§ Dalla guerra fredda al terzo millennio

Cinque ipotesi per il futuro




John Kenneth Galbraith
Premio Nobel per l'Economia



Di recente ho avuto occasione di mettere in guardia a sufficienza nei confronti di coloro che, spesso con tanta sicumera, parlano del futuro. Tuttavia, sempre tenendo presente questo ammonimento, mi sia consentito di proporre alcune previsioni.
Che l'economia americana sia in difficoltà e che gli effetti delle recenti vicende internazionali si siano rivelati negativi per l'economia mondiale sono due fatti che, ritengo, sono acquisiti in modo chiaro. Su questo non ho nulla da aggiungere. L'unica domanda che ci si può ancora porre è quella relativa alla portata e all'estensione nel tempo della recessione, e alla misura in cui quest'ultima può essere influenzata da prospettive di conflitti regionali, soprattutto nelle aree del greggio. Riguardo a ciò, nessuno può andare oltre l'osservazione che qualsiasi deflagrazione avrà conseguenze dannose per tutti. E' possibile invece fare previsioni più fondate in relazione a quanto avverrà nei prossimi mesi in Europa orientale e in Unione Sovietica.
Molte nazioni hanno compiuto il passaggio dall'economia capitalista classica del secolo scorso all'economia mista del moderno Stato assistenziale. Il movimento inverso, dal socialismo globale ad un'economia orientata verso il mercato, è un fenomeno completamente sconosciuto. E oggi sappiamo che le istituzioni del capitalismo maturo - aziende possedute e gestite autonomamente, strutture di mercato, banche, mercati azionari, e molte altre cose - non si creano automaticamente. Le nazioni governate fino a poco tempo fa da un regime comunista hanno, in qualche misura, sostituito un sistema economico che funzionava poco con l'assenza di un qualunque sistema. Oltre a molte altre cose, le nazioni dell'Est europeo hanno perduto le importazioni di greggio e di materie prime dall'Unione Sovietica, cosicché il loro sistema energetico e industriale di trasformazione ha subìto durissimi contraccolpi.
Da ciò, un'altra previsione certa. Gli anni a venire saranno un periodo di grave difficoltà economica nelle regioni a precedente regime comunista. Si guarderà alla libertà come ad un bene conseguito al caro prezzo di stenti economici. Questi potrebbero essere mitigati dagli aiuti provenienti dai Paesi più fortunati dell'Europa occidentale, dagli Stati Uniti e dal Giappone, e qualcosa in questo senso è stata già fatta: ma si tratta di una piccola fasciatura per una ferita molto grande.
Subito dopo viene, tristemente prevedibile, il quadro delle prospettive economiche e politiche del Terzo Mondo, delle aree cioè più propriamente chiamate regioni povere. Non c'è niente di più evidente della tendenza della povertà a produrre tensioni e conflitti che rendono la vita ancora peggiore. Nei Paesi ricchi la vita è degna di essere vissuta; la risoluzione pacifica delle dispute, nazionali e internazionali, è di gran lunga la norma. I poveri sono molto più facilmente spinti ad agire nella speranza di barattare le pene e la sofferenza di questo mondo con la presunta munificenza di quello successivo. In Etiopia, in Mozambico, in Liberia, tra i neri e i poveri del Sudafrica, nel Kashmir, in India, in Afghanistan, il conflitto è endemico. E' la più grande tragedia del nostro tempo. E continuerà ad affliggerci.
Lo sviluppo economico potrebbe avere un effetto pacificante. Questa continua ad essere la mia speranza; non c'è altra risorsa in grado di assicurare pace e tranquillità. Tuttavia, se devo esprimere una predizione obiettiva, il quadro mi sembra chiaro. Le nazioni ricche del mondo continueranno a godere di calma interna, oppure, com'è spesso il caso, si impegneranno in dispute che sono almeno parzialmente ricreative e che appassionano notevolmente chi vi prende parte. Le nazioni povere continueranno ad essere coinvolte in conflitti mortali.
Mi avventuro in una predizione finale. Con la fine della guerra fredda, di gran lunga il progresso più importante che si sia verificato negli ultimi quarantacinque anni, gli insediamenti militari degli Stati Uniti e delle nazioni dell'Europa occidentale, in particolare di quelle appartenenti alla Nato, sono finiti nel limbo. Qui ci sono eserciti, forze aeree, forze navali, e soprattutto armamenti nucleari altamente sofisticati, senza uno scopo plausibile. Non c'è nessun nemico evidente. Negli Stati Uniti, ed in misura minore in altre nazioni, queste forze vengono ora sovvenzionate non per necessità, ma per i loro fini autonomi e per sostenere il potere politico. Il bisogno di mantenere un simile arsenale non proviene dalla minaccia di un nemico; il bisogno è dei militari, della burocrazia civile che li sostiene e delle industrie produttrici di armi, un bisogno rispettivamente di prestigio, di vantaggi politici, di occupazione e di profitto. Che l'economia delle armi sia una forza a sé stante, dedita al concepimento dei propri fini autonomi, risulterà, presumo, sempre più chiaro nei mesi e negli anni a venire. La reazione dell'opinione pubblica sarà vigorosa, e risorse che ora vengono destinate a sterili impieghi militari e alla produzione di armi - ingegneri, scienziati, uomini addestrati al comando, capitale - saranno impiegate sempre più per fini civili. E, si spera, per dare un aiuto alle nazioni povere del pianeta, prima menzionate. Molti cinici, preoccupati di presentarsi come persone sagge, diranno che tutto questo non è possibile: gli interessi militari e il potere sono troppo fittamente intrecciati per consentire rilassamenti. Su questo io non sono d'accordo.
Ed è da un generale rifiuto a dar credito a ragionamenti del genere che scaturirà una speranza di razionalità e di salvezza.

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