a)
Le valutazioni, la storia.
Nel panorama dell'attività
letteraria del Salento, nei primi anni del secondo dopoguerra, in
un clima di rinnovata fiducia nella forza della parola e della libertà
ritrovata, occupa un posto centrale un piccolo sodalizio di uomini
grandi: l'"Accademia Salentina" voluta e fondata il 3 gennaio
1948 (1) da Girolamo Comi, Oreste Macrí, Michele Pierri. Della
esigua pattuglia dei fondatori doveva far parte Mario Marti che un
luttuoso evento (la morte della madre) tenne lontano da Lucugnano
all'atto della fondazione (2).
Sul carattere del sodalizio, più che sulla sua storia di cui
si tenterà, in questa sede, di tracciare per la prima volta
le linee essenziali, si è detto per rapidi ma vigorosi cenni
da parte di alcuni studiosi le cui prospettive di ordine critico non
sempre sono apparse convergenti.
Donato Valli, nel suo Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860-1960),
definendo la posizione storica ce "L'Albero", rivista organo
dell'Accademia fino al 1953, prendeva le distanze da Vittorio Bodini
in ordine al giudizio "di astratta universalità e di classico
conformismo" (3) che il poeta de La luna aveva espresso all'indirizzo
dell'Accademia stessa. Così Bodini: "C'è, in un
angolo sperduto della [ ... ]provincia, a Lucugnano [ ... ], un'Accademia
Salentina della quale fanno parte nientemeno che Falqui, Anceschi,
Macrí, Ciardo, Assunto, Ferrazzi, il tarantino Pierri e Maria
Corti. E' un nobile svago personale di Girolamo Comi che vive a Lucugnano
ripartendo la sua attività fra sonetti e saggi cattolici e
le cure di un oleificio" (4). Bodini, poi, rincarava la dose
definendo "L'Albero" come "disparato zibaldone"
che lungo il solco di un post-ermetismo cattolico rincorreva "vaghi
miti di universalità" (5). Questa la replica di Valli:
"Sfuggiva a Bodini che l'eredità ideale di "Vedetta
mediterranea" e di "Libera Voce" era stata assunta
da ''L'albero'' [ ... ]. Aristocratica nel senso più alto del
termine, la rivista di Comi conservò sempre le caratteristiche
di questo suo attributo, distinguendosi nettamente dai periodici contemporanei
per il marcato privilegio accordato alla letteratura e all'arte e
mantenendo una sorta di nobile distacco dai problemi del precario
e del contingente storico. [ ... ] Tra i neo-realismi, i populismi
e le iconoclastie imperversanti, la sua lezione di spiritualità
e di elevatezza non trovò larga risonanza. Ma col tempo se
ne riconobbe la serietà indiscutibile, e la élite che
si radunava sotto l'ombra del grande ulivo campeggiante sul frontespizio
ebbe un motivo in più [ ... ] per erigersi davvero a modello
di una comunità di intellettuali fiduciosi nel prestigio e
nel primato degli integrali valori culturali, letterari ed artistici
dell'Occidente cristiano" (6).
Più recentemente Franco Martina, con diversa prospettiva, individuava
ne "L'Albero" l'espressione "più che dell'Accademia
salentina, del clima politico e culturale di quegli anni, tutto segnato
dallo sforzo di imporre un'integrale egemonia cattolica" e fissava
l'impegno di quella comunità di intellettuali nella ricomposizione,
attraverso la rivista, del "rapporto arte-società al lume
dell'esperienza cristiana" (7). Inoltre, replicando a Maria Corti
(8), Martina rimarcava la sua tesi sostenendo che "l'Accademia
salentina appare più un modo di celebrare la cultura, in specie
quella letteraria, che di farla: un modo più di chiudersi (per
chi la proponeva) nella tradizione ("terra di accademie e di
monaci sapientissimi") che di aprirsi alla realtà circostante"
(9).
Maria Corti, che fu la più giovane fra gli accademici e, inizialmente,
la segretaria del sodalizio, aveva opposto, infatti, alle valutazioni
di Martina il suo punto di vista in ordine allo spirito dell'Accademia,
ricordandone "il panorama non certo locale né particolarmente
cattolico" (10), l'impegno nel sociale ("Comi aveva ideato
un ciclo di produzione dalle campagne a oliveti, a un oleificio e
da questo alla Accademia e alla rivista: dal lavoro manuale, preindustriale
al culturale e viceversa") (11) ed ancora il carattere alquanto
giocoso delle sedute in grazia del quale si temperava la gravitas
delle discussioni inerenti alla filosofia, alla letteratura e all'arte.
Mario Marti, infine, ricordando le origini del sodalizio e l'amicizia
con Comi, sosteneva che l'Accademia salentina "nonostante da
molti fosse considerata un po' stantia almeno nella sua specifica
etichetta e dunque nella sua orientativa presentazione alla società
degli studi e della cultura, era pienamente immersa in un'atmosfera
tutt'altro che accademica, anzi assolutamente libera e originale,
direi perfino scapigliata e comunque ideologicamente e letterariamente
sempre militante" (12).
Nell'esporre il mio punto di vista partirò, oltreché
dalle testimonianze della Corti e del Marti che mi sembrano assumere
un incontestabile carattere di fonti per la valenza autoptica e autobiografica
che le connota e alle quali corrisponde quanto ho appreso in più
occasioni da Oreste Macrí (13), anche da una considerazione
di ordine storico generale. Le riviste salentine degli anni Quaranta
del Novecento (da "Vedetta mediterranea" a "Libera
Voce", ad "Antico e nuovo") sono caratterizzate, fatta
salva la diversa e opposta matrice ideologica di "Vedetta",
da un comune denominatore che attiene al riguardo letterario: l'intento
di collegare il Salento al resto della nazione e all'Europa mediante
una chiamata a raccolta delle forze amicali, voglio dire degli intellettuali
non salentini (ma, ovviamente, anche salentini) con i quali Bodini,
Macrí, Comi, Pagano avevano istituito rapporti di frequentazione
oltre le mura della piccola patria. Su questo aspetto ho avuto modo
di soffermarmi sulle pagine di questa stessa rivista, a proposito
di Gatto e di Caproni (14), e di sottolineare il ruolo determinante
che ebbero tali rapporti sicché ermetismo e liberalsocialismo
convissero sulle pagine di "Libera Voce" e, più tardi,
un ermetico come Gatto trovò ospitalità su un foglio
di impegno neorealistico come "Il Campo". Questo carattere
di "condivisione", lungi dall'essere un limite, fu un referente
sul sentiero della sprovincializzazione della cultura salentina e
della sua "apertura" nei confronti delle tensioni europee,
con prevalenza di quelle franco-ispaniche, in quegli anni segnati
dall'urgenza di mettersi al passo coi tempi, presto e comunque, sicché
ciascuno portava al mulino della renovatio culturale e sociale del
Salento il proprio contributo. E Girolamo Comi, volendo e fondando
l'Accademia salentina, evitò uno iato verosimilmente pernicioso
per la continuità ideale di quanto "Vedetta" e "Libera
Voce" avevano prodotto in termini di rinnovamento letterario.
Gli anni in cui ebbe vita l'Accademia furono quelli compresi fra il
'48 e il '53 e "L'Albero" costituì l'unico tramite
di collegamento e interazione fra Lecce, Roma e Firenze prima che
"L'Esperienza poetica" (1954-56) di Bodini e De Rosa e "Il
Critone" (1956-66) di Santoro e Pagano fornissero altri concreti
sviluppi in tal senso. Questo assunto trova la sua ragion d'essere
nell'editoriale del primo numero de "L'Albero": "E
infatti, i programmi venivano dopo; si trattava, innanzitutto, di
cedere a un ente l'anima e il cuore di un uomo vivente che avesse
creduto in talune certezze fondamentali circa la vita e la poesia,
e ora rivolgesse un appello ai migliori uomini di Puglia, un libero
e sereno appello nello spirito di 'amicizia' e di affratellamento
'cristiano', nel significato più ampio, eppure più antico
e più rigoroso della parola. A tale richiamo rispondessero
gli amici degli amici di altre terre, da qualunque terra, nella quale
dimorino uomini disposti a un patto di assoluta chiarezza reciproca
[ ... ] onde possiamo sapere 'chi siamo' e 'quanti siamo', trovandoci
ad uno ad uno, perché impariamo nuovamente a rivolgerci delle
domande e a risponderci senza dubbi" (15). Amicizia e affratellamento
le ragioni ideali che compattavano i ranghi dell'Accademia cui procurava
fondamento la gnosi mistico-cristiana di Comi, peraltro talmente aristocratica
da non poter condividere alcuno sforzo o ipotesi di corriva simpatia
elettoralistico-clericale. E risposero all'"appello", nel
giro di un anno, oltre ai citati Macrí, Pierri e Marti, anche
Luciano Anceschi, Rosario Assunto, Vincenzo Ciardo, Maria Corti, Luigi
Corvaglia, Enrico Falqui, Ferruccio Ferrazzi, Giuseppe Macrí.
Rompere il cerchio della solitudine fu, dunque, il primo e più
incalzante obiettivo, per venir fuori da quella ostracizzante "condizione
generale dell'uomo, che oggi si arrovella su un varco [ ... ] in solitudine"
(16). A quella condizione reagivano, con altre esperienze e in altre
forme, il Camus de La peste o il Vittorini de "Il Politecnico"
o il Bodini de "L'Esperienza poetica". Ciascuno secondo
il proprio carattere, la propria Bildung. Una vena di utopia indubbiamente
trascorre quell'empito non solo di ordine etico ma anche civile che
trasuda dalle enunciazioni programmatiche dell'Accademia comiana:
"occorre ancora una volta procedere per simboli e modelli, sia
pure viventi e concreti, per liberarci dalla fuga, per appartenerci
domandando e rispondendo" (17). Volontà di dialogo e umanismo
non contrastano con le posizioni ermetiche, in realtà ne rappresentano
l'ideale evoluzione in forme e spiriti nuovi, lungo il solco già
tracciato da Bo.
L'Accademia si proponeva come una comunità (18) "in una
terra di sangue, costume e cultura" (19) per disegnare un "modello
di società fondata sull'arte e la critica, sciogliendo in essa
società il demonico potere assorbente e funesto dell'arte e
della poesia" (20).
Certo prevalse la letteratura sulla vita, il livello "puro",
speculativo, su quello "storico", operativo, ma non si può
valutarne il merito con parametri, per così dire, esterni o
seriori, né si può negare l'intento, cui assolse Comi
a sue spese e a suo irreversibile danno (21), di collegare cultura
e società pel tramite dell'Accademia che si proponeva "di
esplicare i suoi interessi spirituali e letterari con pubblicazioni,
conferenze, ritiri [ ... ], di dotare [come fu dotata] la sede lucugnanese
di una sufficiente biblioteca" (22) e, soprattutto, di reclutare
"nelle scuole della zona e nelle associazioni universitarie [
... ] giovani provvisti di evidenti capacità creative o critiche,
onde provvederli di sussidi e borse, nel caso fossero poveri"
(23). Ma a dare la misura della tensione verso il sociale ed anche
della carica utopica che la connotava, è la creazione, in Lucugnano
nel 1948, di uno "Stabilimento per l'estrazione dell'olio e aggiunta
Raffineria" (24), alle cui casse doveva attingere l'Accademia
per sopravvivere, nella prospettiva del "riscatto del basso Salento,
al fine di industrializzare la materie prime del luogo" (25).
Ferrazzi, in un encausto che raffigurava San Rocco, protettore di
Lucugnano, ai piedi di un grande ulivo "festante i fronde e di
bacchiatori", trascrisse lo spirito con il quale l'opificio nasceva.
L'oleificio sociale produsse speranze non solo nei soci del sodalizio
ma, soprattutto, nella comunità operaia lucugnanese allorché
giunsero da Milano, acquistate con leggerezza, alcune macchine per
la lavorazione dell'olio, le quali, usurate o difettose, (26) causarono
invece il fallimento del progetto comiano, determinando una pesante
situazione debitoria a esclusivo carico del poeta. Dalla terra all'ulivo,
all'olio, all'Accademia, alla cultura, (finalmente liberata da camarille
editoriali o compromessi) che doveva restituire alla terra quanto
da essa le era derivato sotto altre forme: questa la mappa in scala
dell'utopia comiana che fu tale esclusivamente perché le forze
economiche di Comi non furono pari a quelle intellettuali e perché
l'eccentricità geografica del Salento giocò un ruolo
negativo che, come vedremo, fu determinante. Questo conato ideale
di una liberazione ("liberarsi per essere" si legge in Necessità
dello stato poetico) della cultura corrisponde al graduale allontanarsi
di Comi "dalla cittadella letteraria del potere, dei virtuosismi,
dei traffici, degli 'arcipelaghi', delle eresie avvincenti, delle
preminenze e delle gerarchie per uno 'stato' laddove la 'sostanza
poetica' in sé avrebbe rimesso alla poesia il suo mandato superlativo
e trascendentale" (27).
Un esempio di intervento dell'Accademia sul territorio, come oggi
usa dire, fu l'assegnazione dei premi annuali (lire 120.000) "a
tre insegnanti rispettivamente delle scuole elementari (5ª) di
Lucugnano, della (5ª) classe ginnasiale di Maglie e della terza
classe liceale di Lecce" (28) cui seguì l'istituzione
di tre borse di studio "da assegnarsi al miglior allievo licenziato
rispettivamente dalla scuola elementare di Lucugnano, dal liceo classico
'Capece' di Maglie e dal liceo classico 'Palmieri' di Lecce"
(29).
Ma era la vita dello Spirito "intesa in senso integrale, cioè
umano e divino" (30) che occupava il posto centrale nella mente
di Comi, nella sua poesia e nella sua riflessione, sicché tanto
l'Accademia quanto "L'Albero" nacquero "da persuasioni
intense d'ordine interiore oltre che poetico e artistico [ ... ] nel
clima di una libertà illuminata dalla ispirazione e dalla ricerca
di una armonia, direi programmatica, sempre più consapevole,
attiva e vibrante" (31).
C'erano dunque il contatto con la vita e le tensioni ideali di Comi,
non certo di maniera ma consustanziate con la sua natura e con la
sua poesia. C'era, alla base, il mito umanistico dell'intelligenza
ma soprattutto il culto dello Spirito, della sua vita cosmica che
solo la poetica del Verbo può attingere nell'ascensus mistico-poetico.
Altro che "svago personale"! Ma le valutazioni bodiniane
risentivano, naturalmente, delle polemiche nei confronti dell'ermetismo
e, comunque, erano incardinate in una temperie epocale che impediva,
proprio per la prossimità del quotidiano e del reale, una distaccata
esegesi storica.
Anche per altri aspetti l'Accademia ebbe significato: permise che
si incontrassero, come dice Marti, ai "carceres di partenza",
o quasi, alcuni fra i suoi soci allora poco più che trentenni
e che imbastissero fra loro trame di sodalità che durano tuttora.
Penso alla Corti, a Marti, a Macrí, ad Anceschi o ai più
giovani Accrocca ("frequentò" l'Accademia intensamente
fra il '50 e il '51, rimanendo legato, come Gatto e altri, agli amici
leccesi), Valli, Cassieri, per non dire del compianto Pagano che meriterebbe
un capitolo a parte. Chi erano allora? Chi sono oggi? L'Accademia
fu l'incunabolo di certi loro itinerari futuri e ne preconizzò
il valore e le fortune. Quanto al tentativo di imporre "un'integrale
egemonia cattolica", tre nomi ne contrastano l'ipotesi: Luigi
Corvaglia, che visse la sua vita all'insegna dell'anticlericalismo
più fiero e nel culto della laicità dell'intelligenza
(32), Rosario Assunto (33), filosofo dell'arte fra i massimi del pensiero
laico, Luciano Anceschi (34). Ciò che univa, in realtà,
questi uomini fra loro era la comune volontà di confrontarsi
e riflettere per una teoresi dell'arte, della letteratura e della
vita. Loro compito, quello "di accogliere e fecondare la nascita
di opere che [ ... ] rispondano [ ... ] alle più alte necessità
dello spirito, oltrepassando i limiti di una ricerca tecnica"
(35) per un umanesimo integrale: "non quindi mera accademia,
ma vita delle lettere e fermento di quella problematica che rende
gli autori partecipi della coscienza contemporanea, tesa sensibilmente
a superare ogni astratto della cultura" (36). Conseguenziale
il bando di un concorso, di ambito pugliese, per due premi ad opere
inedite di economia, dialettologia, storia dell'arte, storia politica
da pubblicare a spese dell'Accademia (37). Un documento dell'attività
teoretica ci viene dal Convegno del 27 agosto 1949. Così verbalizzava
Maria Corti: "[ ... ] La mattinata è trascorsa in conversazioni
sul problema della fenomenologia dell'arte, impostato da Luigi Corvaglia
sulla concezione di una continuità di sviluppo che escluda
salti qualitativi, fra stato poetico e creazione artistica e discusso
dagli altri soci e in particolare da Oreste Macrí nel senso
che tale visione del problema, eliminando la fondamentale differenza
qualitativa tra il mondo psicologico [ ... ]di uno stato poetico e
la realtà metafisica e storica dell'opera d'arte come 'consegna'
di ogni artista [ ... ] arriverebbe in definitiva a negare la fenomenologia
dell'arte" (38).
Nel Convegno successivo (27 agosto - 9 settembre 1950), si discusse,
con prospettive ideologiche diverse, sul tema Significato e funzione
della cultura. Fra le tesi (39) si segnalano quelle di Macrí
(carattere strumentale della cultura in quanto momento analitico del
pensiero che si attua soltanto nell'ambito della filosofia e della
teologia), di Anceschi e Assunto (mondo di valori in fieri in cui
coesistono il momento analitico e quello sintetico), di Comi (cultura
come mezzo "concreto e vitale" di ascesa verso il trascendente),
della Corti che, richiamando "l'ampia disponibilità semantica
del termine" proponeva una "riduzione del tema a un piano
di problematicità più tecnicamente e storicamente concreta"
(40).
La prima polemica fra i soci dell'Accademia si registra sul secondo
fascicolo de "L'Albero" proprio sul fronte del problema
religioso (41) che fu ripreso e trattato nel Convegno suddetto nella
prospettiva del rapporto EsteticaReligione (42).
Ai convegni si alternavano le riunioni della durata di un giorno come
momenti deputati al dialogo e alla organizzazione dell'attività
sociale. Particolarmente significativa per la storia del sodalizio
è quella del 3 gennaio 1949. Vi partecipano O. Macrí,
Marti, Ciardo, G. Macrí, Pierri, Anceschi, Corti, Ferrazzi,
Albertina Baldo, Comi e Spagnoletti (quest'ultimo in veste di "osservatore")
(43). Si disegnano i programmi ("pubblicazione di un periodico
trimestrale dal titolo L'Albero in cui vengono raccolti gli Atti dell'Accademia
stessa e gli scritti dei soci e amici, la pubblicazione di edizioni
letterarie scientifiche, lo stanziamento di somme per borse di studio,
l'organizzazione di premi letterari, l'istituzione di ritiri stagionali
di studio nella sede di Lucugnano, fornita di biblioteca e Galleria
d'Arte") (44) e si dà mandato "al fondatore Girolamo
Comi [ ... ] di espletare tutte le pratiche necessarie al riconoscimento
di detta società quale ente morale". Iniziava così
la storia de "L'Albero" il cui primo numero uscì
in cinquecento copie. Si affidò a Ciardo e a Ferrazzi (45)
il compito di realizzare un grafico, da porre in copertina, il quale
raffigurasse un olivo. La scelta di questo soggetto, come emblema
della terra salentina, aveva le sue ragioni in ciò che l'olivo
significò, nei secoli, per l'economia, la vita, la pietà
religiosa e la cultura in Terra d'Otranto) (46). Comi condusse (47)
Ferrazzi in un oliveto nell'agro lucugnanese perché traesse
ispirazione da taluni nodosi e giganteschi alberi secolari, sotto
uno dei quali, nei pressi di Montesano, la tradizione voleva che si
fosse assiso il Mommsen durante una sua escursione salentina. Realizzati
i disegni, Comi preferì quello di Ferrazzi, suscitando un passeggero
risentimento in Vincenzo Ciardo. Altra seduta di notevole rilevanza
fu quella del 4 gennaio 1951. Vi parteciparono Anceschi, Assunto,
Ciardo, Corti e Comi. Fu dibattuto il tema Libertà e Cattolicesimo
che vide confrontarsi i laici' Assunto e Anceschi e il cattolico Comi.
Seguirono riflessioni revisionistiche dell'estetica kantiana (Assunto),
discussioni di critica letteraria, "intesa come dialogo fra lettore
e opera" (Corti, Anceschi), e d'arte: Ciardo negava ogni possibilità
di sviluppo all'astrattismo pur riconoscendone alcuni valori storici,
Anceschi individuava il significato della pittura astratta in un linguaggio
progressivo in ordine all'espressione e alla "parola" dell'artista,
Assunto rivisitava la dicotomia classico-romantico fondandola sulle
kantiane categorie universali del bello e del sublime alla luce di
una ricerca dell'"esteticità" come forma pura dell'essere,
sicché riconduceva i termini Rinascimento, Barocco, classico,
romantico a figurazioni fenomenologiche di tali categorie e Anceschi
ne precisava il rapporto con l'"esteticità" come
conoscenza della realtà in sé in quanto "esistenza
sensibile" (48).
I Convegni successivi sono due. Quello del 2-7 settembre 1952 vede
presente Oreste e Albertina Macrí, Ciardo, Pierri, Ferrazzi,
Comi e Luigi Corvaglia che "si rivela accademicamente inedito,
felicissimo" nella esposizione delle sue tesi inerenti a Giulio
Cesare Scaligero (49) che costituisce il tema della prima giornata
chiusa, poi, con la registrazione sull'Album di un sonetto (50) di
Oreste Macrí
Altra notte.
Veloce, la pianura
ha spento le cicale. Un seme arguto
fiorisce sull'inane onda matura
dei grani gialli, e cala il gregge muto
delle nubi
di Puglia, e già s'indura
la collina ferace e il cielo astuto,
vanissimo nel giro senza mura.
Un corno dai pagliai sibila acuto.
Ma sentirai,
fra tanto esiguo lume
quant'arde nelle crete di Messapia,
l'elemento del male domo al gioco
delle squallide
conche, delle dune,
dei greti, onde è palese quanto sappia
toccare questo lungo canto roco.
Nell'ultima giornata
(7 settembre) ognuno dei presenti espone alcuni aspetti "riguardanti
la propria intima esperienza di uomo, di studioso, di artista".
Ferrazzi collega a Leonardo e al leonardismo ("simbolo storico
di arte intellettiva e geometrica") le sue prime esperienze futuriste
e cubiste su cui si sarebbe innestata poi quella "necessità
nuova, legata a un proprio rivolgimento interiore di natura etico-religiosa,
di un'arte obbiettiva e corale" sorta da "un'intuizione
di dinamismo spirituale che si diparte da Leonardo stesso" per
integrarsi nella "visione unitaria e organica di un mondo nuovo,
nel quale l'artista diviene persona operante" (51) in simbiosi
con la società. Luigi Corvaglia, dopo aver discorso sull'aristotelico-averroista
Gerolamo Baldovino (52) di Montesardo, chiarisce i termini del suo
razionalismo "fondato sui sensi e sull'esperienza, contro il
dogmatismo e l'autoritarismo" (53), mentre Pierri, Comi, lo stesso
Corvaglia, la Corti e Macrí ricordano le vicende politiche
personali, talvolta dolorose, vissute durante il fascismo e la guerra.
Meno frequentato il Convegno del 28 dicembre 1952 (tema: Gide, morte
e dannazione) che registra solo le presenze di Pierri, Ciardo e Comi
il quale "insiste su una cecità [di Gide] volontariamente
esibita" come possibile difesa estrema contro il dubbio (54).
Fra il serio e il giocoso trascorre la giornata del 3 gennaio 1953
che, per il quinto anniversario della fondazione de "L'Albero",
registra le presenze di Cesare Segre, presentato da Maria Corti, di
Mario e Franca Marti, di Donato Valli, di Comi. Lo stesso carattere,
lieto di umori conviviali, intriso di autoironia, si coglie nella
riunione del 22 agosto 1954 (presenti Bice Onofri, Oreste e Albertina
Macrí, Vittorio e Marcella Pagano, Luigi Corvaglia, Rina Durante
e Comi) (55) e in quella del 28 dicembre dello stesso anno (56) che
può ritenersi l'ultima fra quelle iscrivibili nel clima dell'Accademia
che il 25 aprile 1953 si era estinta esitando nella "Casa editrice
dell'Albero". Fu Comiche, di sua iniziativa, volle sciogliere
l'Accademia che, nonostante i voti dei soci, non era stata trasformata
in Ente morale. Quali i motivi? A darcene ragione è una lettera
del poeta a Oreste Macrí il quale così si era espresso
in una sua del 30 dicembre '53:
Caro Girolamo,
posso dirvi che mi è doluta - a Pierri, che mi ha scritto una
mestissima lettera, a qualcun altro la tua intervista alla Fiera (57).
Per noi pochissimi l'Accademia è stata qualcosa di intimo e
di bello, e ci èspiaciuto il tuo atto di scioglimento senza
aver chiesto il nostro parere, anzi contro il nostro parere che era
esplicito. Tutto tramonta costaggiù. Pazienza. Tu sai bene
che non credo nella casa editrice né nel nuovo Albero, anodino,
personale e vetrina di poeti, sia pure notevoli. La tua prima promessa
di elevare l'Accademia a ente morale non fu mantenuta, altrimenti
l'istituzione avrebbe avuto sviluppo ben diverso, e avremmo immesso
nuove forze locali e nazionali. Ma di questo non ti abbiamo mai mosso
rimprovero; in contraccambio ti chiediamo, Michele [Pierri] e io che
siamo rimasti più colpiti, di risparmiarci la pubblicità
e la stampa. Per giustificare il tuo atto basta la naturale evoluzione
della tua personalità artistica e letteraria, e la tua volontà
di fondazione dell'istituto.
Ti abbraccio e ti auguro buon anno Oreste
Comi replicò
a Macrí con questa lettera (58) di cui si offre integralmente
il testo
Gennaio 1954
Caro Oreste
molto mi duole che vi siate doluti di una cosa di cui non mi pare
che sia il caso di dolersi... Una trasformazione non è scioglimento,.
né io ho inteso sciogliere nulla di quel che fu - spiritualmente
- legato il giorno della nostra Fondazione (3 gennaio 1948). L'Accademia
salentina (1948) diventata Casa de L'Albero (1953) - il quale Albero
rappresentava, secondo le tue stesse parole, l'Accademia stessa -
conserva e mantiene la sua figura iniziale la quale è tutt'uno
con la sua funzione che è quella di una società letteraria
ispirata ai più alti valori della tradizione, dell'intelligenza
e del cuore. Dialogo sempre aperto, dunque, anche se alcuni sodali
si sono allontanati dal nostro ceppo molto prima della trasformazione
dell'Accademia. Se l'Accademia non fu eretta ad Entecome era nei miei
propositi e nei miei voti - non è perché fosse mutato
il mio orientamento, ma perché le mutatissime condizioni economiche
da una parte e le difficoltà ad esse connesse e da esse derivanti
e determinate, dall'altra, non me lo hanno consentito.
Se ci fossimo rivisti un po' più spesso, ti avrei, vi avrei
informato - almeno nei particolari essenziali - delle ragioni e degli
impedimenti, tutti gravi e validi, che non mi hanno permesso di portare
a compimento il progetto della primissima ora. Ma l'importante mi
pare, caro Oreste, è che l'Accademia, ora casa dell'Albero
(e casa ospitale come prima e meglio di prima) viva oggi. come ieri,
sotto il segno e l'insegna di una Civiltà Letteraria ricca
di ambizioni luminose e illuminanti, di propositi attivi e di realizzazioni
armoniose. Perché dispiacersi di una trasformazione che non
comporta mutamenti ed esclusioni sul piano morale, affettivo e culturale
e che sul piano concreto può offrire la possibilità
di sviluppi maggiori? Comunque, se peccato c'è stato da parte
mia, esso è reperibile nella forma: ché nella sostanza
(e in questo caso è la sola che conta) le cose sono andate
e stanno come sopra ti ho detto. Manderò copia di questa lettera
agli amici.
E intanto continuo a contare sulla vostra amicizia e sulla vostra
collaborazione. Tante cose care e credimi con un abbraccio
Tuo aff.mo G.
Dalla lettera
di Comi emergono le difficoltà economiche dalle quali il poeta
già era irretito (aumenteranno con il passare degli anni) e
alle quali va riconosciuto il ruolo preminente in ordine alla decisione
di sciogliere il sodalizio. Ma vi furono anche altre ragioni meno
palesi. Prima fra tutte, la diaspora di alcuni soci ("alcuni
sodali si sono allontanati dal nostro ceppo molto prima della trasformazione
dell'Accademia") ai quali l'ingresso nei ruoli universitari apriva
altri circuiti, altri spazi entro i quali maturavano nuovi interessi
sicché per loro l'Accademia salentina rappresentava ormai una
tappa del proprio itinerario biografico e culturale già compiuto,
un momento senz'altro positivo ma irremeabile nella storia della loro
formazione. Inoltre l'eccentricità del Salento rispetto a Milano,
Firenze, Roma, Urbino, ove risiedevano Anceschi, Corti, Macrí,
Ferrazzi, Marti, Assunto rese sempre meno frequenti le riunioni e
i convegni. Fu allora "L'Albero" ad assicurare continuità
allo spirito del sodalizio anche se la sua pubblicazione (come anche
la vita dell'Accademia) non sempre fu agevole per certa "abbastanza
facile e troppo esercitata malignità" (59) o per altre
ragioni evidenziate da Anceschi in una lettera a Comi (60): "[
... ] Ho riflettuto molto sull'Albero in questi giorni. E debbo dirti
che sempre più mi appare giustificata la proposta di fare due
grossi numeri all'anno, corrispondenti alle due tornate dell'Accademia.
Eccone le ragioni: 1) Le difficoltà delle distanze [...]. 2)
La difficoltà di avere buon materiale [ ... ]. E noi dobbiamo
avere sempre materiale ottimo [ ... ]. 3) Il rivolgerci a giovani,
a nuovi, crea certe difficoltà".
Ma forse veniva meno anche il "bisogno di ritrovarsi" che
fu sì vivo negli anni immediatamente successivi alla guerra.
La realtà storica e sociale cambiava: l'Italia del '54 non
era più quella del '47, la ricostruzione era in atto ed erano
meno insistenti i fantasmi della guerra. Sul versante letterario il
neorealismo faceva apparire anacronistica (61) certa attività
letteraria ma non ne intaccava la sostanza - che oggi riscopriamo
- perché "L'Albero" continuava a vivere e a perpetuare
"ciò che fu spiritualmente legato il 3 gennaio 1948".
Soprattutto lo spirito di libertà a proposito del quale così
scriveva a Comi, da Roma, Elio Filippo Accrocca: "Se non ti avessi
spedito il mio libretto avrei menomato quell'intimo e serio legame
che unisce, ciascuno nel suo lavoro e nella libertà del proprio
pensiero, gli amici dell'Accademia salentina [ ... ]. Ognuno di noi
è veramente libero di operare [ ... ] a seconde delle proprie
convinzioni e delle proprie possibilità. [
] Lascia che
te ne dia atto onestamente" (62).
Circa il rapporto fra letteratura e vita, ecco quanto Comi dichiarava
a Edoardo Gennarini riguardo alle nascenti Edizioni dell'Albero: "I
problemi sono disparati, ma tutti tendono alla chiarificazione dell'uomo
integrale come sintesi possibile delle esperienze moderne. L'oleificio
e la poesia, la casa editrice e l'attivismo economico non sono per
me una contaminazione ma frutto di un'unica attività dello
spirito [ ... ]. Noi vogliamo con tutto l'ardore richiamare l'individuo
alla società, a una ideale società che tuttavia non
significa metafisica o simbolo trascendentale" (63).
E fra "stenti che avrebbero stroncato la buona volontà
di chiunque", (64) Comi portò avanti, negli anni che gli
rimasero da vivere, nella sua Casa (65) che divenne un mito intellettuale
e un approdo dell'anima, "L'Albero" che di quella felice
stagione dell'Accademia raccoglieva l'eredità e ne perpetuava
la consegna di una nobilissima concezione della vita e dell'arte.
Mi è sembrato opportuno pubblicare in questa sede solo alcune
fra le testimonianze letterarie o epistolari che giacciono inedite
e sconosciute sotto la coltre di un polveroso oblio che fascia la
vita segreta dell'Accademia. Una vita fatta di memorie e di sensazioni
ancora vive e palpitanti che è dato cogliere sfogliando i fogli
ingialliti dell'Album. La nota odeporico-memoriale di Ferruccio Ferrazzi
(non fu pubblicata per non so quali ragioni) si trovava in una cartella
nella quale erano raccolti alla rinfusa i contributi che sarebbero
poi apparsi sul n. 19-22 de "L'Albero" (1954). Essa attiene
al Convegno del settembre 1952, di cui si è detto innanzi,
e ne fissa, in una prosa lirica vibrante e sospesa, l'atmosfera di
aristocratica misura, la tensione spirituale, la Stimmung. Ma soprattutto
ritrae i presenti (Maria Corti, Luigi Corvaglia, Oreste e Albertina
Macrí, Michele Pierri, Comi) nei loro modi, nei loro gesti
che suscitano vaghe risonanze dantesche, "essercito gentile"
raccolto, in attesa della sera, in una sorta di valletta dei principi,
la casa di Comi, dove "anche le ombre sono amiche". Sullo
sfondo, un Salento arcaico e mitico che oggi non c'è più,
idoleggiato dall'impressionismo narrativo del Ferrazzi. La lettera
della Corti, invece, fa parte di un cospicuo carteggio che la scrittrice
milanese istituì con Comi. Fra le tante, ho scelto questa che
fa luce sulla polimorfa natura dei contributi apparsi su "L'Albero"
e nell'ultima parte affida a una prosa elegante e commossa teneri
sentimenti di abbandono lirico e spirituale.
b) Testimonianze inedite.
- L'Accademia Salentina nel diario di Ferruccio Ferrazzi
Sono ripartito
da Roma, dopo il Congresso di Assisi, con un caldo afoso. Di buon
mattino però fino a mezzogiorno, mi son rifatto rivedendo queste
pianure pugliesi, dove l'occhio si sofferma sui bianchi delle case
simili a lenzuola, ombre geometriche, sassaie distese, macchie tonde
di alberi, trascorrenti fichidindia dalle labbra carnose... Su questa
pianura, che il sole quasi impolvera, l'uomo appare un punto, una
virgola sul rullo di carta che si svolge al di qua e al di là
del finestrino del treno, su cui gli alberi cupi, il biancore delle
case, le terre rosse, le pietraie e le opunzie s'imprimono senza fine.
Fantasticavo fermo fuori della stazione di Lecce in un barbaglio di
grigiori. Le carrozzelle, da cui son discesi i lussuosi landau, ancora
onusti di remoti fasti, si allineavano formando una cortina impenetrabile.
Da quella rigatteria animata emerse Gerolamo. Sforzava la sua abituale
compostezza per cercarmi. Impolverato di vestito grigio-chiaro, smagrito,
mi venne incontro. La sua apparizione disperdeva i dubbi innumerevoli
di quei minuti di attesa. Mi parve abbracciare con lui tutta l'immagine
di terra e di cose che durava da tante ore.
Seduti come in bilico in una carrozzella, si aveva la sensazione di
stare sulla soma ossuta di un asino, così scontorte erano le
molle del sedile. Sotto il soffietto alzato, che ci teneva in una
botte calda, si andò prima per diritto e poi ci si cacciò
tra le viuzze serpeggianti del centro.
Ora l'amico mi accennava all'incendio della sua macchina distrutta
giorni prima da un ritorno di fiamma. La sua voce restava sempre quella
abituale, dominata, distaccata. Me ne informava, per spiegarmi di
non avermi atteso con la sua automobile. La nuova ci aspettava dopo
colazione. Gli piaceva che l'inaugurassi io, con quel primo viaggio
per Lucugnano. Prima di partire, compimmo una visita minuziosa e interessante
alla "Scuola d'arte" di Lecce, diretta con maestria dal
pittore Lauriello di Roma. In particolar modo rilevanti le attività
d'arte locale, come quelle del ferro battuto e dello sbalzo dirette
dal noto artista leccese D'Andrea. L'Istituto intende anche sviluppare
l'arte della ceramica con ottimi impianti ed ottimi risultati. (Mi
proverò anch'io a trattare su questo materiale l'Albero dell'Accademia).
Eravamo ormai a Lucugnano in casa di Gerolamo: nel palazzotto di garbato
neoclassicismo, si snodava l'ampia scala dell'atrio; da grandi olle
venivan su intrecci di chiaro verde trapuntato di gelsomini bianchi.
Poi le stanze susseguentesi su variazioni di spazio e di cubo. Tutt'intorno
una penombra discreta, un'austera frescura, un'ordinata disposizione
al raccoglimento. In quell'atmosfera la figura dell'amico acquistava
rilievo, emergeva quasi dalle cose: il suo silenzio abituale interrotto
da parole rade, dette sempre a mezza voce, gli ordini più accennati
che espressi, il sorriso appena abbozzato. In quella luce il suo passo
claudicante si alleggeriva. Ma a definirlo, più che la luce,
conferiva la penombra, l'elemento più congeniale con la sua
spiritualità, così intimamente vigile e tormentata dalla
meditazione e pur così serena nelle volontarie certezze. S'intuiva
che in lui ogni processo interiore si componeva nell'atto di esternarsi,
chiarendosi nell'espressione ferma ed apollinea della fronte. Dominio
silenzioso, entro e anche fuori, su se stesso, sulle cose e sugli
uomini del suo piccolo mondo.
Nelle sale ovunque libri. La discoteca. Le stanze di un gusto sapientemente
sobrio. La terrazza con l'oliveto pénsile, la più salentina
delle terrazze, in virtù dell'elaia callistefana. Questi arbusti
si allineavano in grandi anfore ancora greche di sagoma, a dominio
del sottostante giardino, dove la vegetazione, crescendo rigogliosa,
ricomponeva anche intorno alla casa un'atmosfera di penombra.
La sera di sabato 6, Gerolamo fu ancora di corvé alla stazione
di Lecce a prendervi Michele Pierri, chirurgo e poeta salentino.
Pierri ha una decina di anni meno di me e di Comi, dal quale mi distaccano
tre mesi dal mio marzo. Non ci vedevamo da qualche anno e fu un piacere
riabbracciarci.
Ha indole mite e riservata. La sua testa tonda e calva trova l'accento
acuto in un naso sottile fino all'arguzia volterriana, ma la bocca
devia in bontà umana da un mento che ferma il viso non scarno.
La pelle rossiccia si fa lucida intorno ai pomelli infantili. Gli
occhi mobili si muovono vigili dietro le lenti. Dall'andatura compassata
si direbbe calmo. Ma è una parvenza. La sua anima candida si
muove come fiamma al soffio più lieve. Un cenno casuale ci
ha consentito di conoscere le sue traversie di "estremista",
durante il ventennio. Ma abbiamo dovuto cavarglielo di tra i denti,
tanto si faceva vergognoso a rievocare queste testimonianze della
sua nobiltà d'animo. Ha stemperato il racconto in particolari
scherzosi: durante un anno di galera, ebbe la sua cella accanto a
quella del brigante Salomone; sull'una e sull'altra avevano appiccato
il cartello "soggetto pericoloso". Ma nel tono quasi afono
e scolorito della narrazione, sotto quell'apparenza di rassegnata
volontà, tu avvertivi la tempera di acciaio, la passione inesausta
della libertà. Anche ora egli vive votato a questa testimonianza
rischiosa: padre di dieci figli, col genitore ottantenne a carico,
corre il pericolo di essere cacciato dall'Ospedale di Taranto, dove
per trent'anni ha prestata con valentia e umanità incomparabili
l'opera sua. Eppure condisce la sua amarezza di sali casalinghi sulla
superstizione della sua compagna di vita, che dagli elementi più
disparati ricava l'oroscopo dell'incerto avvenire. Non sai quanto
in lui sia istintivo o volontario della sommissione alla legge della
sua vita, che un destino non propizio domina. Vero è che nel
suo spirito si contemperano le intuizioni del chirurgo con quelle
del credente. Infatti, com'è esatto nello scientismo, così
è esatto nel suo cattolicesimo, che si fa preciso sino alla
regola. La sua Comunione nell'ambito della fede si alimenta di certezza;
il dubbio, anche il dubbio degli altri, suscita in lui, quando s'impegna
in discussioni, risonanze interiori dolorose, che si traducono fin
nei tratti del viso ieratico.
Domenica, 7 settembre. Più che vederla, sentii arrivare Maria
Corti, durante la Messa, celebrata nella breve ampiezza della Casa.
Davanti all'altare spoglio s'appesantiva la figura del sacerdote Monsign.
... A riscontro una Madonna del Dolci (La copia non dava più
che un vuoto contenuto originale sfumato seppure aggraziato. Mi teneva
il ricordo nostalgico delle tante copie che in altri tempi ne facevamo
in casa mia per arrotondare il proprio bilancio). Mons. ..., curvo
sul messale o fra le diverse mansioni del rito, rendeva un senso penoso
di sforzo, ansimando. La voce grave s'arrochiva sul testo latino;
il capo grondava sudore. I movimenti stentati, strascicati. Sicché
l'apparizione di Maria Corti così agile, sarei per dire dell'andatura
alata, mi liberò d'incanto dalla suggestione di fatica che
mi aveva impedito di rivivere il santo Sacrifizio.
La Corti ha un'anima sensibile. Avvampa e scolora con una frequenza
che colpisce. Ma forse per effetto della dimestichezza con gli studii
analitici della filologia, in cui è versatissima, era lontana
dall'immedesimarsi, come m'immedesimavo io, nella trascendenza dell'Atto.
Dopo la Messa, io Pierri con la Corti, parlammo delle sue cose: il
suo bel saggio di canti funebri greci 6 6 vivi ancora in questa terra
del Salento, ch'ella pubblicò sull'Albero, finché non
sopraggiunsero, con Gerolamo, Oreste Macrí, la sua Signora
Albertina e Luigi Corvaglia. Luigi Corvaglia, che non avevo ancora
conosciuto di presenza, mi strinse la mano con cordialità irruente
nella sua enorme, come in una morsa. Un petto da ulivo salentino.
La testa, piantata su larga base quadrata, par che esca dalla toga
di un senatore romano. La Signora Albertina, con gli occhi che si
socchiudono in celeri alternative, sorride ai fiori di alcune folte
campanule chiare. Il marito protende il volto, in atteggiamento abituale
di ricerca, come fiutando. Incede con passo rapido, ora si arresta,
ora gira intorno, col fare di un segugio di razza. Gli occhi acuti,
rifratti dalle lenti, hanno una mobilità penetrante da inquisitore
spagnolo.
Il discorso si mosse dapprima svagato, a sbalzi, accordi preliminari
di un concerto. Fu lanciata l'idea di andare nel salone delle riunioni.
Io avrei fatto un appunto ad acquerello, mentre gli amici discutevano.
In breve l'annotazione fu pronta: un ambiente dalle lunghe luci-oro.
Divano e poltrone su altro tocco di giallo, tavoli e scaffali. Tra
questi il tratto di un nero, di un rosso viola. il gesto di qualcuno
accennato...
Poi, cercando la frescura e l'intimità, ci trasferimmo a tener
la seduta nella saletta di redazione dell'Albero. Ambiente raccolto
accanto alla terrazza, presso gli ulivi del poeta, che già
conosciamo, aperto sulla linea di platea dolce sulle rocce grigio-rosa
macchiate dagli scuri degli alberi che Vincenzo Ciardo ha fissati
così suggestivamente nei paesaggi dei suoi bruciati e gli ulivi
intrisi di cielo folle di luce che da quell'abbaglio respinge l'occhio
alle cose più vicine.
La seduta
Oreste Macrí, a nome di tutti, simpaticamente volle che io
iniziassi le comunicazioni all'Accademia, dopo tanto che mancavo alle
sedute.
Così in parte spiegai a voce il movente artistico e religioso
del tema, in parte lessi alcune note preparate il giorno prima.
"Risalire la montagna" fu il mio tema, sul presupposto di
due antinomie sorte in un medesimo tempo e clima: Michelangelo e Leonardo,
entità, la prima ancora medioevale come spirito ultimo che
raccoglie il coro di epopea eroico-religiosa nell'architettura dell'uomo
e la plasma sulla montagna Cristiano-Cattolica - l'altra in Leonardo,
inquietante proiezione dello stesso Medioevo, sul pieno Rinascimento.
Magico e corrosivo "il voto nasce quando speranza more",
è sua espressione, liberazione nel mondo del dubbio e della
indagine speculativa, dove arriva a creare il Demiurgo della libertà
assoluta anche nell'arte, nella pura astrazione dal valore fisico
e rappresentativo delle cose.
Le conseguenze furono vicine e lontane le più varie ed opposte,
fino a potervi rintracciare i germi negativi del nulla di oggi. Nel
1914-15, investito giovanissimo dalle fiammate futuriste che mi bruciarono
i residui di visioni pastorali Segantiniane, proprio su Leonardo dovevo
ritrovare, non più i primi elementi disegnativi appresi nell'adolescenza
dai suoi studi, ma la misura di uno "spazio prismatico"
e di moto non meccanico futurista, cioè la "unità
dinamica delle passioni", forza drammatica espressa nelle due
prime versioni cubiste "dei caratteri della famiglia", quella
del 1917 esposta a Milano al Cova nella mostra futurista, quella definitiva
del 1922-23, svolgimento simultaneo di un romanzo interiore pittorico,
come in Ospedale 1918 e Ballo, che furono esposti a Ginevra nell'Internazionale
del 1920.
Ora questi problemi sono ripresi e sviluppati con altra ampiezza di
contenuto nelle ultime concezioni spaziali religiose degli affreschi
recenti.
Ma la libertà nell'arte, conclusi, se ci riporta l'inquietante
problema individuale, lo frantuma di fronte alla collettività
sempre più distratta nella sensibilità delle ricerche
e delle notazioni di una realtà ridotta ad ornato e giroglifico
oppure autobiografiche.
Ed allora, fatto tesoro delle esperienze raggiunte, non possiamo fare
e disfare con una polemica individualistica e corrosiva, ma, abbandonando
una parvenza di libertà com'è ridotta l'arte attuale,
occorre risalire la "Montagna di quel medioevo", dove l'artista
ritrovi attorno a sé chi lo comprenda da uomo a uomo in una
necessità operante di "Ordinazioni".
Le obiezioni cordiali furono varie:
Pierri domandò quale può essere questa forza coesiva
per l'arte nella società: lo Stato? Io risposi: la Chiesa,
come timidamente e contrastatamente è nella ripresa.
Maria Corti trovò simbolico il mio raffronto più che
realistico. Corvaglia accentuò il problema centrale "della
dinamica delle passioni" su quella della movibilità delle
cose con rapporti delle concezioni dello Scaligero e di altri pensatori
del cinque-seicento.
Comi condivise l'aspirazione dell'arte in un contenuto sociale e corale
religioso.
Macrí, da pari suo, fece delle riserve. Queste grandi figure
del Rinascimento, poste nella loro realtà storica, restano
in una marcia parallela di ordine umanistico. In quest'ordine, anche
se esso può dividersi in una visione, corale l'una e individualistica
l'altra, Leonardo resta il simbolo di un arbitrio intellettivo dell'arte
contemporanea nella concezione di spazio tempo, fino allo schematismo
trascendentale dell'estetica kantiana, nella libertà che Apollinaire
ha ravvisata.
Così ebbe termine la seduta. Già la Tina aveva preparato
il pranzo nella sala delle agapi accademiche dei dodici.
Senza gravi problemi, anzi divagando su l'Islamismo di Corvaglia,
sull'ordine e sul paganesimo della vita allietate dalle contenute
postillazioni delle Signore, grati della ospitalità di Comi
definita "dono da lontani re agli amici", tutti andarono
a riposare per il caldo. lo rimasi a parlare con Corvaglia che mi
aprii spiragli sul prossimo passato trascorso, sull'umanismo, sui
suoi studi filosofici, sull'antica origine dei luoghi di S. Maria
di Leuca faro di Atena come oggi venerato Santuario della Vergine.
Bella serata salentina. Per la pianura fonda diffluivano gli aspetti
del giorno. Sotto la volta del cielo si raccoglievano le luci del
sole al tramonto. Dal mare vicino, veniva il vento sugli ulivi e sugli
aranci. Più tardi si diffondeva un chiarore che verso la costa
sembrava un'alba. S'insinuava sospesa la luna con la curva verso terra,
orlata nell'ombra del quarto dopo il plenilunio. Sembrava un sasso
enorme. Così l'ho dipinta sopra il pastore nell'affresco di
Cascia.
E sospesi erano anche i discorsi di tutti noi, raccolti sulla terrazza,
raggrumati come sassi nel cielo. Comi quasi timidamente disse con
la sua voce lenta, bassa e pausata, nei punti salienti scandita: "II
campo aperto dell'Albero resta senza testimonianze per quello che
deve essere la ossatura ideale della crescita dell'albero stesso nell'opera
integrale del Cristiano. Sull'agitarsi delle passioni e delle idealità
opposte in conformazione teorica, se mi arrivano risposte lontane,
tra noi invece pullulano sì le riserve e i dubbi di ordine
formale, ma non si entra mai nel vivo del problema".
Vi fu una pausa, poi Macrí, con la sua greggia chiarezza, rispose:
"Caro Gerolamo, il tuo dogmatismo è troppo implacabile
e feudale. (Anche Comi rise con tutti noi.) La tua conseguenza è
reale ed attiva, ma, permetticelo, noi non possiamo seguirti fino
a questo tuo rigore e sopprimere il dubbio e la volontà di
trovare da noi e in noi un nostro equilibrio. I nostri studi e la
collaborazione all'Albero sono per se stessi la testimonianza di tanti
apporti in questo campo comune".
Così la conversazione si conchiuse, in fraternità, dopo
che Macrí ebbe parlato del Cervantes, dell'Ariosto, dello sviluppo
epico e romantico nella Spagna.
Salutammo Corvaglia diretto alla sua casa non lontana.
Io e Pierri scendemmo nel giardino, mentre la macchina era pronta
per accompagnare Oreste Macrí e la Signora con Maria Corti
a Maglie.
In un clima così denso di problemi, il miglior saluto che potemmo
farci fu l'augurio di continuare un discorso che resta sempre aperto
ad altri imprevisti sviluppi, all'ombra dell'Albero di Lucugnano.
Ferruccio Ferrazzi
Roma-Lucugnano, 5-9 Settembre 1952
- Lettera di Maria Corti a Girolamo Comi
Como 29-11-55
Caro Comi,
perdoni il ritardo con cui la ringrazio dell'invio di parte delle
copie dell'Albero, ma la colpa di tale ritardo sta nella vita assurda
che faccio quest'anno (ginnasio a Corno e università a Pavia);
così assurda che per poco la continuerò. Ma di questo
discorreremo a voce a Natale. Ora non desidero che discorrere dell'Albero,
del bellissimo numero dell'Albero; dico bellissimo non per farle un
complimento, né perché proprio tutti gli articoli mi
piacciano, ma perché il numero è costituito da una ricchezza
di apporti e da una varietà di ricerche che veramente fa della
rivista una realtà non paragonabile ad altre - l'Albero è
nato e resta una rivista speciale, su cui scrive un poeta maledetto
di fianco a un filologo, un cattolicissimo di fianco a un marxista,
e, qui viene il bello, il tutto fa unità, fa lo spirito dell'Albero.
Come questo avvenga è difficile a definirsi, ma avviene; e
buona parte del merito sta nel suo direttore, nello spirito della
casa del suo direttore... - Ecco perché è lei che dobbiamo
ringraziare di donarci l'Albero. Dei particolari discorreremo a voce;
è veramente un numero interessante. Esso poi è penetrato
questa volta in nuove sedi, per l'invio delle copie fatto da me, e
a voce le dirò i favorevoli commenti. Le altre copie promessemi
non si prendano il disturbo di spedirmele; me le daranno a Natale
e io le invierò dalla Puglia stessa.
Arrivederci presto e, speriamo, con calma; vorrei fare una lunga e
bella chiacchierata con lei e con gli amici.
Come sta? Se sapesse che autunno dolcissimo di odori e di luci abbiamo
avuto sul lago questo anno; vi erano giorni in cui tutto era biondo,
le colline cariche di foglie ingiallite, le case, i tetti, il cielo
pieno di sole. Da due giorni è scesa la nebbia, che sempre
mi confonde e mi incanta 67 per quel suo rendere tutte le cose tremanti
nell'ombra. Ieri era così fitta che ho sbagliato strada; che
c'è di più bello che essere condotti a dover scoprire
daccapo il proprio paese e la propria casa? Se non mi desse in dono
i reumatismi, la nebbia mi farebbe felice; è l'aspetto più
avventuroso che il mondo possa prendere.
Ma quanto chiaccherare! Mi perdoni.
Tanti affettuosi saluti
Maria [Corti]
NOTE
1) Cfr. l'Album dell'Accademia (d'ora in poi citato con la sigla Am)
f. 4. L'Album, come ho già avuto modo di dire nel mio Lettere
inedite di Giorgio Caproni a Girolamo Comi (su questa stessa rivista,
n. 1, gennaio-marzo 1991), è un inedito brogliaccio zibaldonesco
in cui sono manoscritti i verbali sia delle sedute che dei convegni
del sodalizio. Vi si registrano anche versi, meditazioni, disegni
(quasi tutti estemporanei) di intellettuali che frequentarono casa
Comi e di semplici amici o estimatori del poeta. L'Album è
conservato, insieme con i manoscritti utilizzati in questa sede, presso
l'archivio storico di Casa Comi in Lucugnano il cui personale ringrazio
(in particolare i sigg. Indino, Minerva e Bramato) per aver favorito
le mie ricerche.
2) Cfr. MARIO MARTI, Un modesto tributo d'anamnesi comiana, vent'anni
dopo, in "Giovani realtà", VIII, n. 28, ottobre-dicembre
1988, p. 127. Marti ricostruisce, in questo saggio, la storia dei
suoi rapporti amicali con Comi: "La nostra conoscenza, che poi
divenne affettuosa amicizia, ebbe origine con l'istituzione dell'Accademia
salentina da lui programmata, fondata e generosamente sostenuta fino
all'impossibile. Affettuoso e sempre illuminato tramite dell'inizio
dei rapporti tra me e Comi fu, naturalmente, Oreste Macrì.
Fu lui che suggerì il mio nome come membro dell'originario
Comitato" (Ibidem).
3) DONATO VALLI, Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860-1960),
Lecce, Milella, 1985, p. 135.
4) VITTORIO BODINI, Lettera pugliese, in Panorama dell'arte italiana
a cura di M. Valsecchi e U. Apollonio, Torino, Lattes, 1951, pp. 169-171.
5) Ibidem. Sulle posizioni antiermetiche di Bodini maturate dopo la
guerra, si vedano almeno ARMIDA MARASCO, Introduzione a "L'Esperíenza
poetica", r.f., Galatina, Congedo, 1980, pp. XXXIII-XLI, A. LUCIO
GIANNONE, Bodini prima della "Luna", Lecce, Milella, 1982,
p. 56 e ss. ("I1 primo importante articolo, La cultura tradizionale
e la giovane letteratura, è già sintomatico del calore
e della passione con cui Bodini ripensava a una funzione da assegnare
alla letteratura in un clima storico profondamente mutato, anche in
rapporto alle proprie personali esigenze") e, limitatamente ai
saggi attinenti all'assunto, AA.VV., Le terre di Carlo V, studi su
Vittorio Bodint, a cura di ORESTE MACRI', ENNIO BONEA, DONATO VALLI,
Galatina, Congedo, 1984.
6) DONATO VALLI, Op. cit., p. 136.
7) FRANCO MARTINA, Il fascino di Medusa, per una storia degli intellettuali
salentini tra cultura e politica (1848-1964), p. 227. Si veda anche
ID., I cento anni di solitudine del letterato salentino, in "Contributi",
V, n. 2, giugno 1986, pp. 29-35.
8) MARIA CORTI, Intellettuali e cultura a Lecce, "L'immaginazione",
n. 44-45, agosto-settembre 1987, p. 16.
9) FRANCO MARTINA, L'Arcadia nel Salento, in "Quotidiano"
del 7 gennaio 1988.
10) MARIA CORTI, intellettuali ecc., cit.
11) Ibidem.
12) MARIO MARTI, Un modesto tributo ecc., cit., p. 119.
13) Nel confermarmi che fu Ferruccio Ferrazzi e non Vincenzo Ciardo
l'autore del disegno che raffigura un ulivo sulla copertina de "L'Albero",
l'illustre studioso mi ha fornito anche altri particolari sulla scelta
del disegno di Ferrazzi preferito a quello di Ciardo. Se ne dirà
innanzi.
14) Cfr. GINO PISANO', A proposito di Comi, inediti salentini di Alfonso
Gatto, in "Sudpuglia", XVI, n. 2, giugno 1990, p. 103 e
ss. e ID., Lettere inedite di Giorgio Caproni ecc., cit.
15) Cfr. Cronaca della Fondazione, "L'Albero" (d'ora in
poi citato con la sigla AL), n. 1, gennaio-marzo 1949, p. 7.
16) Ibidem, p. 8.
17) Ibidem.
18) Il termine fu scartato come eponimo e gli si preferì quello
di "Accadernia Salentina" perché "non si sospettasse
alcunché di torbido e di utopistico" ibidem.
19) Ibidem.
20) Ibidem.
21) Cfr. CARMELO INDINO, ENRICO MINERVA (a cura di), Girolamo Comi
uomo di ogni giorno, Gallipoli, Nuovi orientamenti oggi, 1990, passim.
Il volume racchiude numerose testimonianze circa l'impegno di Comi
teso al riscatto della realtà sociale lucugnanese e salentina
in genere.
22) In AL, Cronaca ecc., cit., ibidem,
23) Ibídem.
24) Ibidem, p. 9.
25) Ibidem.
26) Cfr. INDINO-MINERVA (a cura di), op. cit., passim.
27) FRANCO LATINO, Girolamo Comi fra luce e armonia, l'ansia dei raccordi
e i tempi d'una voce interiore, in "Uomini e libri", Milano,
Novembre-Dicembre 1990, XXVI, p. 30.
28) Cfr. Am, f. 5, verbale del 29 febbraio 1948.
29) Cfr. AL, 1, 1949, p. 78.
30) Ibidem, p. 79.
31) Ibidem.
32) Cfr. GINO PISANO', Tommaso Fiore e Luigi Corvaglia attraverso
lettere inedite in "Contributi", V, 1, marzo 1986, pp. 65-79
e ID. Girolamo Comi e Luigi Corvaglia fra teologia e misticismo, in
"Nuovi Orientamenti oggi", Gallipoli, XIX, 1988, n. 106-111,
pp. 21-44.
33) Si legga il suo La religione oggi, in AL, Aprile-Dicembre 1949,
pp. 81-93, una "quasi requisitoria contro la Chiesa" come
lo definì Comi, ibidem, p. 93, che ad Assunto replicò,
insieme con O. Macrí, sullo stesso fascicolo alle pp. 93-97.
34) Dei suoi saggi di estetica si vedano almeno ROSARIO ASSUNTO, Forma
e destino, Milano, Comunità, 1957, ID., Teoremi e problemi
di estetica contemporanea, ivi, Feltrinelli, 1960, ID., Giudizio estetico,
critica e censura, Firenze, La Nuova Italia, 1963, ID., Stagioni e
ragioni sull'estetica del Settecento, Milano, Mursia, 1967.
35) Cfr. Verbale del Convegno del 12 agosto 1948, AL, n. 1, 1949,
p. 78.
36) Ibidem.
37) Ibidem.
38) Cfr. Verbale del Convegno del 27 agosto 1949, in Am, f. 20 e AL,
n. 2-4, 1949, p. 113.
39) Cfr. AL, n. 5-8, 1950, p. 117.
40) Ibidem.
41) Cfr. nota 33.
42) Ibidem.
43) Cfr. Am. f. 10.
44) Ibidem.
45) Ferrazzi, romano, era ordinario di Decorazione presso l'Accademia
di S. Luca a Roma. Spirito inquieto, fondava la sua visione del mondo
su una gnosi mistico-cristiana. E' fra i più notevoli artisti
italiani del Novecento.
46) Si vedano a proposito GABRIELE DE ROSA, Chiesa e religione popolare
nel Mezzogiorno, Bari, Laterza, 1978 (a p. 72: "[ ... ] si moriva
donando terra alla chiesa perché la chiesa con la rendita [degli
ulivi] facesse celebrare messe in suffragio delle anime dei defunti"),
e BRUNO PELLEGRINO, L'ulivo e l'aldilà, in AA.VV., Chiesa e
Società a Carmiano alla fine dell'antico regime, a cura di
M. Spedicato, Galatina, Congedo, 1985, pp. 87-99.
47) La testimonianza mi è stata resa, con la solita squisita
disponibilità dal prof. Oreste Macrì che vivamente ringrazio.
48) Cfr. Am, ff. 37-43.
49) Luigi Corvaglia, in quegli anni, attendeva alla stesura di alcuni
saggi sullo Scaligero che videro la luce sul "Giornale critico
della filosofia italiana" (GCFI). Cfr. LUIGI CORVAGLIA, La poetica
di Giulio Cesare Scaligero nella sua genesi e nel suo sviluppo, in
GCFI, fasc. II, 1959, pp. 214-239 e ID., L'autenticità e la
paternità della poetica di G.C. Scaligero, ivi, fasc. IV, 1959,
pp. 462-484. Per ulteriori rimandi bibliografici cfr. GINO PISANO',
Carteggio inedito fra Bruno Nardi e Luigi Corvaglia: fonti per l'identità
Scaligero-Bordone, in "Otto/Novecento", XIII, 5, Settembre-Ottobre
1989, pp. 185-210.
50) il sonetto è manoscritto da Macrí e firmato con
sigla O. M.. A pie' di pagina si leggono il luogo e la data di composizione
(Montesano Salentino, 1940). Cfr. Am, f. 66.
51) Ibidem, f. 68.
52) Le sue riflessioni confluiranno poi in un saggio; cfr. LUIGI CORVAGLIA,
Note su Gerolamo Baldovino, in AL, n. 19-22, 1954, pp. 83-87.
53) Cfr. Am, f. 78.
54) Tesi confluita poi in varî scritti, Cfr. GIROLAMO COMI,
Piccole note intorno a un grande dramma (André Gide), in AL,
n. 13-16, 1952, pp. 86-93; ID., Il dramma di Gide, "La Gazzetta
del Mezzogiorno" del 4 febbraio 1959; ID., Letteratura e orgoglio,
"Il Popolo" del 19 agosto 1960, p. 5; ID., Gide e il peccato
contro lo spirito, "La Fiera letteraria", Roma, 26 novembre
1961. Sul rapporto che Comi istituì con la cultura francese
cfr. DONATO VALLI, Preistoria di Comi, in AL, XXIV, n. 55, 1976 (n.s.)
pp. 51-83 (ora in ID., Girolamo Comi, Lecce, Milella, 1977 pp. 33-77)
e MARINELLA CANTELMO, Comi prosatore, Cavallino di Lecce, Capone,
1990.
55) Cfr. Am, f. 92.
56) Presenti Oreste e Albertina Macrí, Pierri, Corti, Ciardo,
Comi. Macrí legge una parte di un suo studio sulla poesia di
Comi e commenta uno scritto di Assunto su Picasso. Cfr. Am, f. 98.
57) Cfr. "La Fiera letteraria" del 27 dicembre 1953, p.
5 (""L'Albero" fiorisce d'inverno", art. a firma
M. S.).
58) La lettera da me ritrovata è in veste di minuta. Ne ho
già pubblicato un passo nel mio Lettere inedite di Giorgio
Caproni ecc., cit.
59) Sull'argomento Cfr. le lettere di Anceschi del 23 dicembre 1951
(si parla di una non vera "notizia della fine dell'Accademia"
che suscita una sdegnata reazione in Anceschi: "Io penso che
non è possibile, [ ... ] che di vero c'è solo una piccola
e abbastanza facile e troppo esercitata malignità"), del
17 febbraio 1952 ("Parlando dell'Albero con Sereni [ ... ] mi
ha detto di aver saputo che 'questo è l'ultimo numero'. So
per certo che non è vero; ma queste voci sono spiacevoli e
bisogna stroncarle. Non ho saputo la fonte. Sereni non l'ha detta
- ma posso immaginarla [ ... ] - Non credo che tu sia ancora giunto
al fondo della conoscenza della perfidia del 'mondo letterario'. E'
veramente un 'vaso amaro', un 'calice triste' quello da cui dobbiamo
bere"), del 29 maggio 1955.
60) La lettera è del 9 febbraio [1953]. Anceschi era stato
cooptato, come socio dell'Accademia, da Comi tramite Macrí.
Cfr. lettera del 12 gennaio 1948 ("[ ... ] Grazie, dunque, della
'chiamata' e dell'invito. Ed io che porto affetto alla Puglia [ ....
] mi auguro di portare un buon contributo, se gli anni ci saranno
clementi").
61) Cfr., in ambito salentino, NICOLA CARDUCCI, Foglie secche, "Il
Campo", 10, Maggio-Luglio 1957, pp. 22-25.
62) Lettera del 5 gennaio 1952.
63) Cfr. EDOARDO GENNARINI, Cenacoli e mecenati del nostro tempo,
"Il Mattino" del 26 novembre 1955, p. 3.
64) Cfr. VINCENZO CIARDO, Solitudine di Comi, "I1 Corriere di
Napoli", del 18 novembre 1962, p. 3 ("Mancando di una sicura
base finanziaria, non legata a particolari interessi, la rivista è
andata avanti come poteva, tra stenti e difficoltà che avrebbero
stroncato la buona volontà di chiunque").
65) Comi si avvaleva anche dell'apporto della redazione romana della
rivista. Fra i redattori della Capitale figurano Assunto, Falqui,
Cassieri, Marti, Salvini, Caproni, Del Pizzo, Accrocca, Ulivi, Necco,
Prati e Petroni. Cfr. i verbali del 15 e del 18 marzo 1953.
66) MARIA CORTI, Panta Nifti Scotini: Sempre notte buia, in AL, III,
1950, pp. 72-80.
67) Il fascino che la nebbia ha esercitato sulla Corti ritorna anche
in una bella similitudine nel suo Guido Cavalcanti e una diagnosi
dell'amore, cfr. MARIA CORTI, La felicità mentale nuove prospettive
per Cavalcanti e Dante, Torino, Einaudi, p. 3.