§ Le partenze

Dagli Appennini all'Amazzonia




Rovilio Costa, Luis A. De Boni
Ricercatoti della "Fondazione Agnelli"



Colpiti in Italia da ogni sorta di calamità, dai raccolti pessimi alle imposte eccessive, ai contadini si apri la prospettiva di emigrare in America. All'inizio, era necessario seguire le strade clandestine, generalmente attraverso Marsiglia, perché il governo italiano tendeva a impedire le uscite: fu solo nel 1876, il 28 aprile, che l'emigrazione venne ufficialmente riconosciuta.
Fra la domanda americana e la crisi economico-sociale italiana era necessario, tuttavia, stabilire un collegamento, per spingere i coloni, che non erano mai usciti dal loro Paese ed erano privi di risorse, a lanciarsi in viaggi verso un altro continente. Il collegamento fu realizzato dalla propaganda.
Inviati di governi e di privati percorrevano tutta l'Italia, ingaggiando contadini cui promettevano l'impossibile, raccontando loro le meraviglie della nuova terra. Subito dopo nacquero le agenzie di emigrazione, con un servizio capillare di subagenti, che arrivava fino agli ultimi lembi delle province. Contadini e poveracci di ogni genere, in condizioni disperate, sentivano raccontare cose fantastiche, per esempio che era possibile, in America, guadagnare più di mille lire al mese come tosatore di pecore, o che ogni seme di mais produceva sei grandi spighe.
Ovunque si sentono gli slogan "Morte ai padroni, evviva la Mérica", mentre passa di bocca in bocca una poesia popolare, che sarà il canto del commiato sulla nave:

Noi italiani lavoratori
Allegri andiamo nel Brasile
E voialtri d'Italia signori
Lavorate il vostro badile....

Si vendevano i piccoli possedimenti, a volte un appezzamento di terreno, una casetta, un animale, attrezzi di lavoro, per comprare il biglietto per Genova e per il lungo viaggio transoceanico. Così i coloni partivano per un'avventura in un mondo sconosciuto.
Il viaggio alla volta di Genova era l'inizio di un periodo di delusioni e di sofferenze. Gli agenti di emigrazione, che ricevevano commissioni dai bettolieri genovesi, facevano arrivare i partenti a Genova con parecchi giorni di anticipo, lasciandoli così alla mercé di ogni tipo di sfruttamento. Molti, dopo la debole legge del 1888, viaggiavano già con un biglietto sul cappello indicante a quale taverna erano diretti - il proprietario li aspettava alla stazione - e chi li mandava. Alcuni finivano in veri e propri postriboli; altri venivano derubati dei loro aver i; altri ancora erano costretti a cambiare denaro ai cambi più disastrosi, cosicché una gran parte dei coloni partì quasi senza nulla.
Paulo Rossato, scrivendo ai suoi, disse a questo riguardo: "Nelle taverne a Genova ho speso 19,40 lire. Oltre tutto, con Domingo Fin, era combinato il prezzo di 155 lire, esenti da tasse. Ma quando siamo andati a pagare, ne hanno chiesto 160: tutti ladri. Siamo arrivati due giorni prima, giusto per farci portare via ancora un po' di soldi, a Genova, se potessero, ci porterebbero via anche il cuore... [ ... ]. Fate in modo di venir via da casa, arrivare a Genova e partire subito. Prendete quello che serve a Valdagno. Se vi è possibile portate una bottiglia di rhum, una di olio e delle cipolle [ ... ]".
Finalmente, con mille difficoltà, privati dei pochi averi, ci si imbarcava e si partiva. Più che una nave passeggeri, il bastimento pareva una nave da carico, piena zeppa di persone "messe a bordo e ammucchiate come pecore destinate al mattatoio". Toniazzo, nel suo racconto di viaggio, crede atipica la situazione della nave su cui s'imbarcò per venire in Brasile. Invece, era la regola. La sua nave, da Genova, partì per Napoli e, appena attraccò, "il personale si lanciò a caricare altri 600 napoletani [ ... ] con destinazione Rio de Janeiro e Buenos Aires. Come eravamo ammucchiati in quella nave, mio Dio, quando imbarcarono quasi altrettanti passeggeri! in quella benedetta nave eravamo più di 1.500 persone in terza classe, schiacciati come sardine in scatola".
I racconti di viaggi su altre navi sono molto più sconvolgenti. Non c'era il medico di bordo, si trasportavano persone insieme agli animali, non venivano osservate le norme igieniche, l'alimentazione era insufficiente e perciò le navi diventavano asili di malattie e di morte. Citando vari autori, il Manfroi commenta: "I casi di morte erano frequenti. Sul ''Parà'' si diffuse un'epidemia che uccise 34 persone. La nave "Matteo Bruzzo" vagò per tre mesi, affondando cadaveri. Il naufragio della nave "Sirio" non fu dimenticato nelle colonie italiane del Rio Grande do Sul. "Sirio, Sirio, la misera squadra; per moneta gente la misera fin", cantavano gli immigranti nelle ore di malinconia".
La maggior parte degli italiani, arrivati in America, non vide la fine, bensì l'aumento delle privazioni. In qualunque Paese sbarcassero, se si presentavano come lavoratori, si vedevano in balia di chi cercava solamente braccia che lavorassero; se si presentavano come coloni, li attendevano le foreste, dove la solitudine era la norma.
In Brasile, dal 1881, si sbarcava generalmente all'Isola dei Fiori, nello Stato di Rio de Janeiro, per la quarantena nella "Casa degli immigranti", o, almeno per la ricomposizione dei gruppi, i cui componenti proseguivano poi per la provincia cui erano destinati. Una volta morirono tutti i bambini di un vapore con 1.800 coloni a bordo, perché c'era stata un'epidemia di difterite.
A. Broetto, narrando le peripezie di un colono a Santa Teresa, Espirito Santo, commenta che, quando qualcuno si ammalava, veniva portato a spalle a un ospedale, a 13 chilometri di distanza, "attraverso sentieri dove in Italia non passano nemmeno le capre". "Il cibo che ci davano era carne di bue salata, chiamata carne secca, ma era andata a male e puzzava talmente da far venire la nausea, farina di mais deteriorata, farina di frumento di qualità infima, farina di manioca (chiamata farinhade-pau) cruda, acida, baccalà che puzzava a un chilometro di distanza, lardo pieno di vermi e altri alimenti di questa qualità".
Sui coloni di Morretes, nel Paraná, il deputato Antoni Bon lesse alcune relazioni al Parlamento italiano nel 1880. "Mi trovo qui in croce, pieno di fame, di sete e tradito. Di cento, ci riducemmo a quaranta. Chi perse il marito, chi la moglie, chi i figli. Si dice da queste parti che alcuni del Tirolo si siano mangiati un figlio [ ... ]". "Siamo come animali: senza prete, senza medico. Non si dà neppure sepoltura ai morti: siamo peggio dei cani incatenati. Dì al padrone che io sarei più felice nel suo porcile in Italia che in un palazzo in America".
I fazendeiros paulisti, nello stesso modo e con la stessa mentalità con cui gli anni precedenti si erano rivolti al mercato degli schiavi, adesso si rivolgevano alla "Casa dell'immigrazione" per trovare manodopera per le loro piantagioni. J. Gelain descrisse lo spettacolo: "Facevano proposte stupende, affermando che i fazendeiros erano buoni e coscienziosi. Molti italiani credevano alle bugie degli interpreti e partivano per l'interno. Senza mezzi, facendo la fame e vivendo in miseria, molte coppie vendevano i loro pochi averi per non soccombere. Non trovavano neppure case in cui vivere".
Dopo l'ingaggio, gli immigranti partivano alla volta delle fazendas. Inizialmente, viaggiavano in treno, nelle condizioni più sfavorevoli, spesso stando in piedi per tutto il viaggio. L'ultimo tratto, poi, anche 50, 70 e più chilometri, veniva fatto a dorso di un asino da alcuni, a piedi da altri, sotto le intemperie, dormendo all'aperto.
Finalmente arrivavano alla fazenda. Assoggettati a un caposquadra, spesso schiavo o ex schiavo, a volte italiano, ancora peggio, non vedevano quasi mai il padrone, che, talora, non abitava nemmeno nella fazenda. "L'interno della fazenda è un piccolo villaggio di reclusi": una campana chiama al lavoro, che inizia all'alba e finisce la notte. in molti casi un "pasto che rivolta lo stomaco più robusto" viene portato per tutti. L'italiano riceve un tanto per piede di caffè coltivato e un tanto per il caffè raccolto, ma con questo deve pagare tutti gli acquisti fatti nell'unico magazzino locale, appartenente al padrone. Alla fine dell'anno, per quanto si sia fatta economia e si sia lavorato, è ben poco quello che si riesce ad accumulare.
Una misura delle sofferenze subite dai primi immigranti sbarcati nel Rio Grande do Sul viene data dalla circolare che il ministero italiano degli Interni, del resto poco sensibile al riguardo, si sentì in dovere di inviare: "Sulla situazione dell'emigrazione nel Rio Grande do Sul (Brasile) sono arrivate relazioni ufficiali, in cui sono riportati particolari veramente sconcertanti, che costringono l'Autorità a prendere tutte le misure possibili per dissuadere gli illusi che accarezzano ancora il progetto di trasferirsi in America, attirati da fallaci promesse di speculatori. Gli emigranti giunti a Rio Grande, dove in gran parte il lavoro manca, vengono messi in un capannone coperto di zinco, un tempo deposito di attrezzi navali, mal difeso dal vento, con un sistema di pedane per letto, alimentazione insufficiente e infestato da mille insetti fastidiosi".
La rotta prevedeva quasi sempre un trasbordo a Rio Grande, una sosta a Pelotas, per poi arrivare a Pôrto Alegre, dove un vecchio edificio, "mal costruito e di dimensioni minime, senza le zone necessarie per la cucina, per il deposito dei bagagli e le mense", serviva da ostello. "Entrati i primi cento immigranti, l'alloggiamento è completo e gli altri devono stare nelle vie e piazze adiacenti", diceva la relazione del 1886 (Carvalho, 1977). Chi poteva, cercava pensione nei dintorni, e altri venivano soccorsi dagli italiani residenti nella capitale. Nel 1892, il governo federale annunciò la costruzione di un nuovo edificio, ma poco dopo cancellò lo stanziamento, proprio quando due navi, della capacità massima di circa 400 passeggeri, approdarono con 2.300 persone. Vedendo il numero di morti e di disperati, un giornale scrisse: "Ci chiediamo solo se il Brasile chiami gli immigranti per popolare la terra o i cimiteri".
Poi si doveva partire. Si proseguiva in barca fino a Montenegro e Cai. Nel 1886, nella prima località, c'era una vecchia casa, che ospitava gli immigranti in cantina, che invece preferivano dormire all'aperto. In quell'anno, a Cai, fu costruito un capannone. Non venivano forniti i pasti, né nelle due località né alla fine del percorso, a cavallo e a piedi - in quei sentieri non potevano ancora transitare carrette -. Da Montenegro a Conde d'Eu c'erano 64 chilometri, a Doña Isabel 78 e ad Alfredo Chaves 118.
Da Cai alla colonia Caxias, 66 chilometri (Carvalho, 1977). Un vecchio immigrante raccontava: "Il resto del viaggio (dopo São Sebastião do Cai) fu fatto a dorso di mulo, i miei genitori andavano su una "tubiana". Gli adulti andavano a piedi, io e il mio fratellino fummo messi in due cesti, chiamati jacà, uno per lato".
Alla fine del viaggio, trovavano il capannone degli immigranti, dove la sosta si prolungava in funzione dell'attesa dell'assegnazione delle terre. Molti, che avevano resistito fino ad allora, soccombevano alla soglia di quella che era stata loro descritta come la terra promessa. La morte infuriava nei capannoni. Deboli, con poche cure igieniche, senza assistenza medica - la maggior parte dei dottori erano ciarlatani -1 male alimentati, morivano. Uno di loro racconta: "Ricordo che al dazio distribuivano farina marcia agli immigranti. Fortuna volle, però, che avessimo una buona stagione di pinoli, perché diversamente avremmo patito veramente la fame" (Maestri, 1939). J. Gelain riferisce che un suo zio, che aveva febbre e mal di testa, impazzì e gridava disperatamente. La madre ebbe un bambino, e, "in conseguenza del parto, si ammalò gravemente. Il padre cercò il medico, un certo Napolitano. Questi sbagliò prescrizione, e la povera madre, tra vomiti e gemiti, mori 24 ore dopo. Il giorno stesso morì anche il neonato, di nome Gaetano. Furono chiusi nella stessa bara".
Trascorsi i giorni di permanenza nel capannone, si partiva alla volta del lotto concesso. Il calice dell'amarezza era completo. Ancora oggi, nelle colonie, si sente un canto che ben descrive la situazione:

A la Mérica noi siamo arrivati,
N'abbiam trovato né paglia né fieno,
Abbiam dormito sul nudo terreno,
Come le bestie abbiam riposà...

Nel lotto si costruiva il più rapidamente possibile una capanna di assicelle, coperta con rami d'albero. Era il primo rifugio della famiglia, dove la notte il fuoco era sempre acceso per tenere lontani gli animali feroci e d'inverno per riscaldarsi. Non c'era il minimo conforto; le altre famiglie stavano lontanissime; non esistevano vie di comunicazione; come strumenti di lavoro, solo quei pochi forniti dal governo o portati dall'Italia; vestiti, solo quelli che si indossavano e quando erano consumati non si poteva comprare il tessuto per farne altri.
A. Fortini, traducendo da José Barera, trascrive alcuni racconti che l'illustre prelato raccolse dalla viva voce dei primi coloni: "Se non fosse stato per i pinoli, non so come saremmo sopravvissuti, perché solo all'inizio del 1877 cominciarono i primi raccolti di prodotti essenziali alla nostra alimentazione! Quando venne però la messe benedetta, ci rendemmo conto che erano in molti a contendersela, tra cui scimmie, pappagalli e altri animali e uccelli che assalivano numerosi le piantagioni. Se da un lato ci danneggiavano, dobbiamo confessare per amor di giustizia che spesso riempivano le nostre pentole, procurandoci un brodo e una carne più che saporiti. Altra piaga era quella dei ratti, in quantità incredibile, che rodevano casse, scarpe, e che la notte facevano prendere spaventi terribili a quelli che dormivano. Al Campo Dos Bugres, la direzione della Colonizzazione ci aiutò nel loro sterminio, pagando 500 reis a quarta (otto chili)".
Nella sua semplicità e nel suo dolore, forse nessuna storia di quei tempi può essere però paragonata a quella raccontata da J. Gelain, in parte già riportata nelle pagine precedenti. Orfano di madre, abitava nel Travessão da Barra, vicino al fiume Antas, con il padre e lo zio; non avevano denaro, non avevano una casa propria, e il raccolto era in ritardo. La zia e un'amica, nella cui casa vivevano, andavano a chiedere l'elemosina nei dintorni, in casa di coloni poveri come loro.
"Il giorno in cui si mangiava meglio, il pasto era composto da polenta con zucchero o pezzettini di zucchero grezzo". Sapendo che il governo offriva lavoro sulla strada per Paese Novo, dopo Antõnio Prado, andò con lo zio e alcuni amici. Non avevano i soldi, però, nemmeno per pagare la zattera e così dovettero passare la notte nel bosco, al freddo e senza cibo. Il giorno dopo il proprietario
della zattera, mosso a pietà, li portò dall'altra parte del fiume Antas, dove un colono diede loro della canna da zucchero per placare la fame. A mezzogiorno, finalmente, riuscirono a mettere nello stomaco polenta senza sale. Dopo quindici giorni di lavoro in strada, tornarono, pagando persino il proprietario della zattera. Qualche tempo dopo, sempre in cerca di lavoro, J. Gelain lavorò con tre compagni alla costruzione della ferrovia São Leopoldo-Taquara, dove rimase cinque mesi. Al ritorno, in pieno inverno, fu trascinato dalla corrente mentre attraversava il fiume Santa Cruz. Fradicio, chiese asilo in casa di una famiglia, che glielo rifiutò. "Passammo la notte in un porcile. Andammo a chiedere dell'acqua calda per dare sollievo allo stomaco. I cani addentarono le nostre borse con gli effetti personali, le aprirono e ci strapparono tutto il caffè, mentre lo zucchero si era già liquefatto durante l'attraversamento del fiume. Era una notte di freddo intenso e noi ci trovavamo con gli abiti bagnati e senza cibo. All'alba del giorno successivo ci fu una grande gelata. Verso le due del mattino sentii che le forze mi mancavano e terrorizzato dissi al mio compagno, Antonio Caon: "Antonio, quando arriverai a casa, racconta della tragedia che ci è capitata e soprattutto dì a mio padre che sono morto di fame e di freddo..." [...] Il mio compagno soffiò per due ore, per darmi un po' di calore. E Dio non volle che io morissi".


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