§ Ri-percorsi / 2

Letteratura da Broccolino




A. P.



Esiste una letteratura italiana d'oltre Alpi, come quella francese d'outre-mer o quella inglese del Commonwealth? E' un interrogativo che si è imposto in questi anni attraverso una serie di studi (Miller, Vowel, Bolsworth, Baldelli, Branca, Marchand) e convegni (da Los Angeles a Losanna). Il problema capitale della comunicazione verbale ai diversi livelli è stato ed è ancora per gli italiani il rapporto, o meglio la divaricazione, fra lingua parlata colloquiale e lingua scritta letteraria. E' un problema che tormentò i nostri più grandi scrittori: da Dante, che nel De vulgari eloquentia condannava i linguaggi dialettali e parlati nelle varie regioni, al terrorismo letterario e uniformatore del Bembo, e poi al razionalismo programmatico del Manzoni.
Ma il problema si poneva e si pone nel nostro secolo in senso più vasto e complesso e in modo più drammatico per le decine di milioni di italiani, o di discendenti di italiani, viventi in Paesi confinanti (Iugoslavia, Svizzera, Francia, Austria) e soprattutto nelle Americhe e in Australia. Con quale lingua ritrarre la realtà di quella società americo-italiana di milioni di uomini, dallo spazzino di Brooklyn all'intellettuale dell'Università di California o della East-Coast, o di quella complessa australiano-italiana, o delle masse di contadini e manovali emigrati fra Otto e Novecento nell'America del Sud e ora in molti casi divenuti razza padrona? Come linguaggio quotidiano, quei nostri connazionali e i loro discendenti non avevano più né l'italiano né il dialetto originario, ma non avevano e non hanno ancora nel sangue l'inglese o lo spagnolo. Si esprimevano - e in parte si esprimono ancora - familiarmente in una maniera ibrida, mescidata di quei tre diversi idiomi.
Gli interessi degli studiosi di questo fenomeno, fino a pochi anni fa, sono stati però quasi esclusivamente di carattere linguistico, o dialettologico, e psicologico o sociale. Solo da poco è stato preso in seria e sistematica considerazione l'aspetto culturale e letterario del fenomeno. Eppure, sebbene con dilatazione mondiale e con implicazioni profondamente diverse, tale situazione è analoga a quella che caratterizzava e caratterizza in Italia l'incontro-scontro fra parlato dialettale o gergale o familiare o categoriale (e così via) e lingua ufficiale scritta, sia nella forma amministrativo-burocratica sia in quella letteraria, a tutti i livelli: dal pubblicitario e di comunicazione massiva a quello narrativo e poetico.
Sono due lingue diverse che si scontrano: e la seconda nella vita sociale e comunitaria ha il piglio e i mezzi di imporsi in qualche modo alla prima, e in certo senso di condizionarla, proprio come avviene dell'inglese e dello spagnolo per i parlanti italici nelle Americhe o in Australia. L'urto e la convivenza obbligata creano idiomi ibridi, in cui i più o meno forzatamente bilingui o trilingui hanno costantemente a portata di mano l'altra lingua come serbatoio di innovazioni specialmente lessicali, ma anche fonetiche, morfologiche, sintattiche. Esistono anche in Italia, in pratica e in letteratura, un italiano-sardo, un italiano-siciliano, un italiano furlano per lontananza; come esistono un italiano-veneto e un italiano-lombardo per vicinanza (anche in senso letterario: Simoni e Zanzotto, Gadda e Testori insegnino). E così si potrebbe dire a diversi livelli per quasi tutte le zone dell'Italia dialettale. Nonostante i rapporti diversi, sono idiomi analoghi, sotto certi aspetti, all'italo-americano, all'italo-platino, all'italo-australiano. Ovviamente, sono queste ultime lingue ibride ad avere più chiaramente un certo loro status di nuove lingue, secondo i canoni fissati dal Kloss e dal Weinreich. Hanno cioè: 1) una forma tangibilmente differente da ciascuna delle due lingue di base; 2) una certa stabilità di forma dopo le fluttuazioni iniziali; 3) funzioni diverse da quelle di un vernacolo quotidiano (ad esempio: uso in famiglia, o in gruppo, o nelle comunicazioni formali); 4) considerazione di lingua a sé da parte dei parlanti stessi. Ma proprio quest'ultimo carattere è difficile constatare: ha bisogno soprattutto di una riprova in qualche modo culturale, letteraria.
Il problema che si pone ad uno scrittore che voglia ritrarre personaggi e situazioni della società italo-americana, italo-platina, italo-australiana è fortemente simile a quello che si poneva al Verga. Egli lo dibatteva ampiamente col Capuana: come far parlare i suoi pescatori di Acitrezza? Non certo in un italiano toscaneggiante, letterario e colto, ma neppure in un dialetto municipale e difficilmente comunicabile. Verga inventò la scorciatoia di una lieve patinatura sicula nel lessico e nella fonetica e di una più risoluta sicilianizzazione nella sintassi e nei moduli ritmici. E la formula fu ripresa, ad esempio, nell'italiano-lombardo del De Marchi e nell'italiano-veneto di certe pagine del Fogazzaro e del Simoni. Ed è ancora il modulo usato, su diversi versanti e in certi casi, da Brancati e da Patti, da Pasolini e da Testori, da Bacchelli e da Soldati, da Gadda e da Valeri e da Pozza, per restare in una zona media e temperata, al di qua di risolute esperienze dialettali o espressionistiche.
Gli scrittori interpreti di quelle società binazionali e bilingui nelle Americhe e in Australia non possono certo ignorare l'ibridismo linguistico che ormai le caratterizza, specialmente negli strati più ampi e più popolari. Non possono ritrarre quei ceti facendoli parlare in una delle due lingue - inglese o italiano letterario - perché nessuna delle due è la loro. Del resto, neppure il dialetto d'origine è più il loro idioma quotidiano, imbastardito largamente com'è proprio dall'uso quotidiano.
E' classico ormai l'esempio, su cui già molti anni fa Prezzolini fece un'elegante e suggestiva variazione. "Giobba" non è concettualmente mestiere né impiego né professione né tanto meno arte; ma non è neanche il job inglese come lavoro, occupazione, mestiere. Sono termini, quello italiano e quello inglese, che anche etimologicamente implicano una partecipazione, un'aspirazione, un impegno. "Giobba" è invece il posto avuto senza preparazione o desiderio speciale, distaccato dalla vita dell'uomo, preso soltanto per la necessità materiale. La "giobba", osserva Prezzolini, esprime bene la condizione in cui si trovavano molti nostri emigrati da passaporto rosso quando arrivarono nei porti americani e cercarono un lavoro qualsiasi, tanto da potersi sfamare. "Di giobbe - conclude Prezzolini - è pieno il mondo moderno, e quindi è la parola pronta per lo scrittore che vorrà e oserà adoperarla".
E' un auspicio che non è restato senza seguito e che punta proprio nella direzione di un espressivismo linguistico in questi idiomi di contatto, ibridi, atti a rappresentare una società bietnica e bilingue, con problemi e radici in due diversi terreni antropologici. Anzi, l'aspirazione e il ritorno alle radici, caratteristici degli anni '80, hanno favorito la ricerca e la sperimentazione di un linguaggio che esprima per se stesso quella realtà bipolare.
A mezzo secolo di distanza dall'analisi di Prezzolini, uno dei più intelligenti e pungenti scrittori italiani contemporanei, Italo Calvino, notava che, sì, è difficile definire e capire a fondo gli ambienti americo-italiani e riconoscersi in essi: ma che proprio essi oggi hanno anche rappresentazioni letterarie che sono bestsellers, come quelle di Mario Puzo. E aggiungeva: "Un giorno, forse, un futuro Mario Puzo che avesse una cultura anche italiana alle spalle, che avesse una lingua sua, italo-americana, potrebbe esercitare una funzione di mediazione; o comunque dare una testimonianza più profonda dei drammi che sono stati quelli dell'inserimento degli emigranti in altre società".
Sono due auspici, quello di Prezzolini e quello di Calvino, in certo senso convergenti. E la convergenza sembra messa in rilievo dalla ripresa assidua e dall'uso espressivistico proprio di giobba nell'inglese narrativo di Puzo: come del resto di certe frasi tutte idiomatiche alla siciliana, in senso allusivo-evocativo ("Figlio disgraziato", "Mannaggia America"). Fino alle straordinarie invenzioni lessicali di Michele Corleone, o al tessuto dei discorsi nell'emblematica riunione dei "pezzi da novanta". E la sintassi spesso si modella sul solecismo e il colloquiale caratteristico nell'inglese degli italo-americani. E' un procedimento analogo a quello già usato, senza però mescidanze lessicali, da Di Donato (Christ in concrete).
Attraverso un americano corrente, egli riesce con una sintassi espressivistica a rendere insieme il realistico e pesante pragmatismo e gli sprazzi lirici e religiosi dei colloqui fra italiani.
Siamo risolutamente al di qua dell'esperienza di un inglese scritto con accento e con contaminazioni italiane, quello di vari scrittori di qualche decina di anni fa: come Giorgio Panetta, calabrese di Brooklyn e allievo di City College. La padronanza dell'italo-americano di Brooklyn nelle sue varie sfumature di origine dialettale è in Panetta così letterariamente perfetta che egli crea in Jimmy Pots, in Viva Madison Avenue, in Sea Beach Express i suoi magistrali ritratti in grazia di expIoits espressivistici: basti pensare alla presentazione di Fiorello La Guardia e dei suoi fedeli. Panetta dà a questi personaggi un rilievo caricaturale, un po' alla Singer, mettendoli a contrasto con gli equivalenti anglo-portoricani e gli anglo-yiddish. Giustamente è stato scritto che Panetta ha tracciato con la lingua stessa dei suoi romanzi e racconti il ritratto d'anima degli italo-americani di Brooklyn.
Siamo anche, con Panetta, nell'ambito di un espressivismo linguistico inglese in direzione italica, sia pur rilevato da punteggiature lessicali e da mimesi sintattiche italiane. Addirittura in contaminazioni e ibridismi del linguaggio parlato fra dialetti meridionali e americanismi si arrischiavano anni fa altri scrittori, come Gennaro D'Amaro. Per esempio: "Na vecchia ca tene na grussaria (grocery) se ne venne al sciumé (shoemaker)". "Orrait, sciumé - disse - si aggio a cianza (change) m'ha piglio uaitti (white) scius (shoes". Oppure Ettore Rossi in una popolarissima canzonetta: "E' sciuta quase pazza 'onna Concetta / ha fatto arruvutà tutt'a marchetta (market) / pe' na baschetta (basket) e uno bandolo (bundle)".
Una situazione analoga si sta verificando e sviluppando in Australia; anche se, in senso inverso, la prima opera della letteratura australiana è un romanzo scritto nel 1855 da un urbinate in inglese tutto italianato, cioè The Eureka Stockade, di Raffaello Carboni. Lo spessore culturale dell'anglosassone nel Quinto Continente è, com'è noto, assai minore che nell'America del Nord: permette perciò più facilmente esperienze creolizzanti non solo agli italiani, ma anche ad altri gruppi etnici con una forte cultura alle spalle, come ad esempio i tedeschi. L'australitaliano è ormai divenuto in pochi decenni una realtà rapidamente dilagante. In questi anni si è tentato di puntualizzarne prospettive e possibilità in convegni di studio, soprattutto a Sidney e a Wollong, e in varie inchieste, alle quali hanno dato contributi validi linguisti, critici, scrittori come Comin, Mc Cormick, Carsaniga, Wilton, Bettoni, Rando, e persino l'ex premier australiano Gough Witlam. Ragionevolmente si è concluso che non va certo propugnato l'impiego indiscriminato dell'australitaliano al posto dell'italiano negli annunci, nei giornali, nei programmi radio-televisivi, e così via. Ne va invece studiato e promosso l'uso cosciente a fini artistici. Chi volesse mettere a fuoco la realtà psicologica di un emigrato, facendolo parlare o magari rilevandone gli intimi pensieri, dovrebbe impegnarsi a rendere la sua realtà linguistica, fortemente influenzata anche dalla base dialettale dei luoghi d'origine (soprattutto Valtellina, Venezia Giulia, Egadi, Abruzzo, Calabria). E' quello che raramente ha fatto non diciamo la letteratura italiana sull'Australia (pensiamo a un classico e letteratissimo romanzo di Filippo Sacchi, La casa in Oceania), ma neppure la letteratura australitaliana o italo-australiana, che pure ha avuto una notevole fioritura in questi anni. Perdura la convinzione di dover scrivere "bene". Nel bel mezzo di una lite familiare si fa dire ad un meridionale invalido del lavoro: "Tutti s'interessavano dei fatti altrui, è vero, ma all'occorrenza ci si aiutava reciprocamente"; e alla moglie, semplice casalinga: "Parli di giustizia con troppa leggerezza. La giustizia è quella che solo Dio può decidere con imparzialità"!
Di fronte a queste lingue in contatto, a questi idiomi ibridi, prima c'era una deprecazione orrificata come per peccati innominabili e per deformazioni mostruose; poi c'è stata una asettica constatazione di tipo linguistico o sociologico. Ma ormai siamo passati - con lo stesso Puzo - dalla letteratura della giobba alla letteratura del potere: potere dell'emigrazione italiana dopo il '60-'70, anche in senso intellettuale e culturale, in concorrenza con gli stessi scrittori in inglese.
Oggi è tempo di passare alla considerazione delle possibilità positive; a un impegno - sia in senso creativo che in senso critico - dell'apporto espressivistico che quelle esperienze bilingui e bietniche, ormai secolari, possono dare sia al contesto umano sia alla creazione letteraria, in italiano e in inglese, in spagnolo e in portoghese. E questo è anche l'auspicio di un'esperienza espressivistica finalmente valida, sulla grande linea verghiana, su quella più recente neorealista da Pasolini a Testori a Zanzotto, e anche su quella postmoderna.
Ma, del resto, già all'inizio del secolo, quando il fenomeno migratorio stava imponendosi come un fatto storico, un poeta sognante e simbolista, ma a contatto con quella realtà di popolo lavoratore, aveva teso l'orecchio a questa anima bietnica e bilingue e aveva tentato di interpretarne il linguaggio dolente, nostalgico, intriso di affetti e di passioni nuove. Il Pascoli epigrafava esplicitamente il suo poemetto Italy come "sacro all'Italia raminga". Dando notizia dei suoi compagni: "Parlava la sua lingua d'oltre mare… / Joe, grave: "Oh yes è fiero, vi saluta! / molti bisini, oh yes... No, tiene un frutti / stendo... Oh yes! vende checche, candì, scrima. / Conta moneta: può campar coi frutti. / Il baschetto non rende come prima: / Yes, un salone che ci ha tanti bordi. / Yes, l'ho rivisto nel pigliar la stima... / Poor Molly, qui non trovi il pai con fleva"".
Era, quella del Pascoli, una lirica tenerezza umana e un'epica del lavoro che coinvolgevano insieme le Apuane e la Garfagnana (ma estensivamente, il Sud e il Nord dell'Italia povera) con i grattacieli dell'Hudson e con Broccolino. Era una direzione espressiva intuita, sia pure con incertezze e pargoleggiamenti, dal poeta degli emigranti lucchesi, dall'oratore della "grande proletaria" che s'era "mossa": da uno dei rarissimi scrittori nostri -tuttavia - che si rese conto, quasi in prospettiva omerica, del valore decisivo, in tutti i sensi, che il fenomeno delle trasmigrazioni di popoli tra i vari continenti aveva per la civiltà planetaria.

Ri - percorsi / 3

L'anabasi di un secolo dopo

"Fratelo mio, avrei tanto caro che te vieni un qualche dì a trovarme. Ma se te non puoi, almeno un altro della familia. Noi bene, e voi lì a Cordoba? Fa avere presto notizie. Con afeto tua sorela Rosa Mattarucco. Da Castagnole, addì 26 otobre 1907".
Stringendo in mano la lettera, ormai ingiallita come una foglia di platano in inverno, un giovane suona il campanello della stessa casa dalla quale il biglietto era stato scritto, in un giorno lontano. Pensa che forse è troppo tardi. Il timbro postale non lascia dubbi: racconta che, da allora, sono passati 83 anni. In realtà, poi, è trascorso più di un secolo - e lui lo sa bene - da quando il destinatario dell'appello era partito per l'America. Un emigrante come tanti altri. Si chiamava Giovanni e né lui né suo figlio Emilio, né suo nipote Dante sono mai tornati da laggiù. Da quel viaggio in piroscafo, il primo che reincontra i parenti rimasti qui è Carlos, il bisnipote, argentino da tre generazioni: il ragazzo che ora aspetta con ansia di vedere chi gli aprirà la porta.
Può sembrare una favola ma c'è ancora la prozia Rosa, ormai vicina ai cento anni, ad accoglierlo nel borgo veneto dove da quel momento si ferma a vivere, e trovando finalmente di che vivere. E non c'entra nulla con le favole il motivo che ha spinto l'ultimo Mattarucco a compiere a ritroso il percorso del bisnonno per cercare fortuna da noi, questa volta: una crisi economica disastrosa come una bufera, che sferza molte nazioni del Sudamerica e cancella fabbriche e risorse, un'inflazione che, in certi luoghi e in certi periodi, supera il 1.200 per cento e azzero risparmi e capitali messi insieme in decenni di lavoro da formiche.
E per questo, sono in tanti a riattraversare l'Atlantico, ora: discendenti di quell'esercito di contadini, di artigiani, di operai, di commercianti che avevano "fatto la Mérica". E fatta sul serio, costruendola anche sotto il profilo demografico, considerato che dei 63 milioni di nostri quasi-connazionali (di lingua o almeno di cognome) sparsi ovunque fuori dai confini, una buona metà sta appunto in quello spicchio di mondo. Tornano i figli, i nipoti, i pronipoti di quei pionieri.
Sono migliaia di "fratelli d'Italia" che, appena sbarcati, spesso si accorgono di essere meno fratelli -in diritti, in solidarietà, in possibilità -di qualsiasi altro emigrante. Un fenomeno silenziosa, che da alcuni anni si va distillando in una infinita di pratiche istruite presso i Consolati d'Argentina, del Venezuela, del Brasile, dell'Uruguay, e che al ministero degli Esteri, a Roma, desta non poche preoccupazioni.
Per capire queste moderne odissee, forse è sufficiente ripensare alla vicenda di Fastro, un paesino sopra Feltre, nel Bellunese. Una mattina del 1866 partirono tutti, settanta coppie di sposi, con bambini e vecchi al seguito e con il prete in testa per il Rio Grande do Sul. La loro nave fece naufragio, furono salvati e reimbarcati, si stabilirono al limite della foresta, la disboscarono, la resero coltivabile e vi si dispersero, tanto che non se ne seppe più nulla. Ecco: oggi è come se le cento e cento Fastro del Nord e del Sud d'Italia si rianimassero un poco al giorno, con uomini e donne che cercano casa e lavoro parlando dialetti strani, usando espressioni antiche e dimenticate in un sottofondo assolutamente straniero. Ogni faccia ha, dietro, una storia, tutte insieme festeggiano il Columbus Day, ma anche El dia de la raza; parlano spagnolo o portoghese, più raramente l'italiano impastato di arcaismi; si interrogano sulle rispettive vicissitudini; si informano sulle leggi per ottenere la cittadinanza che fu del loro antenati, condizione indispensabile per ottenere un lavoro e un alloggio: ancora una volta pionieri, come i padri e i nonni che, giovani, giunsero ad Almacen de Campo, anticamera della Márica di Córdoba.
Sono, queste facce, le avanguardie di un esercito che assedia i nostri consolati in Argentina e altrove, con le valige pronte. Accanto alle storie dei nostri emigranti sparsi nei Paesi della Comunità europea e che sperano di diventare cittadini del Vecchio Continente nel '93, com'è stato loro promesso, ci sono le storie sconosciute di questi uomini, che sperano di diventare cittadini italiani: un secolo dopo che i loro antenati lasciarono l'Italia, e al termine delle loro anabasi della speranza.

Nuovo Mondo?

Maledetta Mérica

"La storia che nessuno racconta": è quella degli italiani costretti ad emigrare nelle due Americhe, l'altra faccia di un esodo di dimensioni bibliche, il volto nascosto, la testimonianza tremenda di che cosa era, un secolo fa, ma anche molto meno di un secolo fa, questo disperato "viaggio della speranza". Esistono, sul tema, una mediocre saggistica e buone ricerche. Assente la narrativa. Di recente, solo la Fondazione Agnelli ha condotto un'analisi (un lavoro durato sei anni) sull'emigrazione italiana nel Nuovo Mondo: un volume dedicato alle correnti dirette negli Stati Uniti, uno a quelle giunte in Argentina, un altro ancora a quelle che si prefissero come meta il Brasile.
Da sempre il nome di Ellis Island è sinonimo di immigrazione ed evoca nel cuore degli americani un misto di sentimenti tra la nostalgia e l'orgoglio. Al ricordo delle traversie e del dolore nel lasciare la propria terra, si uniscono la dolcezza delle memorie e l'appagamento di un sogno avveratosi: quello di una vita migliore.
Ai tempi delle colonie, Ellis Island era stato usata come luogo per le esecuzioni dei pirati catturati al largo di Long IsIand. La prima stazione di immigrazione fu aperto nel 1892. Entro il 1924, anno in cui il governo americano limitò l'immigrazione, circa dodici milioni e mezzo di persone erano passate per le porte di questo isolotto, che insieme con la Statua della Libertà guarda la punta estrema di Manhattan. Oltre due milioni provenivano dall'Italia. Chiusa definitivamente nel 1954, quando le pratiche per l'immigrazione furono trasferite ai Consolati all'estero, presentò un computo totale di persone registrate di 26 milioni. Il giorno di massima affluenza era stato il 17 aprile 1907, quando furono esaminati 11.747 immigrati. Oggi, cento milioni di americani, il 40 per cento della popolazione, possono vantare almeno un antenato passato per Ellis Island.
Antenati che avevano viaggiato in classe economica, nelle "stive piene di sogni"; che avevano superato l'atrio, lo scalone di legno (dove campeggiava la scritta "Visita medica in sei secondi": questo, il tempo necessario ai medici per la prima "selezione", che escludeva menomati fisici, malati di bronchite cronica, di cuore, di tbc, bolscevichi e anarchici, e, spesso, le donne nubili sole, nel timore che andassero a ingrossare le file delle prostitute), e infine il Registry Room, con l'ultima visita medica (per il tracoma, per altre malattie infettive) e con l'assegnazione dei documenti di residenza. Tuffo questo, in tre-cinque ore, dopo un viaggio durato quattro settimane. Un migliaio di persone al mese, in Media, erano rispedite a caso. Infine, il viaggio in battello per New York, e in treno per gli States interni. Dei 50 milioni di immigrati che il resto del mondo ha dato a quest'America, 30 non ce l'hanno fatta e sono tornati in patrio.
L'impatto era memorabile. Guerino Salerni, oggi architetto di 85 anni, arrivò nel 1919. Proveniva dagli Abruzzi. li ricordo più forte che gli rimane è quello del refettorio, dove venivano serviti "tanta marmellata, tante confetture e tanto pane bianco che non avevo mai visto prima". Orazio La Cugna, pugliese, giunto nel '20, ricorda "la grande impressione che ebbi quando ci portarono nei dormitori: lenzuola bianche, piastrelle bianche, tutto così pulito ... ".
Lasciata l'isola, la realtà si imponeva con tutta la sua carica di speranza e di brutalità. Un vecchio detto italiano riflette la filosofia degli emigranti: "Sono venuto in America perché avevo sentito che le strade erano lastricate d'oro. Quando sono arrivato, ho trovato tre cose: le strade non erano lastricate d'oro; le strade non erano lastricate, toccava a me lastricarle".
Lentamente, la porta di Long Island cominciò a serrarsi. Si formarono leghe anti-immigrazione che orchestrarono campagne sulla base delle "prove scientifiche" dell'"inferiorità degli immigrati dal Sud e dall'Est d'Europa". Il senatore Henry Cabot Lodge, del Massachussetts, affermò che "italiani, polacchi, ungheresi, greci e asiatici sono razze con cui le genti anglofone non si sono mai assimilate e sono le più aliene al corpo delle genti americane". La dottrina "nativista" si fecestrada. Nel '24 furono stabilite le "quote nazionali", mantenute fino al '65. Oggi il limite è di 20 mila persone all'anno per ciascun Paese, per un tetto massimo complessivo di 270 mila nuovi immigrati. La nuova Ellis Island si chiama J.F. Kennedy Airport. Sono sempre banditi i "sovversivi" e, tra le nuove categorie, i portatori del virus Hiv, responsabile dell'Aids.
La vecchia Ellis Island è un gigantesco museo nel quale i reperti, fra le altre lingue mondiali, parlano in gran parte dialetti dell'Italia meridionale, ma anche del Triveneto, della Padania e della Liguria. La retorica dell'isolotto della speranza è certamente parte del tentativo di ripristinare l'ideologia nazionale dell'ottimismo, in un momento di incertezza e di esami di coscienza per un Paese alla prese con problemi sociali che stanno degenerando nella tragedia. E' sintomatico che la ricerca di fiducia avvenga nel passato, con un recupero, cioè con un restauro, invece che con un progetto dedicato al futuro. Ma all'America si è sempre rimproverato di non avere un passato sul quale basarsi, e magari al quale ispirarsi. Forse il Nuovo Mondo ha superato la fase giovanile e sta imparando a vivere anche di ricordi.


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