§ Crisi dello Stato assistenziale

Cancelliamo il Sud




Franco Salustri, Marcello Erani



Scomparsa del padre del "nuovo" meridionalismo, Pasquale Saraceno; referendum; elezioni siciliane: questi tre eventi, verificatisi a breve distanza l'uno dall'altro, hanno portato nuovi accenti al dibattito sui problemi del Mezzogiorno. Sono stati protagonisti di questo dibattito editori di primo piano (come Elvira Sellerio), imprenditori meridionali all'estero, imprenditori meridionali nel Meridione, responsabili della politica economica della Confindustria (come Enzo Giustino), quasi tutti d'accordo nel considerare il ministro per il Mezzogiorno una specie di anacronistico vicerè spagnolo, figura istituzionalmente e culturalmente priva di senso, e persino umiliante per le popolazioni interessate. Altre voci del dibattito: quella dello storico Tranfaglia, secondo il quale "la mafia è nata in una comunità ricca: la Sicilia dell'epoca aveva un'economia florida basata su un'importante attività agricola; le radici più specifiche della mafia non vanno ricercate né nel riscatto dalla povertà né in una presunta sicilianità, ma piuttosto nell'assimilazione e continuazione del metodo spagnolo ... "; e quella degli americani Jane e Peter Schneider, che in sostanza hanno sostenuto (nel libro Classi sociali, economia e politica in Sicilia) la stessa tesi; e quella di Salvatore Scarpino, secondo il quale i risultati del referendum e quelli delle elezioni siciliane non sono in contraddizione, ma sono l'occhio di spia di una situazione che è in movimento, della voglia di rivincita delle "facce pulite" sulle "mani sporche"; e così via.
A queste voci nuove si contrappongono quelle delle antiche vestali del vecchio meridionalismo, degli intellettuali organici del regime assistenziale che, soprattutto in occasione della scomparsa di Saraceno, hanno fornito una esemplare manifestazione della loro rinuncia a pensare. L'alta statura, intellettuale e morale, di Saraceno è, ovviamente, fuori discussione. Ma non era proprio quella una buona occasione, per onorare la figura dello studioso, di sviluppare una riflessione critica sul "nuovo" (di cinquant'anni fa!) meridionalismo, ora irrimediabilmente invecchiato e, di conseguenza, tragicamente dannoso? Possiamo continuare a credere che l'industria, e soltanto l'industria, possibilmente macroscopica e magari a partecipazione statale, sia l'unico strumento di progetti di sviluppo adatti alle regioni interessate? 0 non dobbiamo pensare piuttosto all'impresa diffusa in tutte le sue articolazioni, nell'agricoltura, nella pesca, nel turismo, nel commercio, nella cultura, nella formazione? E' proprio vero che il pensare gli interventi straordinari in chiave soltanto economica è stato un merito storico di Saraceno, o non piuttosto un errore sul quale è necessario riflettere? E' stato utile non aver dato alcun rilievo al ruolo di rapina sul denaro pubblico da parte della malavita organizzata fino a pochi anni fa, quando tutti i giochi erano ormai fatti? E' proprio vero che "le risorse impegnate sono state irrisorie rispetto alla ricchezza prodotta dal Paese (inferiori all'1%, altro tema caro a Saraceno)"? E' vero che "bisogna ripartire dalla lezione saraceniana, quella che connette schema Vanoni e Nota La Malfa", pagine nelle quali venne posto "un germe che non tarderà a dare i suoi frutti"?
E' necessario ricominciare a pensare. E bisogna ricominciare dalla realtà socio economica e politico-criminale dei nostri giorni. E poi dalla crisi fiscale e finanziaria definitiva, irreversibile e pericolosissima (se non la si capisce in tempo utile e non la si gestisce correttamente) dello Stato assistenziale. E dalla riflessione critica, ormai abbondante, importante a livello internazionale, e sostenuta da esempi limpidissimi e inequivocabili, che ha definitivamente archiviato la visione dello sviluppo basato su abbondanti trasferimenti di capitale, che era dominante fino a metà degli anni '70, e che è ancora difesa a spada tratta dai chierici delle grandi agenzie che maneggiano questi trasferimenti.
Un modo per onorare degnamente la memoria di Pasquale Saraceno sarebbe proprio l'organizzazione di un grande convegno di studi su questa recente evoluzione delle teorie dello sviluppo, che contraddicono in pieno proprio i presupposti di fondo sui quali si basava il pensiero dominante delle teorie dello sviluppo nei tempi lontani in cui Saraceno imposto l'intervento straordinario.
Vorremmo proseguire la nostra riflessione con l'aiuto di tre scritti di recente pubblicazione (o riedizione) che aiutano ancora a pensare.
Il primo è Eboli (Marsilio) di Gabriella Gribaudi, studiosa torinese trapiantata nel Sud da quindici anni, che fa parte di quel gruppo di studiosi che si raccoglie intorno a "Meridiana", una rivista che cerca di ricomporre i fili della ricerca economica con quella storica, antropologica, sociologica. E' un libro serio, che sfata molti luoghi comuni, tra i quali quello che a noi interessa di più: il luogo comune secondo il quale a Sud è stato e continua ad essere assente lo Stato. "Non c'è nulla di più lontano - scrive la Gribaudi - della realtà di un'immagine del Mezzogiorno in cui lo Stato sia assente, o di un Mezzogiorno contrapposto allo Stato, come emerge invece troppo spesso nel dibattito sulla questione meridionale. E' proprio la presenza passiva e accentratrice delle istituzioni pubbliche e il loro monopolio pressoché totale dell'economia a provocare la perversione dei meccanismi accumulativi, a dirottare intelligenza e imprenditorialità, a consolidare quella rete di mediazione e parassitismo che provoca inefficienza e corruzione. Si tratta di un circolo vizioso con radici tanto ramificate da indurre al più cupo pessimismo".
L'altro libro è Les nababs de la pauvreté (Laffont, Parigi) di Graham Hancock (già pubblicato in inglese nel 1989, col titolo The Lords of Poverty, e molto boicottato). I nababbi della povertà si colloca nel filone delle grandi inchieste internazionali sul tema dello sviluppo dei Paesi poveri, tipo il formidabile La nuova ricchezza delle nazioni di Guy Sorman, o il lucido e coraggioso L'Occidente e il Terzo Mondo di Carlos Rangel. L'autore, già corrispondente dell'"Economist" dall'Africa Orientale, dopo diversi anni trascorsi nel Terzo Mondo, indaga a fondo gli scenari dei grandi erogatori internazionali di assistenza. il libro ha dovuto superare le accanite resistenze oppostegli dalla Banca Mondiale, che ha cercato di limitargli le fonti d'informazione e di ostacolarne la pubblicazione. Secondo Hancock, infatti, questa "aristocrazia della pietà" sta facendo grandi danni: gli aiuti non aiutano proprio nessuno, se non chi li eroga; le condizioni di vita del Terzo Mondo sono andate spesso peggiorando a causa dei troppi aiuti ricevuti e non per una loro presunta insufficienza; i ricchi funzionari che li gestiscono sono diventati "maestri di catastrofi" sulle quali si arricchiscono e non maestri di sviluppo; è necessario rivedere l'intera materia e, per ora almeno, bloccare gli aiuti. Questa critica all'assistenzialismo forsennato, che umilia e distrugge le risorse locali e la dignità e la responsabilità dell'uomo, senza le quali nessuno sviluppo è possibile, e quindi distrugge le reali possibilità di sviluppo, non è dunque un tema nostrano, esclusivo del Mezzogiorno. E non è neppure più un tema solo nazionale. E' un vero e proprio modello di sviluppo, a livello internazionale, che viene messo finalmente in discussione, e non sulla base di schieramenti politici, ma da parte di studiosi e di osservatori preparati e da fonti autorevoli di diversa natura. Pensiamo, oltre al citato Guy Sorman, all'ultimo Myrdal, alla ricca documentazione fornita da Heinz W. Arndt nel suo Lo sviluppo economico, alla posizione sullo stato assistenziale e sui profitti politici di Miglio ("Chi vive beneficando" ha bisogno "che ci siano dei bisognosi,", agli scritti di Giorgio Borsa sulla modernizzazione in Asia, all'amaro L Africa strangolata di Dumont, che contiene anche una severa critica alla Fao, alla profonda analisi di Pier Luigi Zambetti (La sfida del duemila, Rusconi), forse la più sistematica e rigorosa analisi della genesi e della crisi dello Stato assistenziale e delle sue connessioni con la crisi istituzionale, e alla vigorosa denuncia delle disfunzioni dello Stato assistenziale, sviluppata partendo dall'esperienza dell'Est, nella stessa Centesimus Annus.
Il terzo scritto di cui intendiamo parlare è invece uno scritto antico, oggetto di recente pubblicazione da parte degli Editori Riuniti: La questione metidionale di Antonio Gramsci. E' un breve scritto del 1926, uno scritto militante e di lotta politica. L'impostazione ideologica di fondo, con la prospettiva rivoluzionaria basata sull'alleanza tra gli operai del Nord e i contadini del Sud, e animata dal mito del proletariato, è ovviamente non solo materia d'archivio storico, ma anche, alla luce degli eventi successivi, un po' patetica. Ma quando, liberato dalle distorsioni del militante, emerge il grande studioso di fatti sociali, Gramsci ci dona alcune pagine sulla questione meridionale che, arricchite dalle annotazioni in materia contenute nei Quaderni e adattate ai nostri giorni, ci aiutano anch'esse a pensare.
Certo, sarebbe interessante riordinare e rileggere i numerosi spunti ed episodi contenuti nei Quaderni (dalla riunione dei latifondisti siciliani del 1920 che pronunciano un vero e proprio ultimatum contro il governo di Roma, minacciando la separazione, alla richiesta diretta da molti degli stessi al governo di Madrid di intervenire diplomaticamente per la tutela dei loro interessi minacciati dall'agitazione dei contadini e dei combattenti; dalla politica ferocemente nordista del siciliano Crispi, agli interventi dell'unitarismo ossessionato di Giovanni Ansaldo che, ancora nel 1925-1926, parla seriamente della minaccia di un ritorno dei Borbone a Napoli; dalla riflessione sul fatto che, nel corso del Risorgimento, il Sud anticipa sempre l'azione politica che poi si sviluppa anche nel Nord, alla circolare Amma di Torino del 1916 in cui si ordina alle industrie dipendenti di non assumere operai che siano nati sotto Firenze, mentre pochi anni dopo Agnelli-Gualino faranno giungere a Torino venticinquemila operai siciliani). Ma dobbiamo limitarci a pochi aspetti, che ci sembrano fondamentali.
Prima di tutto, ciò che ci ha colpito è che Gramsci raramente parla del Mezzogiorno in modo indistinto. Quasi sempre egli articola il suo pensiero secondo le varie zone, differenti per caratteristiche storiche e socio-econemiche: "Il Mezzogiorno può essere definito una grande disgregazione sociale [...]. Si capisce che bisogna fare delle eccezioni.. le Puglie, la Sardegna, la Sicilia, dove esistono caratteristiche speciali nel grande quadro della struttura meridionale [ .. ]. La situazione siciliana ha caratteri differenziali molto Profondi sia dalla Sardegna che dal Mezzogiorno. La Sicilia e il Piemonte sono le due regioni che hanno dato il maggior numero di dirigenti politici allo Stato italiano, sono le due regioni che hanno esercitato un ufficio preminente dal '70 in poi".
Nonostante queste diversità, esiste un modello di "non sviluppo", accortamente gestito dalla grande proprietà fondiaria, diffuso in tutto il Mezzogiorno continentale e in Sicilia. Si tratta di "un mostruoso blocco agrario che nel suo complesso funziona da intermediario e da sorvegliante del capitalismo settentrionale e delle grandi banche. Il suo unico scopo è di conservare lo status-quo. Nel suo intervento non esiste nessuna luce intellettuale, nessun programma, nessuna spinta a miglioramenti e progressi [ ... ]. Il Sonnino e il Franchetti furono dei pochi borghesi intelligenti che si posero il problema meridionale come problema nazionale e tracciarono un piano di governo per la sua soluzione. Quale fu il punto di vista di Sonnino e di Franchetti? La necessità di creare nell'Italia meridionale uno strato medio indipendente di carattere economico che funzionasse, come allora si diceva, da "opinione pubblica", e limitasse i crudeli arbitrii dei proprietari da una parte e moderasse l'insurrezionalismo dei contadini poveri dall'altra".
Ma il sogno di Sonnino e di Franchetti di stimolare la "nascita di una classe media diffusa di natura economica (ciò che significa poi la nascita di una borghesia capitalistica diffusa) è resa quasi impossibile. Ogni accumulazione di capitali sul luogo e ogni accumulazione di risparmi è resa impossibile dal sistema fiscale e doganale e dal fatto che i capitalisti proprietari di aziende non trasformano sul posto il profitto in nuovo capitale perché non sono del posto".
Allora la risposta sarà l'emigrazione massiccia, che se impoverisce le regioni interessate dell'elemento umano migliore, avvia però un afflusso di risparmio proveniente dall'America e destinato, potenzialmente, a impieghi locali. Quando inizia il flusso delle rimesse, molti affermano: "Il sogno di Sonnino si avvera. Una silenziosa rivoluzione si verifica nel Mezzogiorno che, lentamente ma sicuramente, muterà tutta la struttura economica e sociale del Paese. Ma lo Stato intervenne e la rivoluzione silenziosa fu soffocata nel nascere. Il governo offrì dei Buoni del Tesoro a interesse certo e gli emigranti e le loro famiglie da agenti della rivoluzione silenziosa, si mutarono in agenti per dare allo Stato i mezzi finanziari [...]. I miliardi inghiottiti dalla Banca di Sconto erano quasi tutti dovuti al Mezzogiorno: i 400 mila creditori della Bis erano in grandissima maggioranza risparmiatori meridionali".
A noi sembra che questo lucido quadro sia adattabile ai nostri giorni. Il sogno serio resta quello di Sonnino. Sogno che, in verità, in molte zone delle regioni meridionali si è, soprattutto con l'aiuto del turismo, ma anche dell'agricoltura specializzata e dell'impresa forte diffusa, in parte realizzato. Ma esso èanche oggi fortemente impedito e ostacolato. Svanito il potere dei latifondisti, i nuovi baroni, i nuovi feudatari, i nuovi proprietari che controllano la funzione intermediaria e di accumulazione sono i "proprietari del potere politico e amministrativo" degli enti di erogazione, delle banche pubbliche (tema per ulteriori riflessioni: indagare per quali ragioni nominare il presidente del Banco di Sicilia è operazione più lunga, complessa e cruenta che combattere la guerra del Golfo). i feudatari del blocco agrario venivano serviti da "un blocco intellettuale che praticamente ha servito finora a impedire che le screpolature del blocco agrario divenissero troppo pericolose e determinassero una frana". Anche i nuovi feudatari del blocco politico-amministrativo hanno il loro blocco di intellettuali organici che tentano di impedire una lettura critica delle nuove realtà, delle nuove possibilità e delle nuove energie e sinergie. Sono al tempo stesso i reduci e le vestali dell'assistenzialismo. Sono essi i grandi nemici delle regioni meridionali.
Ecco perché, come diceva Gramsci, la prima cosa da fare è di cercare di disgregare questo blocco intellettuale. Il modello alternativo esiste, ed è quello imprenditoriale. E' un modello che ha già in molte zone delle regioni meridionali una base seria, che per espandersi ha solo bisogno di sicurezza fisica, certezza del diritto, amministrazione pulita, tutte cose che richiedono il grande ma fermo rigetto dello Stato assistenziale corrotto e corruttore, nonché delle sue vestali.
Possiamo, a questo punto, trarre alcune conclusioni precise:
1) il problema centrale è la crisi fiscale dello Stato assistenziale, e si tratta di un problema gravissimo e nazionale;
2) lo Stato assistenziale, nella forma e nelle dimensioni mostruose assunte, è estraneo alla nostra Carta Costituzionale, anzi ne è una totale distorsione, e dunque non è più un problema solo economico e finanziario, ma di assetto civile, democratico e costituzionale;
3) lo Stato assistenziale non è più funzionale allo sviluppo ma lo soffoca, soprattutto in quelle regioni che di maggior sviluppo hanno bisogno, essendo esso piuttosto funzionale al potere feudale dei nuovi baroni dei partiti, dei nuovi viceré spagnoli, dei nuovi "nababs de la pauvreté";
4) in questo caso, dobbiamo "cancellare il Sud", come esso viene inteso dal reducismo degli intellettuali organici del regime assistenziale. La "questione meridionale" non è oggi altro che un capitolo di problemi nazionali, tra loro strettamente interconnessi, di rilievo istituzionale: la drammatica crisi fiscale dello Stato assistenziale; l'indecoroso assalto alle casse sempre più vuote dello Stato (e in questo il Sud vale quanto il Nord, con quest'ultimo all'arrembaggio con le politiche di rapina della cassa integrazione, con l'attivismo delle lobbies, col protezionismo statale, ecc.); lo strapotere, del tutto incostituzionale, dei partiti; il peso sempre più grave della criminalità organizzata. In relazione a ciascuno di questi problemi di fondo Milano è, sostanzialmente, come Palermo. In questo senso, se si vuole amaramente, la questione meridionale è veramente finita. Contrariamente a quello che credono le Leghe, l'Italia non è mai stata più unita ed omogenea di oggi;
5) uscire da questa situazione è possibile, e ne usciremo, non perché siamo "uomini liberi e forti" e saggi, quanto perché non vi è più un'altra reale alternativa. L'Italia non ha mai fatto rivoluzioni e, certamente, non ha la minima intenzione di fare la rivoluzione contro lo Stato assistenziale. L'Italia si èsempre e solo limitata a porre rimedio, a posteriori, ai guai provocati dalla sua stessa imprevidenza. Lo Stato assistenziale si sta distruggendo da solo, perché i conti non quadrano più e, sulla base dell'attuale andazzo, non quadreranno mai più. Se aggiungiamo al prelievo fiscale (tra i più alti d'Europa, in cambio dei servizi più scadenti del mondo occidentale) e al prelievo parafiscale effettivo (tra i più alti del mondo) le fantasmagoriche cifre di evasione fiscale, dovremmo avere una pressione vicina al 70%. E ciò con il livello di servizi e di sicurezza fisica che ci troviamo. E' evidente che c'è qualcosa di fondo, di fondamentale, che è definitivamente rotto. Ma l'uscita dalla crisi fiscale dello Stato assistenziale, come tutte le uscite non guidate dalla ragione ma trascinate dalla forza dei fatti, non sarà indolore. Essa non si realizzerà con le prediche, ma con un duro scontro politico e sociale. E' ritornato il tempo di allacciare le cinture di sicurezza;
6) per questo, e in questo senso, ripetiamo che occorre "cancellare il Sud", licenziando i nuovi feudatari, e sostenendo i cittadini dignitosi del Sud e di ogni altra latitudine. La "questione meridionale" è finita perché l'intera Italia è Meridione. Esiste ormai una sola questione, ed è nazionale, per la quale gli schieramenti che si vanno componendo non sono per aree geografiche, ma per aree culturali, professionali, e soprattutto morali.
Vale allora per l'intero Paese la conclusione del libro degli Schneider per la Sicilia: "Poiché i codici culturali sono creati da determinati processi storici - poiché non sono scolpiti nella pietra - non è impossibile immaginare un futuro diverso. L'importante è che questo arrivi tramite le lotte e le iniziative di gruppi e di individui siciliani, non tramite giudizi morali e doni dall'esterno".

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2000