§ Economia di mercato e perestroika

Solo la pace arricchisce le nazioni




Paul A. Samuelson
Premio Nobel per l'Economia



Con l'ascesa al potere di MIkhail Gorbaciov il mondo è diventato più ricco. Quale il motivo? Quali i vantaggi dell'operaio di Gary, di Indiana o di Torino, nel momento in cui la glasnost concede libertà minime ai cittadini di Kiev o a quelli di Vladivostock? Si tratta, semplicemente, del fatto che l'economista può realisticamente sperare nel successo di una perestroika che applicherà le regole dell'economia di mercato all'Europa centro-orientale e compirà il miracolo di una nuova efficienza produttiva? Senza dubbio, il prodotto nazionale lordo complessivo a livello globale non potrà che accrescersi se la produttività insoddisfacente del miliardo di persone vissute sotto il comunismo dovesse essere miracolosamente accelerata dal successo dei programmi gorbacioviani. Tuttavia, quando mi riferisco alla speranza di un maggiore progresso economico nell'era postgorbacioviana, non penso né alla perestrojka né alla glasnost. Penso, invece, che nei futuri testi di storia dell'economia sarà attribuita la massima importanza ad ogni eventuale attenuazione della guerra freddo. Per 45 anni la rivalità fra le due grandi potenze ha imposto dei prezzi non soltanto al cittadini dei due Paesi, ma a quelli di tutto il mondo.
Qualcuno sarà certamente pronto ad accusarmi di cambiare le carte in favolo. Fatto sta che il capitalismo, secondo Rosa Luxemburg, nel 1905, e secondo Lenin, nel 1915, sarebbe inevitabilmente arrivato alla sua conclusione se abbandonato a se stesso. Con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, si sarebbe instaurata una inevitabile tendenza al sottoconsumo. In presenza di un potere di acquisto insufficiente, disoccupazione e depressione sono d'obbligo. Questa, la cruda teoria dell'imperialismo.
Ma che cosa ne è oggi, nell'ultimo decennio del secolo, di questa visione dell'inizio dello stesso secolo? Il verdetto della scienza economica non lascia adito ad equivoci.
Nell'era post-keynesiana, tutte le economie miste dispongono degli strumenti di controllo monetario da parte delle Banche centrali, nonché del finanziamento del disavanzo di politica fiscale allo scopo di scongiurare crisi permanenti dovute alla mancanza di potere d'acquisto.
La povertà in mezzo alla ricchezza avrebbe potuto costituire un motivo di preoccupazione in un regime capitalistico improntato alle dottrine del laissez-faire. Oggi, però, l'Italia non vive in un regime di capitalismo puro, e lo stesso può dirsi per gli Stati Uniti o per il Giappone. Neppure in Svizzera gli automatismi di mercato sono lasciati a se stessi, come accadeva nell'America della mia infanzia, quando ad alloggiare alla Casa Bianca era il presidente Calvin Coolidge. La mio tesi non si basa sui dogmi dell'economia ufficiale, considerato che l'economia politica non è, e non può essere, una scienza esatta.


Volendo dare uno sguardo ai fatti, non possiamo non accorgerci quanto la prosperità del dopoguerra in Paesi come la Germania, l'Italia e il Giappone si sia giovato della sconfitta e della conseguente impossibilità di stanziare enormi somme in spese militari. Se Rosa Luxemburg avesse letto la letteratura post-keynesiana, sono certo che sarebbe stata d'accordo e avrebbe modificato le proprie tesi. La graduale liquidazione della guerra fredda si traduce in immediati dividendi economici a misura in cui le risorse invece che in fucili vengono investite in burro. Non solo: nel momento in cui le spade sono tramutate in aratri, la futura produttività ne viene esaltata e la tendenza al rialzo dei salari reali accelerata. Non si tratta, sia chiaro, di parabole da libri di testo. Il presidente americano dispone già di un margine di manovra che non aveva Reagan allorché il bilancio della difesa aveva ulteriormente aggravato il disavanzo di bilancio e quello delle partite correnti. La formazione di capitale oggi comincia ad essere una realtà, non solo negli Stati Uniti, ma in Europa, nel bacino del Pacifico e nello stesso Terzo Mondo.


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