezionato a Hong Kong, poi giunge in Italia, viene etichettato con la griffe e immesso sul mercato: tra costo di produzione, importazione e intermediazione mercantile, ha un prezzo decuplicato in negozio, ma ha reso allo stilista sei o sette volte quel che avrebbe reso se confezionato in Italia. In questi anni il menù di localizzazioni industriali a disposizione dell'impresa italiana si è molto dilatato. L'offerta a catalogo proviene oramai da tutto il mondo, un mondo che si disputa un'offerta di risparmio (e di investimento) assolutamente insufficiente a sostenere le forti esigenze di sviluppo economico, come ha ricordato il Governatore Azeglio Ciampi nelle sue ultime Considerazioni Finali. E qui starebbe, secondo gli imprenditori di medio e di grosso calibro, la scarsa incisività di risposta del "sistema Italia". Dicono costoro: chi gestisce un'impresa deve far quadrare i conti, non può consentirsi sentimentalismi nazionalistici; se chi investe si trova meglio altrove, riduce progressivamente il proprio impegno, chiude e saluta. Non sarà una questione che si risolve in un giorno, occorrerà tempo, ma lo spostamento di attività di produzione all'estero o la decisione complementare di comperare di più all'estero di certo si realizzano.
Il copione è da manuale. Incominciano i grandi gruppi, che da sempre diversificano territorialmente l'investimento; poi seguono i medi e anche i piccoli, sia pure con qualche difficoltà aggiuntiva. Questo è un punto-chiave per l'Italia. La predominanza della piccola e media impresa, con un forte radicamento locale, sembrerebbe una garanzia rispetto all'ipotesi di "delocalizzazione" progressiva all'estero. Ma occorre stare attenti.
Prima di tutto, perché la piccola impresa è molto vitale in questo momento, ma non cresce in termini di occupazione: nasce piccola, e nella maggior parte dei casi piccola rimane. Sono rari i momenti e le occasioni di crescita, di passaggio da una dimensione all'altra: quindi, sono sempre più forti le spinte a coprire spazi interstiziali nei mercati, (ma occorre anche dire che molte imprese artigiane, o che tali si definiscono, preferiscono non registrare passaggi alla piccola o media impresa per motivi fiscali: e qui si registra un campo di elusione di grandi dimensioni). E in secondo luogo, perché la piccola impresa ha bisogno di forza-lavoro flessibile, fortemente adattabile, in grado di comprendere i margini di manovra strategica e finanziaria all'interno dei quali ci si può muovere. E queste condizioni di adesione agli obiettivi aziendali, di attaccamento al lavoro, potrebbero essere contraddittori rispetto alla situazione di piena occupazione che caratterizza molte regioni italiane e molte fasce professionali medio-basse. Quindi anche la piccola impresa, almeno quella più strutturata, nella quale siano entrati imprenditori di nuova formazione, tendenzialmente di seconda generazione, potrebbe trovarsi ad operare su una tastiera più vasta del territorio nazionale.
E' certamente un problema di costo di lavoro e di fisco; di una adeguata risposta ai processi di crescita delle infrastrutture e dei servizi, della sicurezza pubblica, dell'etica umana e professionale, che così fortemente incidono sui costi industriali e civili, in Italia e soprattutto nel Mezzogiorno. Il dubbio, tuttavia, è che tutto questo diventi un alibi per chi vuole spremere sempre di più lo Stato. All'assistenzialismo del Sud, assistenzialismo sostanzialmente sociale (l'altro è parassitismo politico-amministrativo e mafioso), si contrappone l'assistenzialismo industriale del Nord: se lo Stato fa balenare il sospetto di voler chiudere l'ombrello, Brambilla minaccia l'emigrazione. Ciò spiega, ad esempio, perché la Fiat ha avuto 800 miliardi per "formazione" nella Basilicata, e avrà quattro degli ottomila miliardi da investire nella stessa regione, mentre non ha ancora speso un centesimo per impiantare le fabbriche per le quali "sta formando". Ciò chiarisce a chi vuol capire come mai ogni anno partono decine di migliaia di miliardi di cassa integrazione per cinque o sei famiglie imprenditoriali del Nord e per qualche centinaio di nipotini e pronipotini di quelle famiglie. I quali tutti, lungi dal fare ricerca, preferendo comprare tecnologia avanzata e brevetti all'estero (costa meno), una volta che si trovano i magazzini pieni, per mancanza di autentica strategia mercantile, per imprevidenza, per la sicurezza di non rimetterci comunque, bloccano decine di migliaia di operai, li mettono a carico dello Stato, smaltiscono le scorte, e riaprono i reparti. Tutto ciò, con il supporto indispensabile delle lobbies che lavorano a tempo pieno in Parlamento.
Questi sono i termini della "questione settentrionale", che a differenza di quella meridionale si è attrezzata politicamente per difendere i propri interessi economici e per far passare per politica industriale l'assistenzialismo industriale. Esaminare la storia dell'industria italiana per credere: al di fuori dell'ombrello dello Stato, nessun imprenditore (del vecchio "triangolo", della nuova Italia "repubblica cisalpina") è stato mai in grado di sbrigarsela da solo. D'accordo, allora, sulla fine dell'assistenzialismo nel Sud. Purché per Sud s'intenda l'intera penisola. D'altra parte, un nobile viennese non mise a tacere un consanguineo veneto, dicendogli a muso duro: "Stai buono, tu, che sei nato nella Somalia d'Europa"?

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